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Walden ovvero vita nei boschi.


Nel 1989 un film di Peter Weir, con protagonista uno straordinario Robin Williams, uscito in Italia con il titolo di “L’attimo fuggente”, suscitò un ampio dibattito pubblico su temi che – secondo alcuni – anticiparono quelli del movimento di protesta studentesco che prenderà poi il nome de “La Pantera”. Il film ebbe il merito di far rileggere i versi di alcuni poeti, come Orazio e Walt Whitman, ma anche l’opera di un eclettico filosofo e poeta statunitense, allievo ed amico di Emerson, dedito alla critica del mercantilismo e alla pratica della disobbedienza civile: Henry David Thoreau.
Proprio H. D. Thoreau, fu protagonista di un esperimento di vita solitaria a stretto contatto con la natura protrattosi per circa due anni in una capanna di legno – da lui costruita – sulle rive del lago Walden in Massachusetts. Di quell’esperienza Walden ovvero vita nei boschi (BUR, Milano 1964) è il resoconto e l’opera più nota del nostro autore.
Molte pagine di quel libro contengono riflessioni estremamente attuali sul rapporto tra uomo e natura, tra individuo e società, tra ozio e lavoro che negli anni sono state riprese da altri filosofi e scrittori i quali hanno provato esperienze di vita concettualmente simili. Non ho mai vissuto a lungo nei boschi, ma nelle righe che seguono posso dire di aver ritrovato alcune sensazioni provate durante le mie brevi permanenze nei boschi del Monte Maggiore.
«Non lessi libri, la prima estate; zappai fagioli. Non solo; spesso facevo di meglio. A volte non potevo permettermi di sacrificare a nessun lavoro, sia mentale che materiale, il fiore del momento presente. Amo che vi sia un largo margine di respiro, nella mia vita.
Talvolta, qualche mattina d’estate, dopo avere fatto il solito bagno, sedevo sulla soglia della capanna, dall’alba al tramonto, rapito in fantasticherie, tra i pini e i noci americani e i sommacchi, in solitudine e silenzio indisturbati, mentre gli uccelli cantavano attorno o svolazzavano quieti per la casa, finché, o il sole che penetrava attraverso la mia finestra a occidente, o il rumore del carro di qualche viaggiatore, lontano, sulla strada maestra, mi facevano ricordare il trascorrere del tempo.
In quelle stagioni io crebbi come il grano di notte – ed esse erano assai meglio di qualsiasi lavoro manuale. Quel tempo non fu sottratto alla mia vita, ma mi veniva concesso in sovrappiù, oltre a quello che usualmente m’è elargito. Capii cosa gli Orientali intendano per contemplazione e abbandono del lavoro. Per la maggior parte, non mi curavo che le ore passassero. Il giorno avanzava come per illuminare qualche mio lavoro; era mattina e – guarda! adesso è sera, e io non ho fatto nulla degno di nota.»

Ivo Grillo