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Le anime pezzentelle

La Chiesa superiore differisce da quella inferiore come il giorno dalla notte. E’ uno dei miracoli seicenteschi cui la città di Napoli è spregiudicatamente assuefatta. Pure, nel progetto, nel programma architettonico e iconografico, il tema del Purgatorio è rispettato. Il “Transito di san Giuseppe”, la “Morte di sant’Alessio”, “La Madonna delle anime purganti”, il “Teschio alato”. “San Michele Arcangelo che abbatte il demonio”…insomma un trionfo di bellezza dedicato alle  anime purganti, un omaggio alla Controriforma e alla sua Chiesa, senza risparmio di decorazioni e austeri richiami per chi, nella prima metà del XVII secolo, si fosse lasciato sedurre, ma non troppo, dalle tentazioni del commercio, del denaro e della carne. I simboli di morte acquistano un senso estetico e divengono irrinunciabili: ali e fiori accompagnano i teschi e le ossa. La Chiesa rappresenta un’opera innovativa, nel rispetto delle indicazioni del Concilio di Trento.

Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco era nata per iniziativa di una società benestante e aristocratica, realizzata in ben ventidue anni per offrire una promessa di Paradiso per il tramite dell’ignispurgatorius. Le famiglie che avevano commissionato il progetto avevano contemplato l’obiettivo di offrire ai poveri, ai “pezzenti”, un luogo di sepoltura, e per far questo gli architetti incaricati avevano demolito quanto restava del torrione di epoca romana e del seggiod’Arco, già abbattuti da Pedro di Toledo una cinquantina di anni prima.

La Chiesa inferiore, l’ipogeo, nella sua funzione compassionevole era il vero Purgatorio: severa e ammonitrice dell’umana fragilità, della vanità della vita. I morti che vi si deponevanoentravano in un ambiente anonimo, arredato da croci nere, catene e fioche lampade, austero e greve. Anche in quello spazio, tuttavia, un luogo riservato accoglieva i membri della Congrega devoti al culto dei morti, e li separava dai comuni defunti. Antiche cantine avevano offerto spazi tenebrosi al Purgatorio napoletano, a portata di mano del popolo che sciamava ininterrottamente, come ora, lungo via dei Tribunali.

Il termine pezzenti addolcito nel diminutivo era attribuito ai morti poveri e alle loro anime, per le quali nessuno avrebbe offerto un “refrisco”, preghiere e opere di bene per alleviare ed abbreviare la pena. L’anima abbandonata chiedeva aiuto, come i pezzenti in vita chiedevano l’elemosina, e spesso i poveri viventi chiedevano la carità con la promessa che quell’azione, rimbalzando dal mondo dei vivi a quello dei morti, avrebbe giovato ai defunti ( “refrisc ‘e ll’anime d’o priatorio). Il Purgatorio risultava in fondo una dimensione accettabile per i napoletani, abituati all’inferno della miseria e della malattia, devoti a numi tutelari che li scampassero dai pericoli maggiori, compresi terremoti ed eruzioni. Forse per questo motivo le anime pezzentelle iniziarono a divenire sempre più importanti. Da bisognose di cura e suffragi a mediatrici di grazia, in grado di ricambiare i favori sotto forma di benefici tangibili. Questo Purgatorio era distante dal doloroso luogo di transito raccontato da Dante, ma ne conservava la fisicità, la concretezza delle pene e del dolore. Il rapporto dei vivi con i morti acquistava una quotidianità che poteva divenire blasfema, ma di fatto era incontenibile. Il Purgatorio infuocato, medievale, descritto da Le Goff, si stemperava in amorevoli gesti di cura offerti ai resti mortali di quelli che, precedendo, a loro volta si sarebbero premurosamente presi cura dei vivi. Il magnifico e possente monte del Purgatorio era stato circoscritto in una dimensione urbana, sempre raggiungibile, sotto il pavimento di una chiesa.

La cura dei morti era principalmente affidata alle donne. A loro toccava la cura dei vivi, e più naturalmente anche quella dei morti. Le loro richieste erano più esigenti, perché su di loro gravava la massima parte delle difficoltà della vita. Quando le risorse terrene non erano sufficienti, si ricorreva a quella ultraterrene, senza risparmio di energie.  Come scrive Matilde Serao, il solo conforto proveniva dalle “illusioni della propria fantasia”. I teschi, lucidati dalle donne fino all’inverosimile, riveriti ed ossequiati, promettevano aiuto, esaudivano grazie, ma soprattutto trasmettevano energia: la fiducia nella speranza, l’attesa del cambiamento, per trovare la forza di continuare a vivere. Le anime sottoposte a fatiche e sofferenze, lì nell’umido luogo della transizione, dovevano ben capire il travaglio di chi ancora permaneva nella dimensione superiore e visibile del mondo. A quelle reticenti un rinforzo di cura avrebbe infine strappato un qualche bene, un aiuto, una condivisione. D’altra parte, per la forza delle cure e delle preghiere, il transito in Paradiso era più che assicurato.

 

Maria Colaizzo