Registriamo da tempo una “ considerevole assenza delle voci delle persone direttamente coinvolte
nelle questioni di salute mentale, un individuo che non riesce più a svolgere
le attività tipiche della buona cittadinanza: lavorare, socializzare,
rispettare le regole, raggiungere il successo, fare carriera (spesso per la
classe media), o anche solo sopportare senza fiatare quelle che vengono
percepite socialmente come le normali difficoltà della vita a cui si è
destinati (spesso per la classe lavoratrice).”
Stiamo tornando a 50 anni fa quando, dei disturbi
mentali, era meglio non parlare, celarli, se possibile, all’interno delle case
borghesi o stigmatizzarli, come falsi problemi, da delegare agli specialisti,
in tanti altri casi. Il pezzo che segue,
ripreso da Valigia Blu ha il merito di soffermarsi sul disagio mentale,
inserito nel contesto sociale attuale, a partire dal racconto della storia di Alma
(nome di fantasia), 38 anni, sofferente di problemi psichici.
Attualmente siamo molto più portati ad occuparci della
pandemia, delle malattie trasmissibili e molto meno delle malattie cronico
degenerative, del disagio psichico.
Cosa manca, nell’organizzazione sanitaria, nel
servizio sanitario pubblica, per dare risposte appropriate ai bisogni di salute
di chi, come Alma, è affetta da malattia mentale? «Manca innanzitutto la prevenzione, sia individuale che sociale. Spesso
si arriva dal medico o dallo psicoterapeuta quando la situazione è già grave, a
causa dello stigma, della tendenza a minimizzare il dolore emotivo e dalla
mancanza di un supporto significativo. Il supporto, non solo medico, ma il
mutuo-supporto penso sia qualcosa di essenziale da imparare fin dalle scuole
elementari, se non prima. Il conoscere e prendersi cura sia delle proprie
emozioni che di quelle degli altri sarebbe uno strumento molto potente su cui
basare un programma di prevenzione. Per quanto riguarda i casi già in cura
sarebbe necessario ripensare il ruolo e la forma dei Centri di Salute Mentale,
che al momento offrono, oltre a poche sedute di psicoterapia, delle cure
esclusivamente farmacologiche che hanno una funzione più contenitiva che
curativa».
Torna il tema della prevenzione, della conoscenza, del prendersi cura, quali rimedi contro le malattie, rimedi, se non sempre sufficienti, sempre assolutamente necessari. (RL)
Salute Mentale depressione e media: le voci assenti di chi è direttamente
coinvolto
di Giusi Palomba
A volte ho avuto pensieri suicidi/ E non ne vado fiero: questi versi tradotti dal
francese fanno parte del nuovo singolo di Stromae, artista belga noto per
l’intensità dei suoi temi, spesso scomodi e complessi. "Enfer" è la parola scelta per il titolo, di
sicuro appropriata a descrivere l’ambiente mentale di chi soffre di
depressione: è un inferno, esattamente come la considerazione che normalmente
si ha della salute mentale. Qualcosa che brucia, qualcosa di inavvicinabile.
È indicativo che questo inferno sia finito in una canzone. Sembra quasi che negli ultimi anni il racconto della salute mentale abbia perso un po’ dello stigma che le aleggiava intorno. È un buon segno, ma fino a che punto? E in cosa si sta trasformando questo racconto? È lecito dire che per quanto la consapevolezza culturale o la rappresentazione nei media della sofferenza psichica sia più alta di qualche anno fa, questo non corrisponda sempre a migliori condizioni per le persone che soffrono?
La difficoltà di dare risposte è evidente, oltre che
costellata di ostacoli. C’è una considerevole assenza delle voci delle persone
direttamente coinvolte nelle questioni di salute mentale, quelle di persone
sofferenti, portatrici di una idea di malattia come sintomo di qualcosa di più
grande e collettivo di un problema individuale. Questa è un’idea continuamente
rigettata, conviene di più dare spazio a soluzioni immediate, che curano il
singolo e annullano il sintomo, che non coinvolgono l’ambiente sociale in cui
le persone soffrono, che dipingono queste come meno adatte e più deboli
rispetto al resto.
