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Il poeta bambino

 

Sergio Corazzini nacque a Roma il 6 febbraio 1886 e vi morì il 17 giugno del 1907, a ventun'anni. Se ne parlava in casa mia, perché le sue poesie piacevano alla nonna e perché la sua malattia - la tubercolosi - era la stessa che aveva portato via giovanissima la prima moglie del nonno. La nonna, che riteneva naturalmente che une honnéte fille ne lit point de libres d'amour, e che la lettura più adatta alle donne fosse quella dei testi religiosi, si lasciava tuttavia attrarre da quel che si diceva sul giovanissimo e dolcissimo poeta, una creatura sfortunata.  La famiglia tutta di Corazzini era minata dalla tubercolosi. Ne sarebbero morti la madre, Carolina Calamani, ed il fratello Gualtiero. Dopo la scuola elementare, la sua istruzione era proseguita a Spoleto, al Collegio Nazionale. Il padre, a Roma titolare di una tabaccheria, trovatosi in difficoltà finanziarie, dovute ad errate speculazioni in borsa e ad un tenore di vita irresponsabile, ritirò i figli dal Collegio e lasciò Spoleto. Gli studi del giovane Sergio si fermarono al ginnasio e il ragazzo, per aiutare la famiglia, si impiegò presso La Prussiana, una compagnia di assicurazioni. Abitava in una casa buia e triste, senz'aria e con le inferriate alle finestre. Imparò precocemente a fare i conti con la povertà. L'altro fratello, Erberto, sarebbe morto in un incidente d'auto in Libia ed il padre in un ospizio.

Nella primavera del 1905 per l'aggravarsi della malattia si ricoverò in un sanatorio Nocera Umbra; la mancanza di mezzi lo costrinse a chiedere aiuto economico ai parenti della madre, cremonese.  Tra il 1904 e il 1906 furono pubblicate le sue raccolte poetiche: DolcezzeL'amaro caliceLe aureolePiccolo libro inutileElegiaLibro per la sera della domenica. Nel 1906 si ricoverò nella casa dei Fatebenefratelli di Nettuno, in condizioni assai precarie. In quell'anno tenne una corrispondenza con Aldo Palazzeschi, finché nel maggio del 1907 ritornò a Roma e il 17 giugno, nella sua casa di via dei Sediari, morì. Nella sua breve vita (marginale?) era entrata la letteratura da quando, nel Caffè Sartoris, accanto alla tabaccheria del padre, aveva partecipato ad incontri letterari con tanti giovani intellettuali ed artisti. Nonostante gli studi interrotti, aveva letto intensamente e di tutto, dai grandi italiani ai poeti francesi, ai fiamminghi, ai dialettali. 

 

Vinto, 1906

Mamma questa è la vita?! Allor la santa
felicità infantile non perdura?
Il riso che irradiava la mia pura
fronte, non verrà più?! Ah mi si schianta

l'anima, mamma mia, ed ho paura!
Io mi sento morire. Quanta, quanta
dolce felicità di bimbo, ha infranta
con l'andar della vita, la sventura!

Oh non credere mamma ch'io sia vile!
No! Te lo giuro. Ho avuto sempre fede
in questo Dio che mi fa spasimare!

Io sono come un albero sottile;
cui cadono le foglie e che le vede
cadere senza poterle richiamare.

 

La felicità perduta dell'infanzia rimanda all'innocenza dell'immaginario dei bambini, per i quali la letteratura non è tenuta ad assumersi la responsabilità del reale. Quella felicità si poteva frammentariamente richiamare attraverso le piccole cose, così importanti per i bambini, capaci di rassicurare quando si è soli e si ha paura. Al linguaggio del bambino malato si sarebbe affiancato quello consapevole dell'adulto, che non trova il sublime (Luperini) nella poesia, ma vi cerca l'autenticità. Arte e vita si sovrapponevano come in D'Annunzio, e non per celebrare trionfalmente la potenza, bensì la debolezza umana. Il fanciullo piangente non era il fanciullino pascoliano, che rendeva il poeta un essere speciale, privilegiato, insostituibile; era la cifra di una poesia che si scrolla da dosso con un gesto di amara protesta la cappa regale e indossa i panni del misero e del malato.

 La marginalità non viene vissuta da Corazzini come una condizione tragica e privata, ma esibita con onestà. Ritirarsi dall'esistenza riconoscendo l'assenza di prospettive è il segno di un eroismo appunto marginale, molto scomodo per chi si rifiuta di rinunciare allo status precedente, riconoscere il cambiamento, ammettere che nella sofferenza c'è il senso ultimo della vita. Il linguaggio poetico, scegliendo il registro del pianto dimesso, analogamente denuncia con forza sottintesa la prosopopea accademica di una letteratura che, per avere un ruolo, si insuperbisce ipocritamente e preferisce rimanere suddita di modelli sterili anziché cercare la via del rinnovamento per non rinunciare a mantenere il contatto con la realtà.  Il poeta ritorna poeta quando diviene consapevole di non esserlo, e l'intellettuale ritorna intellettuale quando protesta perché gli si vuole far credere che esistano ancora delle prospettive. Salvi dalla tubercolosi, sono molti i giovani artisti che oggi si muovono in questa direzione. Non bisogna aver paura delle avanguardie, ma tenerle care, e proteggere gli artisti che pagano con il prezzo dell'isolamento e della incomprensione la propria onestà intellettuale.

Nel mondo globalizzato e mercificato schiavo del denaro e della guerra la poesia dichiara spudoratamente la propria fragilità ed inutilità, testimone e martire nello stesso tempo.

 

Tratto da: Maria Colaizzo - “La Scuola Marginale” - Edizioni Millerighe, Napoli 2015