testata registrata presso Tribunale di Napoli n.70 del 05-11-2013 /
direttore resp. Pietro Rinaldi /
direttore edit. Roberto Landolfi

Termina agosto, termina la nostra rubrica sulla povertà, “Dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori”. In chiusura riportiamo un pezzo, a firma di Marco Girardo, tratto da Avvenire del 21 gennaio 2021 che offre interessanti spunti di riflessione sul tema (NdR)

 

Mai rassegnati all'impotenza. La forbice ricchi-poveri, i giusti obiettivi


Si avverte sempre un certo senso di impotenza a ogni aggiornamento sulle disuguaglianze nel mondo. Il rapporto di Oxfam arriva come di consueto in pieno inverno boreale, quando i leader mondiali si riuniscono a Davos. Ma quest’anno l’inverno è anche economico ed è globale per i rigori prodotti dalla pandemia. Non per tutti, naturalmente. Il Covid-19 non veste i panni della 'grande livellatrice' che fu invece la peste in secoli lontani: mille super-ricchi recupereranno le perdite generate dalla crisi sanitaria in 9 mesi, miliardi di poveri ci impiegheranno almeno due lustri.

Per i primi dieci miliardari il patrimonio dall’inizio della pandemia è addirittura aumentato di 540 miliardi di dollari. Non è certo sorprendente: da Jeff Bezos a Bill Gates, da Warren Buffet a Larry Page hanno tutti fondato imperi nei settori dove il blocco della mobilità si è rivelato un beneficio come per la tecnologia e l’e-commerce. O nella comunicazione digitale, che ci ha connessi anche se fisicamente distanziati
La finanza, poi, ha visto le Borse aggiornare tutti i record proprio nel 2020. Il 'valore', del resto, si estrae oggi in larga parte dal virtuale e non dal materiale, dagli algoritmi più che dalle fabbriche. Che oligopolisti e 'market-mover' vedano crescere la loro fortuna soprattutto in tempi di crisi – presto si aggiungerà 'Big Pharma' – non è pertanto strano e nemmeno inedito nel corso della storia.
John D. Rockefeller negli anni Trenta del Novecento era per esempio tre volte più ricco, in termini di fetta del Pil mondiale nelle sue tasche, di quanto lo sia il fondatore di Amazon ai giorni nostri. Eppure non è da questa sensazione di ineluttabilità, a pensarci bene, che deriva il senso di impotenza. Ci deve essere un altro incremento di disuguaglianza a generare frustrazione, giusta indignazione e anche preoccupante rabbia sociale. Dai tempi di Rockfeller, infatti, grazie alla globalizzazione, la disparità fra i Paesi più ricchi e quelli più poveri ha cominciato a ridursi. La pandemia ha accentuato questa tendenza, ma rischia lo stesso di aumentare drammaticamente il numero di poveri assoluti nelle periferie del mondo. Perché disuguaglianza e povertà sono due concetti distinti, per quanto poco distanti, e la povertà richiede, come ammonisce spesso papa Francesco, un’attenzione specifica troppo spesso disattesa. Anche la disuguaglianza di ricchezza dentro i singoli Paesi, dopo la Seconda guerra mondiale, si era progressivamente assottigliata. Fino all’ultima grande crisi globale, quella iniziata nel 2008. Da lì la forbice 'interna' ricchi-poveri ha ripreso ad aumentare. Interessando soprattutto la classe media nelle economie avanzate dove, insieme agli immigrati, i più colpiti risultano donne e giovani.

La disuguaglianza più perniciosa non è quella siderale con i multimiliardari e nemmeno quella assoluta, ma quella relativa alla propria dimensione temporale, al luogo in cui si vive, allorché dal piano statistico si passa a quello esistenziale. Oltre che di ricchezza, quindi, una disuguaglianza di opportunità nel presente e di sguardo sul futuro. Da qui nascono quei sentimenti di frustrazione e conflittualità per la perdita delle condizioni di vita rispetto al passato che sono il vero combustibile di ogni populismo. Tali disparità 'relative' non si presentano però ineluttabili come dato di natura.

Hanno certo a che fare con un mondo in cui la tecnologia ha modificato il sistema occupazionale e la globalizzazione scompigliato confini e rapporti di potere, ma a livello locale sono la conseguenza delle politiche effettuate e di quelle non effettuate (gli economisti lo chiamano policy drift). Dipendono cioè da come funzionano il mercato del lavoro – e quindi dai i redditi che da questo provengono – i sistemi fiscali e quelli di protezione.

Ecco perché è così importante in questa precisa fase storica il ruolo della cooperazione sociale, che ha già prodotto una terza via economica per cucire insieme lavoro e cura. Ed ecco perché è indispensabile che, in Italia, il Piano nazionale di resilienza e ripartenza non consideri l’inclusione e il contrasto alle disuguaglianze semplicemente una delle voci di spesa, ma un obiettivo sotteso per integrare tutto il progetto con la misurazione dell’impatto sociale di ogni scelta effettuata. Solo così saremmo messi nella condizione di non sentirci impotenti al cospetto di inusitate ricchezze e, quel che più conta, colpevolmente inermi di fronte al disperato grido dei poveri che abitano oggi accanto a noi.

 

Marco Girardo (tratto da “Avvenire” del 26 gennaio 2021)