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Io scrivo a te…

Ascoltare dalla voce di chi ti ha amato e ti ama ancora le tante storie che hanno attraversato la tua vita di donna sensibile e intelligente, di essere umano che ha fatto della sua esistenza una continua “apertura-a”, che ha alimentato le sue riflessioni in azioni concrete per i più deboli, per le donne, per i bambini e quanti avessero avuto bisogno di rinascere nella relazione umana, è per me un’esperienza di formazione. 

Nella mia vita di studiosa, che non smette mai d’imparare, adesso ho anche te, i tuoi scritti, i tuoi pensieri, le tua battaglie, la tua natura, poiché come dici tu - “Le donne non sono tutte uguali; i percorsi di crescita, le forme rappresentative, la memoria storica, sono diverse per ognuna di noi”-  Le parole che ho letto e le profonde riflessioni che sottendono quelle sono state, credo, per la storia degli anni ’70 a Napoli, fonte d’ispirazione, di cambiamento, di solidarietà, di vicinanza, di autentica politica non solo per le intellettuali e gli intellettuali che incontravi, ma anche per le donne africane di Aversa, per i bambini della Mensa di Montesanto, per quanti avessero condiviso con te un progetto così importante: <<Solo l’amore salva>>. 

L’amore, quella chiamata di noi stessi a noi stessi per comprendere di più gli altri, quella umiltà che permette di decifrare le nostre azioni, quella consapevolezza di dover imparare di meno a piacerci, a vincere, avvicinando a sé <<l’essenzialità del proprio bisogno>>, per sentire meglio i nostri desideri.

Ricorri spesso alla parola “umiltà”, proprio perché il mondo ne è carente, ancora oggi …

E sono d’accordo con te, quando affermi che non dobbiamo avere la pretesa di capire tutto e dobbiamo essere più inclini all’umiltà, prestando ascolto a chi è più capace, a chiedere il permesso per parlare, senza arrogarci il diritto di parlare per tutti … Il rischio più grande è essere autoreferenziali, restare ingabbiati entro le pareti del proprio io, divenendo miopi rispetto alla realtà, incapaci di cogliere la naturalità delle persone e delle cose. Siamo sempre più distratti dall’indifferenza, dalle troppe immagini (oggi più che mai ritoccate, illudendoci di ritoccare la realtà), che sembrano contendere alle parole e alle azioni il modo più genuino per creare e consolidare relazioni, per non parlare della smania di voler essere sulla scena sociale <<più per vanità che per reale ambizione>>. Il rispetto, lo si deve guadagnare, lo si deve meritare, bisogna “fare” e “imparare a fare”, trovare spazio per la propria autostima, per la propria realizzazione e convergere alla crescita collettiva. E come far comprendere alle nostre giovani e ai nostri giovani che il sapere dà autorità la quale, riconosciuta, diventa autorità di pensiero e di azione! Il nostro esserci non è un dato naturale, ma il frutto della nostra condizione storica, il risultato delle nostre scelte, che devono tradursi sempre in un’assunzione di responsabilità verso sé e verso gli altri. 

Ti stimo Lucia, come essere umano, come chi non ha solo nominato parole, ma ha fatto nel concreto, ha storicizzato il suo pensiero, lo ha interrogato, lo ha corretto, lo ha usato per gli altri. Sei partita da te, ti sei messa in discussione, hai patito il mutismo nel momento del cambiamento, ma poi hai visto che nel vuoto può nascere l’imprevisto e che la <<mancanza può capovolgersi in risorsa>>. Hai messo in guardia chi parla  in quanto donna e come nell’in quanto donna spesso si dimentichi il lavoro delle relazioni, perché la posta in gioco è sempre la verità del nostro-essere-noi-stessi. Hai sottolineato come essere emancipate non significhi in automatico omologarsi al mondo maschile, con il pericolo di esasperare gli attributi femminili, categorizzando lavori, saperi, istituzioni, come se al di là della casa, anche i luoghi pubblici potessero essere oggetto di femminilizzazione … Bisogna imparare a relazionarsi fin da bambini (come ha ben analizzato e sperimentato la filosofa e tua amica Luce Irigaray): il confronto tra uomini e donne, tra persone, è vero se ciascuno mantiene la propria identità, autodeterminandosi liberamente, senza assimilazione o appiattimento, riconoscendo il proprio e l’altrui valore. Impariamo ad essere umani creando quel legame con il “tu”, perché l’ “io” non basta da solo per crescere, per evolvere, per essere dialetticamente grazie all’altro/a. Senza il “tu” non so cosa sia “io”, e forse senza l’altro/a non avrei alcun interesse per l’ “io”.

Mi piace quando scrivi <<[…] le donne sono maestre. Da sempre custodi della “cura”, hanno “sanato” meglio di chiunque altro le malattie, in famiglia, in guerra, in preghiera. Destino di un amore che restituisce amore? Antiche maestre del dolore, ne conoscono il travaglio, e dalla nascita alla sepoltura, segnalano con la loro ritualità, nel bene e nel male, nella felicità e nel lutto, per tutti, uomini e donne, l’umana presenza>>.

Queste tue parole mi ricordano mia madre … le sue mani, mentre tagliavano e cucivano, i suoi occhi azzurri eloquenti quando la parola non poteva più, la sua pancia morbida, il suo amore … Quella “umana presenza” è il riflesso sulla terra di tutto l’amore che siamo capaci di dare e di ricevere. Ecco che il vissuto, quello della carne, prende il sopravvento sulle rappresentazioni che costruiamo della nostra vite, e forse è questo che deve alimentare una cultura dell’amore, che spontaneo e pensato possa portare al rispetto e alla fecondità delle differenze.

Essere felici come i piccoli, trovare “nutrimento” grande nelle piccole cose, desiderare …

Scrivo a te, Lucia, e ho l’impressione di recuperare un po’ più di me.

 

Torre del Greco, 26/07/2021

Virginia Varriale