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Un Ginnasio e un Liceo: l'uguale e il diverso.

 Il est interdit d'interdire: vietato vietare. 

Il Liceo era imponente come una cattedrale e dilavato dalle piogge. Nessuna dolcezza di verde o di mare. La sua ampiezza era austera e il suo respiro triste. 

Costretto a trasferimenti di sede l'Umberto I era passato (1862) da Vico Sant'Agostino all'ex-convento delle Crocelle ai Mannesi, dall'ex-collegio degli Scolopi al vico Santa Maria Apparente, poi parzialmente in una struttura residenziale di Via Fiorelli ed ancora  nella ex-caserma di San Pasquale a Chiaia nel 1933, ma in via definitiva dopo i bombardamenti su vico Santa Maria Apparente nel 1943. Di tanti spostamenti l'Istituto non sembrava recare i segni, alloggiato solidamente nella vecchia caserma, sulla quale si era sovrapposto e nella quale si era calato con stupefacente disinvoltura. 

Nelle aule tuttavia l'ordine cedeva il passo a qualcosa di affettuoso. Le cattedre sulle pedane raccontavano storie crudeli e irrimediabilmente  anonime, ma le mura recitavano storie irriverenti, adolescenze inquiete e amori irrealizzati o, talvolta, improbabili. Le palestre parlavano di gare e gelosie, piccole invidie, scherzi memorabili. Il mondo degli studenti, si sa, ritorna favolosamente su se stesso e sempre stupisce. 

L'elenco degli illustri tra docenti e studenti era impressionante. Ne cito pochi, quelli a me più cari e familiari. Tra i primi Nicola Abbagnano, Raffaele De Simone, Michele Kerbaker, Giovanni La Magna, Vera Lombardi, Roberto Pane, Luigi Pinto, e tra i secondi Maria Bakunin, Francesco Compagna, Erri De Luca, Antonio  Ghirelli, Giorgio Napolitano, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Mario Scarpetta.

Chiedo scusa per affidare subito, in maniera esclusiva ed integrale, il ricordo del grande La Magna ad Erri de Luca, coetaneo di mio marito e di tre anni più grande di me. Lui era nel corso B, noi nella sezione E. Scoprendolo ormai adulta come scrittore ed autore, mi sono sentita sempre orgogliosa del solo fatto di essere stati studenti della stessa scuola, di averne condiviso gli spazi e le atmosfere.   Io non avevo conosciuto Giovanni La Magna, ma ce ne parlava la docente del Ginnasio, la professoressa Ginevra Monaco, che amavo riamata e il cui ricordo è sempre con me. Non comprendevo allora perché lo nominasse e lo citasse con  tanta passione, e l'ho capito infine leggendo questa pagina.

 

Erri De Luca, Il pannello

L'anno seguente, stagione scolastica 1967-1968, avremmo affrontato la maturità. Prima di quell'appuntamento il professore Giovanni La Magna mancò a una lezione per la prima volta in tre anni. Si era rotto il cuore del nostro buon Zeus, fermate le mani enormi che ci avevano aperto le vie della Grecia classica, zittita la voce che aveva calcato per noi i versi più soavi della terra. Salimmo alla sua casa sulla collina del Vomero come un gregge disperso. Era disteso eppure sembrava ritto in piedi, manteneva anche così tutta la forza della sua presenza. Aveva le grandi mani intrecciate in grembo, gli occhi molto chiusi. Per la prima volta un ragazzo tra i tanti ebbe misura dello spreco insensato contenuto nella morte di un uomo. Tutta quella Grecia svisceratamente amata da un siciliano, tutta quella sapienza si perdeva, a nessuno poteva più trasmettersi.  Ne trattenevamo frammenti lucenti da un vaso in frantumi, noi suoi allievi. Ma se tutti gli studenti che aveva avuto, avessero potuto mettere insieme i loro pezzetti, non avrebbero ricomposto l'interezza da lui posseduta. Le lacrime che ad alcuni di noi vennero agli occhi se le era guadagnate con quello che gronda dal cuore.
Morì in quei primi mesi dell'anno di subbuglio 1968, senza vedere le aule abbandonate sotto i colpi di una guerra che aveva intravisto e aveva scongiurato di evitare. La scuola finiva e non solo per i maturandi di quell'anno. Dopo di lui la Grecia tornò a essere la patria di una grammatica molto esigente. Ci sono uomini che morendo chiudono dietro di loro un mondo intero. A distanza di anni se ne accetta la perdita solo concedendo che in verità morirono in tempo.

