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 Riceviamo e volentieri pubblichiamo un pezzo di Sara Olivieri, vincitrice della sesta edizione del Premio Lucia Mastrodomenico (NdR)

 

Il Charity Shop: una risposta all’emergenza sociale

 

Quella della condivisione è una vera e propria forma d’arte e i charity shops ne sono una bellissima galleria espositiva. I charity shops, conosciuti anche come “opportunity shops” in Nuova Zelanda e come “depositi di risparmio” negli Stati Uniti, sono negozi dell’usato gestiti da organizzazioni benefiche per il fundraising. Tra le organizzazioni di beneficenza che gestiscono questo tipo di iniziativa ci sono Oxfam, confederazione internazionale di organizzazioni no profit che ha tra i suoi principali obiettivi quello della riduzione della povertà globale, la British Heart Foundation, un’associazione britannica che raccoglie fondi destinati alla ricerca di cure per diminuire l’incidenza di infarti, l’organizzazione Marie Curie, che invece supporta malati terminali. Insomma, come si può immaginare, sono davvero numerose le organizzazioni che si pongono obiettivi tanto vari quanto virtuosi. 

Ogni charity shop è quindi un mondo a parte, perché può decidere di concentrare la propria vendita su qualcosa in particolare: semplicemente la parola d’ordine è “secondhand goods”. Vestiti, libri, giocattoli, CD, vinili, accessori, album musicali, oggetti per la casa sono i beni usati che vengono principalmente venduti. Talvolta, a questi beni in vendita a prezzi molto competitivi, si aggiungono anche alimenti o altri prodotti che seguano sempre certi principi: Oxfam, ad esempio, vende prodotti del commercio equo e solidale. Frequentati da ogni categoria sociale, i charity shops caratterizzano anche le strade dei quartieri delle città europee più ricche. La madrepatria di questi negozietti dell’usato è il Regno Unito: era il lontano 1899 quando venne inaugurato uno dei primi charity shops della storia dalla Wolverhampton Society for the Blind, anche se fu la Seconda Guerra Mondiale a segnare l’inizio della loro diffusione (spesso erano i proprietari dei locali adoperati per questi negozi a sostenere le spese per l’illuminazione). Attualmente nell’UK si contano 9000 charity shops appartenenti a 300 organizzazioni benefiche diverse; anche negli USA sono piuttosto popolari, un po' perché forzieri di moda vintage e un po' perché promotori di un commercio del riciclaggio che approfitta meno delle risorse naturali. E in Italia? Purtroppo non sono molto diffusi, eppure ce ne sono alcuni: un esempio è “Share”, charity shop di Milano inaugurato nel 2014 da Vesti Solidale ONLUS (la stessa cooperativa ha poi aperto altri charity shops anche a Napoli, Lecco e Varese).

Ma come funzionano questi “presidi di beneficenza”? La colonna portante di questi negozietti sono i volontari, che con tante determinazione e forza di volontà allestiscono il negozio e gestiscono le donazioni ricevute, garantendo una certa sicurezza igienica. E ciò che c’è di più bello in questi volontari è che spesso si tratta di persone in pensione, che con questa attività ritrovano una missione quotidiana da realizzare, di persone provenienti da altri Paesi con le loro storie di cambiamento, di giovani in cerca di un’esperienza lavorativa e umana. L’unica persona retribuita all’interno del charity shop è la figura del manager, che si occupa di quell’attività a tempo pieno con il compito di coordinare i volontari e di assicurare che tutto venga svolto secondo i principi dell’organizzazione benefica. È necessario, infatti, che sia chiaro ai frequentatori di questi negozietti a quale associazione verrà donato il ricavato e in che percentuali (Oxfam, per esempio, utilizza l’84% di ogni sterlina ricevuta per le attività di beneficenza). Allora perché non rendere popolari i charity shops anche in Italia e in altri Paesi europei? È bene sapere che la cultura dell’usato non è azzardata, ma virtuosa: è stato affermato dal South Australian Public Health Directorate che il bassissimo rischio per la salute a causa dell’acquisto di indumenti usati si annulla del tutto se si utilizza acqua calda per igienizzarli. Resta solo da capire se anche in Italia lo Stato riconosca il valore dei punti vendita delle associazioni di beneficenza, che in altri Paesi godono di utili sgravi fiscali. È ormai ora che la civiltà dell’indifferenza e del consumismo venga soppiantata dalla cultura del dono, del risparmio, del rispetto per la natura e per ogni essere umano.

 

Sara Olivieri