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La quinta scuola: Suor Orsola

Per chi non lo sapesse, Orsola Benincasa (1547) fu  una mistica napoletana, fondatrice delle romite e delle oblate dell'Immacolata Concezione. Fu una  delle maggiori esponenti della Napoli controriformata.  Al papa Gregorio XIII dichiarò di aver ricevuto da Dio l'incarico di trasmettergli un messaggio di riforma per tutta la Chiesa. La suora, in seguito, espresse una religiosità militante ed autonoma che le istituzioni ecclesiastiche  riuscirono solo col tempo a ricondurre entro i limiti consentiti: l'autorità ecclesiastica, infatti, fu costretta a dichiarare "laico" il suo ritiro, e a sottoporlo ai controlli di un ordine religioso maschile.

Quando il controllo venne affidato ai teatini, questi proposero alla mistica di affiancare alle oblate un ordine di severa clausura, in modo che diventasse il "braccio" femminile dell'ordine di San Gaetano.

Questo progetto, presente in uno dei testamenti di suor Orsola, fu il primo passo che comportò la costruzione di un gigantesco complesso  e i lavori d'innalzamento della struttura cominciarono dopo il 1620.

Il progetto architettonico prevedeva la costruzione di una cittadella esternamente semplice, ma complessa nell'articolazione dei fabbricati, in quanto avrebbe dovuto tener conto della morfologia irregolare della collina sulla quale sarebbe stata costruita.

Il cuore del complesso, composto da tre fabbricati disposti a U, rimane  estremamente riservato ed è architettonicamente nascosto  da una monumentale cinta murata, completamente in tufo ed alta 20 metri. Tale carattere di riservatezza resiste a dispetto della sovrapposizione di una immagine pubblica di scuola e di università, raffinatamente definita e quasi tirata a lucido.  Sospesa alla collina e padrona dello spazio la cittadella conserva orgogliosamente il carattere del monastero e sembra rifiutare il ruolo che di volta in volta le viene ambiziosamente  assegnato. 

Il corpo della mistica è in una cripta, in una cassa di legno, in attesa di un sepolcro più degno, in attesa della canonizzazione; nel 1753 era ancora perfettamente conservato, ed una lapide ricorda  quella ricognizione.

La dimensione culturale non intacca quella spirituale, soffusa e percepibile con maggiore difficoltà dopo le ricostruzioni ed i restauri. Le monache vi si aggirano ancora, confinate negli abbaini ma affacciate ai terrazzi nelle notti estive. Non è dato sapere quanto serena e consapevole fosse stata la loro scelta, quanto la loro clausura fosse rigorosa, quanto quella vita risultasse di fatto intollerabile. 

Quelle persone forse assunsero, nell'immaginazione del popolo, una forma corporea destinata a durare nel tempo a dispetto della sua impalpabile e  vaporosa consistenza, fluida ed asciutta, fosforescente, capace di produrre suoni, sia che fossero gemiti, sia canti, e specialmente nenie per bambini non nati.  In certe sere, se ne poteva persino percepire l'odore.

 Alla scuola si addicono i grigi luminosi e i giochi d'ombre, le voci bisbigliate che si rincorrono lungo gli  interminabili corridoi e lasciano sospettare l'esistenza di stanze segrete. Gli antichi pavimenti, i dipinti e le decorazioni rendono preziosa la giornata di lavoro, gli affreschi inorgogliscono chi vi entra, la chiesa sconsacrata porta il nome inebriante di Sala degli Angeli. 

In quel periodo facevo un sogno ricorrente. Con un gruppo di colleghe mi trattenevo a scuola,  in attesa di una qualche riunione pomeridiana, e dopo aver consumato uno spuntino si chiacchierava del più e del meno, tra donne. Poi una diceva di farci un giro esplorativo, una ricognizione avventurosa al piano superiore, dove non andavamo mai, una specie di sottotetto legnoso e polveroso come le soffitte di tanti vecchi film, di cui ero un'avida collezionista. La ricognizione aveva luogo, e salivamo attraverso cunicoli e scale a chiocciola verso ambienti illuminati da strette feritoie, dove molte porte erano state murate. Una sola porta aveva ancora i battenti, corrosi e stinti, che non sembravano serrati ma solo accostati... spintili  tra cigolii e lievi resistenze, si offriva allo sguardo la vista di una grandissima stanza, un ambiente dal soffitto alto  ed i pavimenti maiolicati, che a prima vista sembrava abbandonata ma che a guardarla bene rivelava leggere presenze. Se il sogno continuava, e non era un sogno angoscioso, le presenze rivolgevano i loro sguardi verso di noi, giovani insegnanti, e sospendevano per un attimo le loro attività. Nel pulviscolo dorato di sole che penetrava nell'ambiente dalle finestre, questa volta ampie, era possibile osservare un gruppo di suore intente a stirare, un altro a ricamare, ed in un angolo della stanza qualcuna faceva dondolare una culla bianca, cantando una nenia sommessa e assai dolce. 

L'estasi durò poco. Con tutto il cuore sperammo che quella immagine riservata e severa potesse con la forza del lavoro determinare una sostanza altrettanto profonda e complessa.  Le allieve di quel tempo, che ancora mi fanno visita e mi manifestano il loro affetto, solo per un miracolo d'amore incontrarono la bellezza dell'arte e della poesia. Insegnare era difficilissimo, superare le distanze culturali e personali un atto eroico. Pure, sostenute dal calore luminoso dei terrazzi, dall'affetto delle bidelle, dai fiduciosi sorrisi dei colleghi, siamo riuscite ad inventare con piccole magie un mondo che non c'era. Di quelle felici invenzioni nessuno si accorse tranne le mie allieve, che amai con la forza della giovinezza e della disperazione, quasi a volerle strappare dalle antiche celle monacali. Alcune di loro ricordano ancora le mie lezioni. Infine, posi una pietra tombale sulla gratitudine e sulla capacità di riconoscere i meriti da parte di chi dirigeva la scuola, e decisi che bisognava fuggire, una volta e per sempre.

 

Tratto da : Maria Colaizzo -  “La Scuola Marginale” - Edizioni Millerighe, Napoli 2015