Per ricordare Vera Lombardi ho scelto due articoli significativi: uno  di Vera Maone  pubblicato sul Manifesto il 25 aprile del 2009, l'altro di Guido D'Agostino pubblicato su La Repubblica del 26 ottobre 2010,  entrambi consultabili online. Vera Lombardi, il cui nome è divenuto il nome dell'Istituto Campano per la storia della Resistenza, costituito nel 1964, per sua iniziativa, era collega stimata dal mio professore di Storia e Filosofia, Ugo Gargiulo, e fu attraverso di lui che imparai anch'io a stimarla riconoscendone i meriti straordinari. Il professor Gargiulo era uno dei pochi cui interessava che i suoi studenti fossero in possesso di un cervello funzionante, e che lo usassero quanto più spesso possibile. Il suo sorriso breve dichiarava una falsa distanza dai propri discenti, e mascherava l'interesse umano con l'ironia. La sua solida preparazione rendeva vivaci  le lezioni, offuscate da un parlare rapido e intercalato da un diremo nuovamente  che si contraeva in un non meglio identificato dirimamente. Ciò distoglieva talvolta l'attenzione dell'ascoltatore, dirigendola verso l'intercalare piuttosto che verso il contenuto, critico ed interessante, qualche volta provocatorio, del discorso disciplinare.

Di un docente speciale conservo il ricordo, fortissimo: la professoressa di Chimica Anna Rippa. Le sue lezioni erano tenute preferibilmente nel grande laboratorio che lei stessa aveva attrezzato e gestiva con cura meticolosa all'ultimo piano dell'edificio. Si entrava in una dimensione separata, asettica e tecnologica, ben distante dagli altri ambienti dell'Istituto, e si imparava grazie ad una didattica quasi esclusivamente sperimentale,  giovandosi di attrezzature e strumentazioni funzionali e moderne. Nessuna lezione mai, né di chimica né di biologia, veniva relegata al livello teorico, e si lavorava in gruppo, con compiti ben precisi, con consegne rigorose. Poiché dal suo punto di vista di docente era impossibile  non capire,  di fronte ad una cattiva prestazione diventava severa, anzi terribile, la sua parola si faceva dura e la sua valutazione spietata. Detestava ogni forma di approssimazione e puniva  ogni insulto all'ordine, alla regola scientifica. In un liceo classico, quello E era il corso pilota di chimica. Della Rippa avevano tutti paura, almeno i comuni mortali; il suo parere era autorevole e le sue decisioni irremovibili. Era però troppo facile vedere in lei il tiranno, il severo censore, la presunzione di chi tiene in una mano sola tutta la propria disciplina e guarda l'altro  dall'alto in basso. Riflettevo talvolta sulla sua persona fisica, estremamente modesta ed esteticamente poco gradevole. La immaginavo giovane, appassionata negli studi, tenace nella ricerca, instancabile e sempre presente a se stessa. Riversava le energie, le risorse economiche, il tempo della vita in quel laboratorio e ci amava quando ci offriva il sapere non a buon mercato, non comodamente disteso sulle pagine di un libro, ma faticosamente assemblato attraverso la sperimentazione. Ricordo un lampo di felicità nei suoi occhi grigi quando disegnai un verme rossiccio che al microscopio avevo osservato nella goccia di palude che un giorno esaminavamo. Mi dichiarò che avrebbe preferito che non scegliessi di proseguire gli studi umanistici, che avessi intrapreso studi scientifici, e ricordo il suo sguardo deluso quando, negandole una risposta, il mio cocciuto silenzio la costrinse a comprendere che nulla mi avrebbe tenuto lontana dal Greco e dal Latino. Non tornai a trovarla, per quello sguardo. Sedotta dalle Lettere, mi dimenticai di lei. 

