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Saggio storico sulla rivoluzione napoletana.


È quando se ne scrive il racconto, consegnandone alla storia protagonisti e vicende, che una rivoluzione chiude, per certi aspetti, il proprio ciclo. E questo racconto potrà avere il tono esaltante della celebrazione, piuttosto che quello cupo e severo della condanna o ancora quello analitico dell’indagine scientifica. Proprio quest’ultimo è il tono e l’atteggiamento complessivo dell’opera che Vincenzo Cuoco dedicò ai fatti accaduti a Napoli nel 1799, partendo dalla considerazione che “le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell’uomo quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura”.
Nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana(Classici UTET, Torino 1975), Cuoco passa in rassegna i fatti che precedettero e accompagnarono l’esperienza della Repubblica Partenopea del 1799, cercando non solo di trarne insegnamenti generalmente validi, ma anche criticando gli errori dei patrioti che finirono col determinarne la tragica conclusione. 
«Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si presenta un capo, che le voglia riunire, la riunione non seguirà giammai. Ma se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la rivoluzione, ed andrà avanti solo per quell’oggetto che è comune a tutti. Gli altri oggetti rimarranno forse trascurati? No; ma ciascuno adatterà il suo interesse privato al pubblico, la volontà particolare seguirà la generale, le riforme degli accessori si faranno insensibilmente dal tempo, e tutto camminerà in ordine.
Non vi è governo il quale non abbia un disordine che produce moltissimi malcontenti; ma non vi è governo il quale non offra a molti molti beni, e non abbia molti partigiani. Quando colui che dirige una rivoluzione vuol tutto riformare, cioè vuol tutto distruggere, allora ne avviene che quelli istessi, i quali braman la rivoluzione per una ragione, l’aborrono per un’altra: passato il primo momento dell’entusiasmo, ed ottenuto l’oggetto principale, il quale, perché comune a tutti, è sempre per necessità con più veemenza desiderato e prima degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il dolore di tutti gli altri sacrifici che la rivoluzione esige. Ciascuno dice prima a se stesso, e poi anche agli altri: Ma per ora potrebbe bastare…Il di più che si vuol fare è inutile…è dannoso. Comincia ad ascoltarsi l’interesse privato; ciascuno vorrebbe ottener ciò che desidera al minor prezzo che sia possibile; e, siccome le sensazioni del dolore sono in noi più forti di quelle del piacere, ciascuno valuta di più quello che ha perduto che quello che ha guadagnato.
Le volontà individuali si cangiano, incominciano a discordar tra loro; in un governo, in cui la volontà generale non deve o non può avere altro garante ed altro esecutore che la volontà individuale, le leggi rimangono senza forza, in contraddizione coi pubblici costumi; i poteri cederanno al languore; il languore o menerà all’anarchia, o, per evitar l’anarchia, sarà necessità affidar l’esecuzione delle leggi ad una forza estranea, che non è più quella del popolo libero, e voi non avrete più repubblica.
Ecco il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che il popolo vuole e farlo: allora vi seguirà; distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arrestarvi tosto che il popolo più non vuole: egli allora vi abbandonerebbe. […]
La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione…»
La repressione seguita a quel moto rivoluzionario fu di inaudita ferocia ed ebbe l’effetto di privare Napoli di numerose donne e uomini di grande spessore. A questa repressione ha dedicato pagine accorate un celebre meridionalista, Giustino Fortunato. A lui e alla questione meridionale, che di tanto in tanto torna a fare capolino sulla scena politica nazionale, magari dedicherò uno spazio in future pubblicazioni su questo periodico.

Ivo Grillo