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Almeno 5

Fin dalla più tenera età, le persone comuni fanno di Dio, e del divino in genere, un’esperienza quasi esclusivamente visivo/uditiva. Dio si manifesta alla stragrande maggioranza degli uomini attraverso la sua Parola, attraverso i testi sacri. Eppure, le sacre scritture sono traboccanti di episodi in cui l’esperienza del contatto divino passa attraverso gli altri sensi di cui l’uomo dispone. A queste esperienze sensoriali di Dio, Erri De Luca insieme al teologo Gennaro Matino, dedicarono un po’ di anni fa un bel libro dal titolo Almeno 5 (Feltrinelli, Milano 2008). 
Di tutto quel volumetto, il capitolo che mi affascinò di più fu quello dedicato al gusto, al miracolo della manna piovuta dal cielo su un popolo affamato in cammino nel deserto. Probabilmente perché di questo episodio biblico avevo una scarsa conoscenza ed un’idea piuttosto ironica, dal momento che mio padre – quando voleva indicare qualcuno che non faceva abbastanza per provvedere alle proprie necessità oppure per la soluzione dei propri assilli – era sovente dire: “Quello lì aspetta che gli cada la manna dal cielo!”. Per questa ragione, sin da bambino, mi ero formato l’opinione che questa manna, fosse una sorta di pane degli sfaticati.
La rilettura analitica dell’episodio, mi aprì invece un orizzonte sconosciuto sulla tecnica del dono.
«Nell’atto di offrirlo in dote al popolo avviato nel deserto, il donatore precisa: “per mangiare”. “E fece piovere sopra di loro manna per mangiare” (Salmi 78,24). E per cos’altro, se no? Era cibo e serviva per quello. Il donatore la sapeva più lunga: il cibo si può anche accaparrare, farne incetta, rivenderlo poi. Insomma se ne può fare mercato. Il donatore dice di no, serve solo per mangiare, e fa in modo che così sia.
La manna, maschile in ebraico, era fornita di un dispositivo di autodistruzione: se non consumata in giornata, marciva.  […]
L’indispensabile non è merce, questo insegna il dono della manna. In seconda battuta il donatore si preoccupa della quantità pro capite. La distribuzione è punto nevralgico del dono: a ciascuno secondo sua porzione fissa, niente di più o di meno. La distribuzione dev’essere stabilita su rigida uguaglianza. Nessuno può fondarci sopra un privilegio o un torto. Nessuno aveva motivo di guardare nel piatto del vicino, stabilire una comparazione.
Ultimo accorgimento, strano: ne avanzava. Dopo la raccolta ne rimaneva al suolo un’eccedenza che si scioglieva al sole. Come mai? Si sbagliava sulle quote? No, faceva in modo che a nessuno capitasse di andare a raccogliere l’ultima porzione, che sempre somiglia a quella scartata dagli altri. Anche l’ultimo raccoglitore aveva diritto di scelta. Si impediva così la corsa per accaparrarsi la prima scelta, per scansare l’ultima. Quest’accortezza era bella quanto l’intero dono».

Negli anni successivi a questa lettura, il dono della manna ha continuato a rappresentare per me un modello di riferimento – soprattutto nel lavoro di servizio sociale – per la costruzione di interventi di sostegno che non compromettessero mai la dignità e l’autonomia delle persone.


Ivo Grillo