Riprendiamo
l’intervista pubblicata sul “Manifesto” del 7 dicembre 2021 ad un curatore napoletano,
Nico Marzano che da anni vive e lavora a Londra. Tutto ebbe inizio tanti anni
fa dall’incontro con le suggestioni di K. Kieslowski e del suo film Decalogo 1,
che portò Nico Marzano ad innamorarsi del cinema.
Nico
ha studiato giurisprudenza a Napoli, alla Federico II, voleva fare
magistratura, voleva essere giudice per combattere la mafia ma in seguito altri
viaggi, altre storie lo hanno portato a Dublino prima e a Londra poi. Ha
cominciato lo studio del cinema a Londra, fino ad approdare all’ Institute of
Contemporary Arts, dove continua ad operare dal 2013.
Uno
dei tanti figli della “nostra terra” che, fuori dal bel paese, riescono a
portare lustro ad un’Italia che non riesce a contenere il loro estro, il loro
talento(NdR)
INTERVISTA • Il cinema del reale, la manipolazione
artistica, la chimica della sala
Nico Marzano, la scommessa di «reinventare» le immagini.
Frames of
Representation, il festival che fa parte della programmazione di ICA,
l’Institute of Contemporary Art di Londra, è qualcosa in più che un evento dove
vedere dei film o ascoltare delle discussioni. L’idea di Nico Marzano,
direttore della sezione cinema dell’ICA e fondatore e curatore di Frames of
Representation è infatti quella di costruire uno spazio in cui le immagini in
movimento possono «ri-immaginarsi» – come suggerisce il titolo dell’edizione di
quest’anno, (Re)Imagining, che si è chiusa qualche giorno fa. E che nel lavoro
del curatore è parte di un progetto più ampio, che comprende una programmazione
annuale e una distribuzione d’autore.
Protagonista è il
cinema del reale – nel programma c’è stato una bella presenza italiana, da Il
Palazzo di Federica Di Giacomo a Re Granchio passando per Notturno di Rosi – di
cui Marzano, italiano ma da lungo tempo nel Regno unito, cerca le declinazioni
più «aperte», gli intrecci oltre il genere, le possibilità di un diverso
linguaggio cinematografico; e in questa dimensione comune di visione, anche
quelle di rivedere i ruoli degli artisti, degli spettatori, dei soggetti
all’interno dell’inquadratura. Con Nico Marzano parliamo in una pausa del
festival al telefono da Londra.
Nico Marzano
Il lavoro di ricerca dell’ICA si presenta come una
sorta di mappatura in costante aggiornamento del cinema e delle sue tendenze
oggi. Quali sono le linee che prediligi?
Al centro di
questa investigazione c’è la relazione tra estetica e politica e dunque i modi
e le forme con cui viene coniugata. Nello sguardo di un cineasta c’è sempre un’
intenzione politica che assume un’importanza e una forza maggiori quando non
viene esplicitata come tale ma si manifesta nella ricerca formale, nei
linguaggi, nel discorso cinematografico che viene messo in atto. Mi interessa
esplorare la questione etica nell’opera di ogni autore che si confronta con una
certa realtà: quale è la necessità che lo spinge? Con che sguardo si pone verso
ciò che racconta? Quanto l’esigenza di una visione politica mette in gioco
l’esistenza dell’autore, il suo vissuto, il rapporto con ciò che narra? Per
farti un esempio: abbiamo aperto con A Night of Knowing Nothing di Payal
Kapadia, quando l’ho visto a Cannes (era alla Quinzaine 2021, ndr) mi ha
colpito moltissimo per come esprime pienamente questo legame tra estetica e
politica. La storia rimanda al movimento di protesta degli studenti contro il
governo indiano, ma esprime anche una visione molto sensuale, ci dice di una
storia d’amore. La stessa tensione la ritroviamo in un altro film del programma,
La Sangre en el Ojo di Toia Bonino, che parla delle gang in Argentina dalla
prospettiva di una madre, sovvertendo i codici di un archetipo criminale e di
mascolinità. Il festival è nato anche dal desiderio di creare una sorta di
internazionale del cinema del reale che in Gran Bretagna non esisteva.
In che senso? Non c’è produzione di cinema del reale
nel Regno unito?
Il momento attuale
vede un predominio delle produzioni mainstream, le televisioni, il Bfi e la Bbc
puntano su prodotti formattati, che prediligono contenuti più descrittivi
pensando che così siano maggiormente accessibili a tutti. Io credo invece che
il cinema dovrebbe provocare continue domande, essere motivo di un’apertura
degli occhi, della mente: in questo sta il suo essere una forma d’arte che
resiste e di cui adesso c’è più che mai bisogno per arginare le invasioni dello
streaming. Perché che il cinema sia sotto attacco è abbastanza evidente, specie
con la pandemia, ma quello che consumiamo sulle piattaforme non è vissuto
mentre la scommessa del cinema è permettere un incontro e un confronto tra chi
lo vive, gli autori, il pubblico. Oggi trovare spazi in sala per un certo tipo
di film è quasi impossibile: con ICA ho riattivato la distribuzione, e abbiamo
anche una piccolissima piattaforma a supporto di progetti come il festival.
Abbiamo portato in sala autori come Wang Bing o Mariano Llina (La Flor); non è
mai stato semplice ma ora è durissima, chi accetta di programmare film come
questi lo fa in forma di evento unico col regista. L’effetto supermercato
prodotto dalle piattaforme è molto evidente.
Frames of Representation come funziona? In che modo
viene fatta la selezione?
Da un punto di
vista teorico il festival è il risultato di un anno di studio e di ricerca non
solo con le visioni dei film ma attraverso progetti di scrittura e di
riflessione. Ogni anno c’è un tema, in questa edizione è stato (Re)Imagining»,
che mi permette di costruire un riferimento da cui partire. I venti film che
presento al festival sono poi proposti in programmazione di solito tra maggio e
settembre – il festival si svolge in aprile ma eravamo in lockdown quindi
abbiamo rimandato. E vengono distribuiti anche fuori dal circuito londinese, in
Irlanda. La scelta del tema si lega a suggestioni che ritornano nel corso
dell’anno e in più film, che gravitano intorno a determinati discorsi accolti
anche in ambito accademico. Abbiamo una stretta collaborazione con le
università, ci sono giornate di simposi insieme ai curatori e agli studenti;
ciò che è importante è la concezione della sala come uno spazio in cui corpi
interagicono, anche insieme all’autore, in una relazione che può diventare
fonte di ispirazione per nuove idee, per avere altri spunti di visione. Mi
piace pensare che si produca e una chimica unica soltanto in quel momento.
Anche per questo invito tutti gli autori al festival ma con la promessa di
stare insieme a noi, di immergersi nelle giornate, di guardare i film degli
altri, di parlare di vita, di cinema, di politica, d’amore.
A cosa rimanda l’idea del «ri-immaginare»?
Nel documentario o nella non-fiction suggerisce la possibilità di una manipolazione che è sempre guardata con paura o con preoccupazione. La manipolazione artistica è invece qualcosa con cui mi voglio confrontare e da cui mi piace essere sorpreso. Penso a un film come Re Granchio di Rigo de Righi e Zoppis – con cui abbiamo chiuso il festival – nel quale il cinema del reale si fa fiaba, o a Il palazzo di Federica Di Giacomo. L’affabulazione e la realtà possono coesistere, e non mostrare un certo tipo di linguaggio fa sì che ci si disabitui a questo.
Tratto
da “Il Manifesto” del 7.12.21