In quel laboratorio si consumavano momenti irripetibili ed anche esilaranti. Gli incidenti di percorso, ovvero provette e pipette frantumate, il mercurio graziosamente sparso in elastiche palline grigie sul pavimento, i modelli atomici indisincastrabili, gli insuccessi chimici derivanti da errori nella scelta e misurazione di elementi e composti, rendevano la classe sempre più solidale e complice, e credo che questo ruolo giocassero anche le lezioni e le verifiche di greco e di latino. L'insegnamento cattedratico del prof. Zuccarelli non ammetteva cedimenti ed un passo di Cicerone o di Tacito poteva occupare tranquillamente lo spazio di due ore. L'estetica svolgeva un ruolo fondamentale ed era legata all'abbigliamento, alla postura, al linguaggio, all'espressione del volto. Le verifiche scritte tendevano talvolta ad assumere una fisionomia punitiva, e sempre sottintendevano il criterio della selezione, che il docente presentava come chiave di lettura della realtà tutta. Ritenevo insostenibile, ai limiti della decenza,  affidare all'abilità traduttiva di uno studente la valutazione complessiva della sua persona, e la mia opinione era estremamente onesta, dal momento che la mia abilità traduttiva era alquanto sviluppata. La forza della classe ancora una volta si mostrava nella capacità di assumersi la responsabilità del compagno più debole, sostenerlo per evitare il naufragio, salvarlo dalla crisi di identità. Trovai il  ruolo comunitario di tutor  che i compagni  mi offrivano molto più gratificante della valutazione attribuita dal docente al mio lavoro. Inoltre l'esercizio traduttivo permanente, sollecitato dalla necessità del soccorso, instaurò un circolo virtuoso per cui divenni  sempre più esperta e rapida nella soluzione dei problemi testuali. Il tutoraggio delle lezioni di storia e di filosofia era affidato a Benedetta. La naturalezza con cui comprendeva e gestiva i contenuti di queste discipline mi lasciava ammirata. La sua casa divenne un cenacolo filosofico permanente, un laboratorio frequentatissimo e fecondo per la produzione di saggi, lezioni, approfondimenti. Il senso della scuola si spostava nelle case, e della scuola la classe rilevava, con la funzione, anche lo spazio, salvifico perché consentiva l'espressione di sé che l'aula non concedeva. Gli occhi brillanti di Benedetta esprimevano profondità e una struggente saggezza, che emergendo modificava i naturali  atteggiamenti da adolescente. Per fortuna, esplodevano periodicamente in tutti, ed anche in lei, la spensieratezza e la necessità del divertimento. Una natura libera ed una mente critica dettavano a Benedetta pensieri e valutazioni non convenzionali, e rafforzavano  una innata capacità di gestire spazi e tempi personali in maniera autentica. Questo era vero per tutti i miei compagni, e consentiva di scegliere chi essere e cosa fare a dispetto e in disprezzo dei comportamenti formalmente ed anche ipocritamente imposti alla generazione.   Benedetta portava con sé l'energia indomabile di chi sfida la vita in nome dell'ideale.

Più lontana sedeva Paola. La sua presenza nella mia  vita è stata una straordinaria costante: a dispetto della distanza che fisicamente ci ha separato, non abbiamo mai rinunciato al legame di un tempo, e alla complicità che quel legame ha determinato nei vissuti personali. Gli studi e la professione, oltre che la vita privata, hanno ricreato di volta in volta il binario che uguale in luoghi diversi percorrevamo, e mai abbiamo pensato di smettere di fidarci l'una dell'altra. Ancora oggi la vedo con piacere mentre chiacchiera e ride con Renata, e mi prende l'immagine del suo sguardo verde e marrone illuminato dal sole, dietro il giro dorato degli occhiali . 

Intanto mi sfinivo sui libri. Per sopravvivere bisognava imparare a guardare discipline e docenti da un altro punto di vista. Per esempio, quel bacchettone di Manzoni che si ostinava a narrare  una vicenda  improbabile, solo per pubblicare un best seller, Tito Livio che riscriveva la storia come un romanzo per gusto personale, il povero Catilina perseguitato da Cicerone. In cima alla classifica c'era Annibale, per via di quelle perfide paroline del solito Livio: feroce crudeltà, nessun rispetto per la religione, nessun timore degli dei, nessuno per il giuramento.

Gli errori traduttivi costituivano un godibile bestiario, che trasformava il mondo greco e latino in uno scenografico manicomio nel quale tutto era possibile: Demostene che masticava rane, Socrate che farneticava, le donne sabine che se la spassavano fuori le mura, le triremi in porto in venti secondi, il console sdraiato sopra un masso, i tre cavalieri di Annibale, il famoso esercito di lardo, l'imperatore Traiano crollato dal cavallo, le case di calcestruzzo, le aste senza punta, i Germani intenti a dipingere scodelle (scuta!). Espressioni rituali completavano il quadro, come il grido thalassa che si levava al termine della giornata scolastica o il consunto eureka che segnalava il felice rinvenimento di materiale da copiare.

