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Con i medici a gettone andiamo verso un drammatico smantellamento del sistema sanitario pubblico

di Alice Facchini

 

Tratto da “Valigia Blu” del 5 luglio 2022 

 

In Italia i medici al pronto soccorso scarseggiano, il servizio rischia di non essere garantito e le strutture, per tamponare il problema, ingaggiano sempre più medici a gettone. Si tratta di un nuovo metodo di reclutamento, che consiste nel reclutare medici liberi professionisti a chiamata tramite società private o cooperative, per coprire turni e servizi scoperti. Il fenomeno era iniziato già qualche anno prima della pandemia, ma con l’emergenza sanitaria è diventato sempre più strutturale. In particolar modo, questo meccanismo coinvolge i medici d’urgenza che operano nei pronto soccorso, ma anche i pediatri, i ginecologi e gli anestesisti.

La Società italiana della medicina di emergenza-urgenza (Simeu) ha fatto un’indagine da cui risulta che quella dei medici a gettone è una prassi che si è radicata in quasi tutto il territorio italiano. In Veneto vi fa ricorso il 70% degli ospedali, il 60% in Liguria, il 50% in Piemonte. In Friuli Venezia Giulia e nelle Marche tutte le strutture sanitarie hanno ricorso ai medici a gettone. 

“All’inizio il fenomeno era confinato nelle regioni con maggiore carenza di medici, mentre adesso si è esteso a livello nazionale”, spiega il presidente di Simeu, Fabio De Iaco. “Questo genera due ordini di problemi: innanzitutto gli alti costi per il sistema sanitario nazionale, considerando che le paghe dei medici a chiamata arrivano anche a mille euro per un turno di notte, molto più di quello che recepiscono gli strutturati. E poi c’è la questione dell’esperienza: spesso i medici a gettone non hanno un’adeguata preparazione e non è raro che nei pronto soccorso lavorino neolaureati non specializzati”.

A rischio c’è la qualità del servizio.

La questione dell’interinale è complessa, prima di tutto per la qualità del servizio. “La legge 502 del 1992 prevede che, per l’accesso ai concorsi della sanità pubblica, sia necessario per i medici possedere una specializzazione”, spiega Vittorio Dalmastri, responsabile della Cgil medici dell’Emilia-Romagna. “Dal momento che entra in gioco un terzo soggetto, è questo a dover garantire la qualità. In Emilia-Romagna, nei bandi per i pronto soccorso è specificato che il medico deve essere specializzato nella materia equipollente, mentre in altre regioni non è richiesto neanche questo”.

Criteri di selezione comuni infatti non sono ancora stati definiti: spesso l’unico requisito richiesto dalle cooperative o dalle società che forniscono personale esterno agli ospedali è che i medici siano iscritti all’ordine. Ci sono quindi anche medici senza esperienza, non specializzati, medici in pensione o stranieri che non parlano la lingua. È poi il bando stesso emesso dalla struttura sanitaria a definire le caratteristiche del professionista da reclutare, ma a volte pur di trovare il personale si abbassano i requisiti richiesti.

C’è inoltre la questione che i medici a gettone non conoscono l’organizzazione della struttura sanitaria in cui operano, gli obiettivi, le procedure, ma nemmeno il software di gestione delle cartelle dei pazienti. E poi gli ospedali non possono controllare se i professionisti che vengono mandati dalle cooperative siano effettivamente riposati, se abbiano lavorato un numero di ore consono, o se invece non abbiano avuto sufficienti riposi e siano in sovraccarico. “Anche questo ha un impatto sulla loro performance lavorativa”, spiega De Iaco. “Esistono medici che lavorano su tutte le regioni: come facciamo a controllare? Per non parlare del fatto che quando ritardano i treni o gli aerei, arrivano in ritardo al turni”.

La radice del problema sta nella mancanza di medici

Il problema a monte è che negli ospedali italiani scarseggia il personale medico-sanitario, in particolare nei pronto soccorso, dove oggi mancano circa 4.500 medici. Quali sono le cause strutturali di questo fenomeno? Negli ultimi anni si è dibattuto molto della questione dell’imbuto formativo, tale per cui i posti nelle scuole di specializzazione erano inferiori al numero di laureati in medicina. Negli ultimi anni, questo problema è stato superato e il ministero ha messo a disposizione un numero maggiore di borse di specializzazione. Ma visto che gli specializzandi poi ci mettono quattro o cinque anni per completare il percorso, ancora oggi il nostro sistema sanitario soffre della mancanza di personale dovuta alle scelte fatte in passato.

Oltre a questo, c’è anche un problema che riguarda nello specifico il lavoro in pronto soccorso: si tratta di una scelta sempre meno attrattiva per i futuri medici, per gli alti livelli di stress e usura, i turni massacranti, le grandi responsabilità, in cambio di bassi compensi. Quest’anno, circa la metà delle borse messe a bando per specializzarsi in medicina di emergenza-urgenza sono rimaste non assegnate.

