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Alcuni esempi: linguaggio al femminile

Questione fondamentale l’uso della parola. Il linguaggio è forse la maggiore differenza, se non l’unica, tra noi e gli animali. Di pari passo all’emancipazione/liberazione femminile, il linguaggio si sta adeguando. Se ne discute da tempo. Ne scrive su “Valigia Blu”, Vera Gheno, in maniera interessante ed ironica. Ne riportiamo alcuni tratti, rinviando, i lettori interessati, alla lettura del testo integrale, pubblicato online su “Valigia Blu” (NdR) 

 

 

“La questione dei nomi delle professioni al femminile una volta per tutte”

di  Vera Gheno tratto da “Valigia Blu”

 

Recentemente, sui media si è parlato molto dell’elezione di Antonella Polimeni a rettrice dell’Università La Sapienza di Roma e della direzione della partita di Champions League Juve vs. Dinamo Kiev del 2 dicembre 2020 da parte dell’arbitra Stéphanie Frappart. Al di là della rilevanza dei due eventi, una parte della discussione pubblica ha, come di consueto, riguardato i nomina agentis, ossia i nomi di agente: declinarli o meno al femminile? Antonella Polimeni è Magnifico Rettore, Rettore donna o Magnifica Rettrice? Stéphanie Frappart è arbitro, arbitro donna o arbitra? La risposta, Zingarelli alla mano (dato che è il dizionario che più di tutti fa attenzione a riportare il maggior numero possibile di femminili professionali, e lo fa sin dal 1994) è che le forme corrette sono rettrice (peraltro già usato da altre rettrici di importanti atenei italiani) e arbitra. Aggiungo che nessuno dei due è un neologismo: già in latino esistevano le coppie rector/rectrix e arbiter/arbitra, che nel corso dei secoli hanno subito ovvi slittamenti semantici, ossia cambiamenti di significato.

La risposta, dunque, sembra semplice; eppure, sui social network – e non solo – ho letto moltissime discussioni, talvolta anche dai toni estremamente accesi, sull’opportunità o meno di impiegare questi femminili. Per cercare di risultare utile contemporaneamente a chi desidera avere delle risposte da fornire ai detrattori e alle detrattrici e a chi invece non è convinto della bontà o correttezza dei nomina agentis declinati al femminile, ecco una lista delle obiezioni più comuni assieme ad alcune possibili risposte o suggerimenti per comprendere meglio la questione. Ho scritto un intero libro su questo tema, alla cui consultazione rimando nel caso si volesse approfondire: Femminili singolari (2019, EffeQu).


1. “I femminili sono cacofonici”

L’obiezione della cacofonia, ossia del suonar male (spesso: “Non si possono sentire”), è forse quella sollevata più spesso. Al di là del fatto che ogni persona ha i suoi gusti, perfino in fatto di parole, osserviamo che nella lingua che usiamo tutti i giorni la cacofonia o l’eufonia delle parole non ha nessuna rilevanza: usiamo i termini che ci servono, non quelli che ci suonano. Isterosalpingectomia, transustanziazione, caldaista, pantomima, gestazione, brocca sono tutte parole che alle orecchie di qualcuno possono suonare sgradevoli; ciò non toglie che le usiamo senza alcuna remora quando ne abbiamo bisogno. La questione del suono può diventare rilevante se stiamo scrivendo un testo letterario o componendo una poesia – o magari il testo di una canzone – ma non riguarda l’ambito dell’uso. Soprattutto, nessuna parola è mai stata “vietata” perché cacofonica. E poi, se maestra non è cacofonico, perché dovrebbe esserlo ministra? Insomma, se non ti piace il suono di una parola, puoi cercare di evitare di usarla. Ma questo non la rende meno “reale”.


2.“Ministra ricorda minestra, architetta è troppo vicino a tetta, fa ridere”

Il giochetto delle assonanze è divertente, ma non dirimente. Siamo pieni di parole che ne ricordano altre, magari comiche, volgari o disdicevoli, ma che usiamo lo stesso senza grossi problemi. Oppure, magari ci facciamo pure una risata sopra, ma ciò non ci impedisce di impiegarle: fallo calcistico, palle da tennis, pene d'amore, sfigato, tettonica a placche, stronzio (l'elemento chimico), cavallo di Troia, zoccoli di legno, benefica, retto cammino, cazzuola, scazzare, seno e coseno, culatello di Zibello, processo penale, pompa e sovrapompa, piselli (sgranati), bocchino per sigarette, cazzotto, la penuria, i membri della commissione, il rinculo dell'arma, la cappella Sistina. A proposito: architetta forse strappa qualche risata, ma vi consiglio di seguire RebelArchitette affinché la parola acquisti un sapore decisamente diverso.


3. “Non si può usare quel femminile perché vuol dire già un’altra cosa”

La questione della polisemia, cioè dell’avere più significati, stranamente, sembra toccare solo i femminili professionali. In tutti gli altri casi, che un termine voglia dire anche altro non pare essere un problema. E quindi non si potrebbe dire grafica perché la grafica indica anche l’insieme delle caratteristiche grafiche di qualcosa (ma anche grafico può indicare la persona che esercita questa professione, come pure lo schema appeso al muro); non si potrebbe definire una donna chimica o fisica perché indicano già la materia (ma anche fisico può riferirsi sia al mestiere sia alle caratteristiche del corpo di una persona: per fortuna, è diverso dire che Luigi è un fisico bestiale o ha un fisico bestiale); non bisognerebbe dire che Nilde Iotti era una politica perché la politica è la scienza e arte di governare uno Stato (e politico non può forse essere usato anche con il significato di aggettivo?); giammai, direttrice si confonde con la direttrice di marcia! (ma lo sapevate che direttore significa anche “dispositivo per aumentare l'efficienza di un'antenna televisiva in una particolare direzione”?). In breve, la polisemia non è un reale motivo ostativo per evitare di usare un femminile.


4. “Si è sempre fatto così”

Non è vero. I nomina agentis al femminile sono documentati sin dall’antichità classica, e ricorrono anche durante la storia della nostra lingua (per fare un esempio: Dante usa ministra) tutte le volte che – indovinate un po’? – in un determinato ruolo, o in una posizione, si trovava una donna. Così abbiamo la giudicessa Eleonora D’Arborea (oggi si dice la giudice) e l’architettrice Plautilla Bricci (oggi sarebbe architetta) per fare due esempi particolarmente famosi. Come accennato all’inizio, basta consultare i vocabolari delle lingue classiche, o i dizionari storici dell’italiano, per rendersene conto.

È interessante, quindi, il richiamo a un presunto tradizionalismo che però si ferma inspiegabilmente alle proprie scuole dell’obbligo: “Quando andavo io a scuola ingegnera non esisteva”. Non è che non esisteva: non era usato. E non era in uso non per qualche arcana ragione che ne vietava l’impiego, bensì perché non c’erano, in circolazione, ingegnere (femminile plurale). Generalmente, nominiamo ciò di cui abbiamo esperienza, per cui accade che ci siano molte parole che non usiamo perché non corrispondono a qualcosa che si può incontrare “in natura”. Poi le cose cambiano, iniziamo a incontrare donne in lavori nei quali prima non c’erano, ed ecco che quelle parole, fino a quel momento esistenti ma non in uso, improvvisamente iniziano a servire……