Prendiamo la depressione e il modo in cui è
comunemente percepita, ovvero come mal funzionamento di un individuo che non
riesce più a svolgere le attività tipiche della buona cittadinanza: lavorare,
socializzare, rispettare le regole, raggiungere il successo, fare carriera
(spesso per la classe media), o anche solo sopportare senza fiatare quelle che
vengono percepite socialmente come le normali difficoltà della vita a cui si è
destinati (spesso per la classe lavoratrice). Questa visione non interroga le
disuguaglianze sociali, né alcuna struttura di potere, e dunque le condizioni
non solo biologiche e chimiche, ma anche sociali in cui il disagio e poi la
malattia si sviluppano. Se iniziassimo a considerare i sintomi depressivi come
un rifiuto a tollerare l’intollerabile, a continuare a performare una finzione
insensata su un pianeta che sta diventando oggettivamente invivibile, un
rifiuto a conformarsi, una denuncia dell’inaccessibilità di un progetto di vita
felice, la percezione delle persone depresse sarebbe di sicuro differente:
l’anomalia diventerebbe chi il malessere non lo prova. Ciò non aiuta a
risolvere la sofferenza, è chiaro, e di sicuro nessuno desidera che di colpo si
ammalino tutti, ma può servire a cambiare la considerazione delle persone
malate come delle creature deboli e incapaci di funzionare in un sistema
considerato perfetto.
Alma [nome di fantasia] ha 38 anni, è autistica
e soffre di ansia e depressione. Da diversi anni è paziente del servizio
sanitario pubblico, ed è una di quelle voci che nel discorso non entrano mai,
perché la sua è, come tante, una storia molto dura: “La mia depressione è stata
diagnosticata a nove anni, ma esiste da quando ne ho memoria.” spiega a Valigia
Blu. “La mia stessa famiglia non era estranea alla depressione e altri
disturbi, ma al tempo non usava mettersi in discussione o curarsi per qualcosa
che non riguardasse il corpo. Dunque, sono stata la prima, a quindici anni, a
ricevere una cura farmacologica con lo scopo di rendere il mio dolore meno
visibile, più gestibile dall'esterno.”
La narrazione della malattia come problema individuale
per Alma e per molte altre persone sofferenti regge poco. È un’opinione diffusa
anche tra chi lavora nel settore. Sui limiti nei trattamenti possiamo ad
esempio, affidarci alle parole di Rosaria Gatta, psicologa e psicoterapeuta
pugliese, oggi attiva con uno studio a Milano, e che ha lavorato in Italia sia
nel pubblico che nel privato, oltre che con Medici Senza Frontiere in Africa,
America Latina e Asia. «La cosa che manca in Occidente in
particolare» ci spiega, «è la visione olistica della sofferenza mentale in
generale e della depressione in particolare. La medicina ad oggi, nonostante i
vari inviti della Organizzazione Mondiale della Sanità oltre che di molti
medici e psicoanalisti, non vede ancora la depressione nell’ottica
biopsicosociale, ma come un insieme di sintomi. Secondo la visione rapida e
indolore dell’occidente, una volta curati questi sintomi si annulla la
depressione. Non è così: un sintomo è qualcosa che vuole esprimersi e se il
sintomo viene rimosso, una volta eliminato, nella maggior parte dei casi si
trasformerà in altro.»
La difficoltà di raccontare
La depressione per molte persone è traducibile come la
difficoltà di vivere e anche di
raccontarsi, di seguire il filo della propria storia. Tuttavia,
questo stadio è già uno di quelli più avanzati. Le persone depresse a volte
smettono di raccontare il proprio dolore dopo averci provato per tantissimo
tempo, in tanti modi, lanciando segnali, consciamente o inconsciamente, a volte
persino col silenzio, e dopo aver riscontrato una amara verità: difficilmente
hanno trovato terreno per un vero ascolto, o persone in grado di riconoscere e
affrontare il problema, le radici primarie del malessere. Ovviamente non senza
motivo.
Fuori da qualsiasi retorica, una persona con
depressione che esprime il suo malessere nei periodi di crisi può risultare
quanto di più frustrante esista al mondo: è assenza totale di motivazione ed
entusiasmo, è un elenco di problemi per cui non esistono soluzioni, non c’è
speranza, nessuna luce, è solo essere tirati dentro a un abisso. Si può
svalutare il problema per la mancanza di una esperienza simile, per rabbia, per
risentimento, per vergogna, si può pensare che la persona stia soltanto
ricercando attenzione e chiedersi perché semplicemente non vada avanti e
continui a vivere facendo finta di nulla. Si può credere che la guarigione
dipenda dalla forza della volontà o dall’amore, che serva la religione, o
l’omertà in famiglia, si può essere immobilizzati dal non sapere come comportarsi
ed essere così spaventati da non riuscire a rispondere, interagire, a prendere
provvedimenti.