Paradossalmente, la mancanza di personale genera per i medici del pronto soccorso condizioni di lavoro ancora peggiori, che fanno sì che i neolaureati continuino a non scegliere la strada della medicina di emergenza-urgenza. Un cane che si morde la coda. Per ovviare alla mancanza di personale, infatti, oltre a fare contratti con cooperative e società che gestiscono alcuni turni, gli ospedali rispondono con l’incremento delle ore degli strutturati, che fanno sempre più straordinari, e con l’aumento dell’intensità di lavoro e del numero di pazienti assegnati a ogni singolo medico. 

La legge finanziaria del 2010 ha fissato un tetto di spesa per il personale sanitario, che non deve superare il livello della spesa del 2004 ridotta dell’1,4%. “Questo ha impedito di fare nuove assunzioni e di pagare adeguatamente i professionisti”, spiega De Iaco. “Il ministro Speranza ha parlato di superare questo vincolo, ma ancora non è stato fatto. Nel frattempo, per aggirare questa norma, le strutture sanitarie stipulano contratti con le cooperative e le società che inviano medici a gettone, il che va a pesare sul capitolo di bilancio non del personale, bensì su quello di beni e servizi, che è lo stesso dove rientra anche l’appalto per la mensa o per le pulizie. In questo modo, anche se il pronto soccorso formalmente resta aperto, le prestazioni erogate sono di fatto molto diverse: dichiarare la chiusura di un servizio sarebbe un fallimento troppo grosso, così stiamo fallendo in maniera sotterranea. A oggi un paziente che entra in ospedale non ha la garanzia che il medico che lo visita abbia tutte le competenze richieste per essere lì”.

Non solo cooperative

Oltre alle cooperative esistono anche le società tra professionisti (StP), forma societaria riservata ai professionisti dell'Unione Europea iscritti a specifici ordini o collegi, come quello dei medici. “Siamo un’azienda di servizi: quando viene pubblicato un bando, con un capitolato e un disciplinare di gara, valutiamo se candidarci o no”, spiega Viviana Grimaldi, direttrice operativa della StP CMP Medical Division, specializzata in area critica (anestesia, pronto soccorso, pediatria, ginecologia e guardie interdivisionali). “Queste gare si espletano come un qualsiasi appalto, come quelli delle mense degli ospedali: il personale è assunto dalla StP ma presta servizio nelle strutture pubbliche”.

CMP Medical Division ha una squadra di oltre mille professionisti tra medici specialisti, non specialisti e infermieri, che operano in diverse regioni: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Lazio, Calabria, Sicilia, e ora si sta valutando se cominciare anche nelle Marche. “Chi non ha esperienza deve fare quattro o cinque mesi di affiancamento, mentre chi ha già lavorato ne fa solo uno”, dice Grimaldi. “L’età media è di 45-50 anni: abbiamo anche qualche medico che è in pensione, ma per lo più questi professionisti si occupano di formazione ai nuovi medici”.

Per quanto riguarda i compensi, si va dai 60 euro l’ora fino ai 120 euro l’ora, di cui la società trattiene una percentuale dal 3 al 5%. “Tutto dipende dal tipo di gara: se ci cercano con urgenza professionisti con caratteristiche molto specifiche, bisogna pagarli”, afferma Grimaldi. “È la legge della domanda e dell’offerta”.

La qualità del servizio erogato dipende però dalla singola società. “Ci sono alcune cooperative che puntano a vincere la gara, facendo un’offerta al ribasso, e poi non hanno a disposizione il personale per garantire il servizio”, racconta Grimaldi. “Un caso noto è quello della cooperativa Felice di Sassuolo, che non riusciva a garantire la copertura dei turni dei bandi che aveva vinto. Questo crea un danno sia all’ospedale sia alle società serie come noi: ci capita di lavorare con concorrenti sleali che svendono il lavoro pur di vincere l’appalto, non assicurando la qualità del servizio”.

Lo smantellamento del sistema pubblico

In alcune regioni, in particolare al Sud Italia, il fenomeno dei medici a gettone reclutati attraverso cooperative per coprire turni in ospedale è ancora poco diffuso. Ma gli ospedali ricorrono ad altri tipi di soluzioni, contrattualizzando come liberi professionisti – con contratti a ore o co.co.co. – medici spesso neolaureati e privi di specializzazione, che non avrebbero titolo di partecipare al concorso pubblico. 

Un’altra strada è quella delle prestazioni aggiuntive (ossia al di fuori dell’orario di lavoro) dei professionisti che già lavorano nell’ospedale, pagate a gettone. Le cifre hanno ormai superato il limite dei compensi previsti dal contratto nazionale di lavoro: nonostante ciò, spesso i medici rifiutano, perché sono talmente oberati che non riescono ad aggiungere altre ore di lavoro. 

“Siamo molto preoccupati: stiamo assistendo a un drammatico smantellamento del sistema sanitario pubblico”, conclude Vittorio Dalmastri. “Assumendo poco e pagando poco i medici che lavorano nel settore pubblico, il rischio è di spingerli sempre di più verso il privato o il mercato degli interinali. Anche il PNRR, che prevede grandi risorse per finanziare strutture e tecnologie, non stanzia finanziamenti per il personale. Questo è un punto fondamentale: se non si migliorano le condizioni di lavoro degli strutturati, ci sarà sempre un vuoto da colmare. Nonostante il Covid ci abbia insegnato quanto sia importante la sanità pubblica, in particolare in un momento di emergenza, ancora non abbiamo imparato a tutelarla”.