Quando tra colleghi ci si ferma a raccontare allegramente gli orrendi errori dei nostri allievi,  quasi per esorcizzarli, ci si diverte allo stesso modo. E' un viaggio ai confini della realtàSua sponte per chi non lo sapesse può generare la convinzione che ci sia una interrogazione su Asponte, un autore perfettamente plausibile per un liceale alquanto sprovveduto ma molto, molto intraprendente.

Per la lettura in metrica  - al ginnasio -  era in uso lo schiacciamento ritmico del piede dell'interrogato da parte del compagno più abile. L'esito incerto conduceva irrimediabilmente all'insulto finale ed al deterioramento della scarpa. In primavera poi, con calzature più leggere, tale pratica era insostenibile.

I grembiuli neri finirono sempre più spesso tra i libri chiusi con la molla e timide tracce di trucco fecero la loro comparsa sui volti delle liceali. Cambiava la stagione e le gonne erano più corte, si compravano i jeans, che si abbinavano a camicette bianche dal taglio maschile. Al liceo, qualche insurrezione segnò e poi devastò l'ordinario scolastico. Una energia nuova e una speranza bella si affacciavano tra le pareti delle aule ed imponevano nuovi pensieri e profonde riflessioni. 

La scuola diventava un'officina, un teatro, un laboratorio di libero scambio. Molte cose sarebbero cambiate.

Le parole nuove cominciarono a prendere forma sul rigo all'improvviso, e dagli amati segni  di quel  greco perduto, ma non estinto, cominciarono a venire fuori mondi interi di bellezza, passioni, e favole seducenti che uno non se lo sarebbe mai immaginato. Accadde grazie ad un nuovo libro di letteratura. Credo che avvenisse lo stesso per il latino, ma in un secondo momento. Il miracolo si verificò indipendentemente dal docente, anzi quasi a suo dispetto. Se Cicerone invitato nell'aula era risultato deludente, da pochi versi smozzicati di tale Saffo venne fuori l'umano con tanta forza da restarne storditi. Bisognava indagare, con costanza e segretamente, perché il meglio giaceva tra gli scarti, versi e prose non assegnati, perfino pagine di storiografia, e naturalmente orazioni. Per un incomprensibile e perverso criterio, quella che ci veniva presentata del mondo antico era la parte meno interessante. Dato fondo al libro di testo, la caccia continuò tra i prestiti e in biblioteca. Dopo l'accanimento sintattico, dopo lo sfinimento per la scelta del lessico, dopo il tormento della traduzione e  quando ormai gli occhi si chiudevano arrossati sul Rocci  giunsero i primi risultati. Gli Autori si presentavano spontaneamente e dicevano: "Hai visto? Noi siamo vivi e prossimi a te, nonostante ci diano addosso tutti questi professori. Ti preghiamo, aiutaci!".

Naturalmente questo valeva anche per la letteratura italiana. E' che forse si tende a sottovalutare chi parla la nostra stessa lingua.

La condivisione delle acquisizioni culturali non scolastiche, che sarebbero proseguite con maggiore frequenza negli anni universitari, conduceva lentamente alla formazione di un piccolo Gotha, e comportava il distanziamento dalla massa che si accontentava serenamente di quello che passavano i libri di testo.

Tra gli studenti circolavano poi falsi problemi, dai quali bisognava guardarsi per evitare qualsiasi contaminazione culturale. Cosa poteva aver detto l'oracolo di Delfi a Fabio Pittore? Cosa era veramente accaduto alle Forche Caudine? Saffo si era davvero lanciata dal faro di Lefkada?

La mia classe si chiudeva su se stessa nel tentativo di ricostruire al suo interno il mondo che andava in pezzi. I dibattiti fervevano e si faceva strada qualche progetto di vita. Quegli anni  ci insegnarono forse a vivere senza dare la vita per scontata, anche a prezzo dell'inquietudine e della instabilità, o dell'insoddisfazione sempre in agguato, e l'irripetibile esperienza della condivisione e dell'amicizia certo diede a ciascuno di noi strumenti che l'aula non ci aveva se non in parte fornito.    

 

Tratto da Maria Colaizzo “La Scuola Marginale” edizioni Millerighe – 2015