Patrizia Cavalli, voce amatissima della poesia italiana (come ci ricorda il pezzo di Alberto Fraccacreta, tratto da Avvenire del 21 giugno, che segue) era amica di Lucia. Come ci dice Maria Vittoria Montemurro, della nostra redazione: “l’abbiamo conosciuta e, ricordo che, con lei, abbiamo passato un divertentissimo pomeriggio”. Patrizia Cavalli, così profonda, limpida, ricca di ethos e partecipazione morale agli enigmi della contemporaneità, è capace anche di essere “divertente”. Siamo di fronte ad una vera rarità (RL)
Roma. Addio a Patrizia Cavalli, voce amatissima
della poesia italiana
Alberto Fraccacreta
Tratto da “Avvenire” martedì 21 giugno 2022
È morta a 75 anni la poetessa (ma lei preferiva
“poeta”) che ha saputo coniugare cultura alta e modelli espressivi pop. Nei
suoi versi ipnotici e cristallini la frizione tra ragione ed emozione
Il 21 giugno, solstizio d’estate, dev’essere una data
particolarmente importante per la poesia: nel giorno in cui nacque a Leopoli
Adam Zagajewski, è morta a Roma, all’età di 75 anni, Patrizia Cavalli.
«Eternità e morte insieme mi minacciano: / nessuna delle due conosco, / nessuna
delle due conoscerò», scriveva la poetessa (ma preferiva definirsi più
icasticamente “poeta”) nelle prime pagine del suo folgorante e disincantato
libro d’esordio, Le mie poesie non cambieranno il mondo (Einaudi,
1974). La dedica in esergo alla silloge è a Elsa Morante, conosciuta nel ’68,
vera musa eliconia della sua lirica, perché un giorno le conferì d’emblée l’agognata
investitura.
Nata a Todi nell’aprile del ’47, transitata per un breve periodo ad Ancona,
Patrizia Cavalli sbarca nella capitale per frequentare la Facoltà di Filosofia.
Entra ben presto in contatto con l’ambiente culturale romano, dove si afferma
in virtù di una voce poetica estremamente limpida e concisa….
….È chiaro che una lettura visiva non basta.
L’esperienza segnalata da Cavalli, cioè il deficit di memoria e di autopensiero
(di cogito, in termini cartesiani), ottiene maggiore consistenza
solo nell’effettiva sillabazione della gabbia metrica creata (un mix
monostrofico di settenari e novenari): come per il transmentalismo di
Chlebnikov o per l’acmeismo di Mandel’štam, la poesia coincide con il suo
aspetto “fisico” ed è dunque cruciale notarne le astuzie seduttorie, cioè la
rima, le allitterazioni, gli enjambement, le antitesi (“poco”,
“sempre”), l’utilizzo del poliptoto (“scompaio”, “scomparsa”). Ciò non vuol
dire che non ci sia un messaggio di fondo: come ha scritto Damiano Sinfonico,
si tratta per lo più di una cartografia dell’io «umorale e instabile,
circolarmente ripiegato su di sé, estraneo a ogni velleità di intervento
sociale e politico». Potremmo aggiungere che un’iniziale tensione
“disingaggiata” aderisca al progetto di equilibrio linguistico come misura
esistenziale. Alfonso Berardinelli ha osservato, infatti, che il lessico di
Cavalli «è misto e ibrido, ma la sua dizione è immancabilmente pura. [...]
Quando una cosa è precisamente detta, la mente guarisce dal malessere, dalla
malattia dell’imprecisione».
Nel 1981 esce, sempre per Einaudi, la seconda raccolta, Il cielo:
se identica è la brevitas dei componimenti, il verso si
allunga e sono approfonditi psicologicamente – attraverso uno stile piano,
immediato – le vicende sentimentali del soggetto. Con L’io singolare
proprio mio, compreso nel volume antologico Poesie 1974-1992,
si radicalizza il discorso sull’identità fino a toccare dimensioni
macrocosmiche di completezza-fusione con l’ambiente circostante: «Tutti i miei
sensi raccolti in uno / che era tutti e non era nessuno. / Un impasto
densissimo amoroso / che riassorbiva il mondo nel riposo. / Si mostrava nella
forma di un sorriso / che era di tutto il corpo non più diviso, / luce e
riflesso della luce d’ogni corpo, / mi visitava tenerezza di nascosto».
Al 1999 risale Sempre aperto teatro: anche in tal caso il titolo è
emblematicamente esatto, poiché la vocazione scenica di Cavalli – che nel corso
del tempo si è cimentata nella traduzione dell’Otello e di Sogno
di una notte di mezza estate di Shakespeare – raggiunge il suo snodo
apicale. Il trittico, ancora einaudiano, degli anni Duemila (Pigre divinità
e pigra sorte, 2006; Datura, 2013; Vita meravigliosa,
2020) contribuisce ad amplificare la conoscenza dell’opera dell’autrice umbra
presso un pubblico più largo. Dwight Macdonald avrebbe asserito che i versi di
Cavalli – senza alcun demerito ovviamente – appartengano al cosiddetto midcult,
perché capaci di coniugare istanze di cultura alta a modelli espressivi pop,
grazie alla felice formula del poemetto (ad esempio La Guardiana,
nottetempo 2005).
La radiografia del piacere e del dolore, l’effusione
delle emozioni come mezzo per rivelare la multiforme personalità dell’homo
cogitans (si veda la raccolta di prose Con passi giapponesi,
Einaudi 2019), e infine la raffinata rappresentazione dell’age of anxiety sempre
con l’ausilio di misure classiche hanno reso paradossalmente l’operazione
letteraria di Cavalli, almeno secondo Agamben, «corale e pubblica», ossia ricca
di ethos e partecipazione morale agli enigmi della
contemporaneità. La strizzata d’occhio al “sé grandioso” è quanto di più vicino
possa esserci a una puntuale descrizione del lavorio interiore dei giovani
d’oggi: «Così schiava. Che roba! / Così barbaramente schiava. E dai! / Così
ridicolmente schiava. Ma insomma! / Che cosa sono io? / Meccanica, legata,
ubbidiente, / in schiavitù biologica e credente. Basta, / scivolo nel sonno,
qui comincia / il mio libero arbitrio, qui tocca a me / decidere che cosa mi
accadrà, / come sarò, quali parole dire / nel sogno che mi assegno», scrive
sintomaticamente in Datura.
Mistica senza contorni rigorosi, amante dell’estasi e
del “ragionare d’amore”, giocatrice di poker a livelli professionistici (e
quindi non lontana dall’incarnare alla perfezione un personaggio
dostoevskiano), Patrizia Cavalli ha raccontato con insuperata intensità il
bisogno umano di confondersi nel tu, adorato e respinto, di fare spazio alla
realtà nonostante la dilatazione dell’io e la perdita di «ogni traccia di
verosimiglianza». Com’è detto in una poesia centrale di Vita
meravigliosa: «Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica
mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio
felice niente».