«A molte persone con sofferenza psichica viene chiesto
esplicitamente o implicitamente di nascondere la propria condizione» racconta
Alma. «Molte persone vengono negativamente bollate come pigre, condizione da
cui si dovrebbe uscire con la "forza di volontà", muovendosi, dandosi
una mossa, e se non si riesce a farlo si diventa un "fallimento" che
fa affondare l'intero nucleo familiare, infondendo un senso di colpa
inestirpabile. Lo stigma è talmente interiorizzato che spesso ci giudichiamo
male ancor prima che lo facciano gli altri. Molte volte questo porta a un
aggravamento di uno stato depressivo che in certi casi avrebbe potuto essere
passeggero».
Il senso di inadeguatezza della persona per non essere
abbastanza adatta a svolgere le funzioni che tutti svolgono, per non riuscire a
superare la depressione, raggiungerà picchi tali da preferire di gran lunga
l’interazione con altre persone nella medesima condizione. Spiega Alma: «Negli
interminabili mesi di ricovero, l'intervento terapeutico più funzionale e
riabilitativo di cui ho avuto e continuo ad avere esperienza è il legame creato
con altri pazienti. Ci sentiamo realmente, emotivamente capiti da chi ha avuto
un'esperienza simile alla nostra. Ciò può accadere per caso, ma non dovrebbe
essere un intervento lasciato alla fortuna. Molti di noi evitano il contatto
sociale, ci viene chiesto di non parlare della nostra condizione, ci insegnano
e chiedono di nasconderci il più possibile tanto non poter nemmeno riconoscerci
fra di noi.»
Le manifestazioni accettabili della sofferenza
psichica sono quelle che possono offrirci il cinema, la musica, la letteratura,
con un tocco di glamour e romanticismo. Geni incompresi, gioventù bruciata,
persone dotate di incredibile bellezza e talento che sembrano volerli sprecare
per un capriccio incomprensibile. Possiamo gestire la rappresentazione
artistica, ripulita magari della realtà anche disgustosa della depressione, ma
molto meno i pensieri suicidari dei nostri amici più cari. Possiamo
contemporaneamente affermare che l’arte, la rappresentazione in genere, possa
diventare spesso un appiglio, uno strumento, una forma di sfogo, ma anche di
comunicazione più efficace di molte altre.
Davanti alle persone che soffrono sentiamo un ignoto,
inesplorato abisso che parla delle nostre paure più profonde e si esprime nella
sua forma più pura e semplice: il dolore di esistere. E fuori dalla
rappresentazione filtrata o sublimata, questo dolore recupera lo stigma che
ancora c’è nella vita reale. Parlare della propria condizione liberamente, con
persone professioniste e non, è tutto ciò che chiedono le persone sofferenti,
eppure è la cosa più difficile da realizzare. Infatti, a livello sociale,
questa retorica fatta di dialoghi inconsistenti e irrilevanti persiste anche su
altri piani: si esortano sempre le persone depresse a chiedere aiuto, a parlare
con terapeuti, a rivolgersi alle persone care, ma sono parole vuote davanti a
l'inaccessibilità della cura, o nei casi estremi al ricorso a provvedimenti
coercitivi; diventano infine dei vicoli ciechi se consideriamo le condizioni
materiali di chi non ha privilegi di classe e geografici, solo per citarne
alcuni.
Accesso alle cure
L’accesso e l’adeguatezza delle cure è proprio il
fulcro del problema. Anche quando le persone intorno riescono a capire che la
malattia non si supera né con l’amore, né con la forza di volontà, non è detto
che si possa accedere a un aiuto professionale. Cosa manca dal punto di vista
di una paziente del servizio pubblico come Alma? «Manca innanzitutto la
prevenzione, sia individuale che sociale. Spesso si arriva dal medico o dallo
psicoterapeuta quando la situazione è già grave, a causa dello stigma, della
tendenza a minimizzare il dolore emotivo e dalla mancanza di un supporto
significativo. Il supporto, non solo medico, ma il mutuo-supporto penso sia
qualcosa di essenziale da imparare fin dalle scuole elementari, se non prima.
Il conoscere e prendersi cura sia delle proprie emozioni che di quelle degli
altri sarebbe uno strumento molto potente su cui basare un programma di
prevenzione. Per quanto riguarda i casi già in cura sarebbe necessario
ripensare il ruolo e la forma dei Centri di Salute Mentale, che al momento offrono,
oltre a poche sedute di psicoterapia, delle cure esclusivamente farmacologiche
che hanno una funzione più contenitiva che curativa».
Le misure istituzionali carenti, l’assenza di azione e
l’inerzia di fronte a diversi approcci farmacologici e non, incidono anche sui
professionisti della cura, che lavorando in condizioni sempre più
insostenibili, troppo spesso cedono al ricorso di farmaci per arginare le
emergenze. «Per intraprendere un processo terapeutico ci vuole tempo» spiega
Rosaria Gatta, «La farmacologia che risolve i sintomi è più veloce ed economica
per il sistema sanitario. Ed è un sistema in cui in genere l’assenza del
sintomo corrisponde alla guarigione». Questo si vede anche da altri aspetti
sistemici: i posti letti dei reparti magari si riducono, le liste di attesa si
allungano, ma i percorsi nel tempo si riducono a prescindere. «Se la persona
arriva a percorsi estremi, con minaccia di suicidio» continua Rosaria
«l’approccio è farmacologico: scampare il suicidio e un ricovero di tre giorni.
È chiaro che non è responsabilità di chi lavora, ma delle scarsissime risorse
messe in campo».
Il quadro naturalmente si è aggravato a causa della
pandemia, sia per i problemi posti al contatto diretto con le persone in cura,
sia per le ricadute della stessa e dei provvedimenti presi per contrastarla
sulla salute
mentale delle persone. Come sottolinea Gatta: «La situazione del covid ha
attirato un’attenzione tale sulla sofferenza diffusa a livello psichico e
sociale che avrebbe potuto essere un’occasione importante per parlare di salute
mentale e allocare risorse. Il bonus del governo avrebbe legittimato questo
tipo di dibattito, ma non è passato e questo la dice lunga sullo stigma che ancora
esiste».
L’accesso alle cure e il ricorso a trattamenti
alternativi o che non siano solo farmacologici o che siano semplicemente
efficaci, incontrano numerosissimi ostacoli. Per concludere, forse è vero, si
rappresentano più frequentemente e forse più facilmente i problemi di salute
mentale, ma la cura è ancora per la maggior parte rappresentata come un vezzo
della classe media. Una rappresentazione che può essere se non deleteria, di
sicuro non risolutiva per molte persone. Bisognerebbe poter partire da una
diagnosi appropriata cui tutti possano avere accesso, per capire
tempestivamente la severità della depressione.
Nella totale assenza di piani d’azione e durante tutto
il periodo pandemico, è stato perciò importante l’apporto di progetti
nati dal basso e a livello popolare, che oltre ad alleviare
l’urgenza di disagi, hanno sottolineato quanto sia politica e collettiva la
questione della salute mentale.
Perché poco o nulla si genera, né si risolve
individualmente, chi soffre in molti casi ha preso il carico di interrompere un
ciclo, qualcosa che viene da molto lontano, e i suoi sintomi stanno provando a
segnalare che c’è un problema. Non è un lavoro da poco, è il peso indicibile di
chi sente intorno a sé o raccoglie l’eredità di un disagio irrisolto, qualcosa
che magari altri hanno sofferto in precedenza o continuano a soffrire, ma per
cui non esistevano né lo spazio, né il tempo, né le parole.
Essere coscienti di questo è una questione di cruciale importanza, eppure quando pensiamo alla cura della salute mentale, ci viene ancora in mente una persona sola in uno studio molto ben arredato a parlare dei simboli nei propri sogni, che non è in grado di lavorare, di vivere la vita, di avere relazioni e provare gioie. La dimensione più ampia del problema difficilmente viene contemplata e culturalmente siamo forse ancora allo stadio della diagnosi della malattia collettiva, ma spostando in modo riduzionistico la malattia alla collettività si sceglie ancora una volta di non vedere le persone con depressione, il diritto a diagnosi, cura e relazioni sociali. E in questo ritardo, nonostante la sofferenza psichica non discrimini nessuno, sono le fasce più deboli a pagare il prezzo più caro. Perché nell’assenza di cure adeguate accessibili, il privilegio diventa l’unica possibilità per il recupero e il benessere, la capacità di estinguere o ravvivare le fiamme di quell’inferno.
Tratto da “Valigia
Blu” del 29 gennaio 2022