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Scienziati che sbagliano

Frodi, omissioni, bugie o errori dei ricercatori: in che modo la scienza può e deve reagire ai casi più gravi.

di Agnese Codignola – tratto da “La Tascabile” del 20.9.22

 

Agnese Codignola è laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche. Dopo anni nel campo della ricerca, si è dedicata interamente all’attività giornalistica. Oggi collabora con i principali gruppi editoriali italiani (RCS, Espresso-Repubblica, Il Sole 24 Ore, Focus-Mondadori e altri) occupandosi di salute, alimentazione, sostenibilità ambientale e scienza in generale. Il suo ultimo libro è “Il lungo Covid. La prima indagine sulle conseguenze a lungo termine del virus" (Utet, 2022).

 

C’è una parte consistente della comunità dei neurologi che è convinta, da anni, che la teoria su cui, fino a oggi, si sono basati quasi tutti gli studi sulla demenza di Alzheimer sia quantomeno insufficiente: non sarebbe vero, dicono, che la malattia sia da ricondurre all’accumulo nel cervello di una proteina chiamata beta amiloide. E così non si sono stupiti, quegli esperti, quando, qualche mese fa, è stato rivelato che una delle ricerche più citate sul tema, e pubblicata nel 2006, con ogni probabilità è solo un incredibile collage di falsi. Un patchwork farlocco, costato però decine di miliardi di dollari e due decenni inutilmente investiti nella ricerca su farmaci e anticorpi contro l’amiloide.

Pochi giorni prima, a essere portato sul banco degli imputati con accuse analoghe era stato uno scienziato molto stimato in Italia, all’estero da decenni: Carlo Maria Croce, genetista del cancro, più volte chiamato in correità per gravi falsificazioni di dati, ma più volte candidato al Nobel per la medicina. E qualche settimana prima, invece, si era conclusa nel peggiore dei modi (con una condanna in un’aula di tribunale) la vicenda giudiziaria di un bugiardo seriale, anche lui italiano, che, a causa delle sue improbabili e tragiche spacconerie, aveva lasciato sul campo diversi morti: il chirurgo Paolo Macchiarini, che per anni aveva sostenuto di poter trapiantare una trachea semiartificiale, trovando orecchie sensibili prima in Toscana, poi in Spagna, in Russia e in Svezia, fino al più che prestigioso (finora) Karolinska Institute di Stoccolma.

Sono casi molto diversi tra loro ma che, sommati a decine di altri, possono portare a un generale discredito della scienza e, soprattutto, della medicina. E non importa se parliamo solo di un’esigua minoranza di tutto ciò che viene riversato on line ogni giorno da migliaia di ricercatori che onestamente raccontano i propri risultati, e permettono così alle rispettive discipline di progredire lentamente, in modo incrementale, tra errori e battute d’arresto, com’è fisiologico. 

Chiunque abbia masticato ricerca sa che la scienza ha gli anticorpi per smascherare le truffe: se nessuno riesce a riprodurre un certo risultato, oppure se lo contraddice in modo convincente, quel risultato non è mai stato reale. E per tutti i risultati “non reali” quel momento, prima o poi, arriva.

Com’è ovvio, casi come questi, che coinvolgono scienziati all’apice della carriera, che compromettono il lavoro di una vita inventando risultati, falsificando foto e diagrammi, vantando o amplificando successi anche laddove vi sono stati fallimenti, destano stupore. Anche perché chiunque abbia masticato ricerca sa che la scienza ha gli anticorpi per smascherare le truffe: se nessuno riesce a riprodurre un certo risultato, oppure se lo contraddice in modo convincente, quel risultato non è mai stato reale. E per tutti i risultati “non reali” quel momento, prima o poi, arriva. E allora, ci si potrebbe chiedere, perché provare la truffa sapendo che è solo questione di tempo prima di giocarsi la reputazione (che nella scienza è quasi tutto) e, con essa, il posto di lavoro, i fondi e, nel caso della medicina, danneggiare i pazienti, coinvolgendo poi collaboratori la cui vita scientifica sarà macchiata per sempre? 

Difficile fornire una risposta: a parte le distorsioni motivate dai conflitti di interesse (per esempio se si ricevono finanziamenti privati troppo importanti per la sopravvivenza del laboratorio, eccessivi o opachi), in molti casi si tratta di lotte per potere o denaro, e di narcisismo patologico, “diagnosi” che spiegherebbe il distacco di questi ricercatori dalla realtà, e il fatto che non pensino alle possibili conseguenze, considerandosi più astuti degli altri: di tutti gli altri, per definizione inferiori. 

C’entrano poi spesso la concorrenza feroce per la distribuzione dei fondi, insieme ad altri fattori meno scontati quali, banalmente, la pigrizia e la superficialità nel condurre i test, che possono spingere a inventare di sana pianta risultati mai ottenuti. Ma la responsabilità non è solo delle bio-star o di coloro che vorrebbero diventare tali con qualche scorciatoia: è anche dei loro partner, tra i quali in primo luogo le riviste, e quindi i referee (esperti del settore chiamati a giudicare anonimamente il lavoro dei colleghi), che non si accorgono di errori e contraddizioni spesso marchiani, così come dei centri di ricerca, che incredibilmente non vedono forzature, plagi e invenzioni. Per arginare un fenomeno che sembra in crescita da anni, il primo passo è individuare le caratteristiche tipiche della falsificazione scientifica, perché è lì, primariamente, che si deve intervenire. E gli esempi citati possono aiutare.

Per arginare un fenomeno che sembra in crescita da anni, il primo passo è individuare le caratteristiche tipiche della falsificazione scientifica, perché è lì, primariamente, che si deve intervenire.

Torniamo al caso dell’Alzheimer allora: si può partire dai fatti più recenti, che dimostrano quali catastrofiche conseguenze possano avere dei dati inventati. Nel 2022 la Food and Drug Administration ha approvato un anticorpo monoclonale diretto contro la proteina beta amiloide, l’aducanumab, di Biogen, studiato su 3.000 pazienti di venti paesi. Il via libera però è arrivato a diciotto anni di distanza dall’ultimo dato a una terapia anti Alzheimer, e ha comprensibilmente provocato le dimissioni di tre membri del comitato nominato dalla stessa FDA per giudicare il trattamento. Comitato che si era espresso contro con dieci voti su undici: un fatto inaudito. Il panel, infatti, non credeva affatto all’aducanumab: d’altra parte la prima conclusione della stessa Biogen era stata che il monoclonale fosse inefficace. Solo in un secondo tempo, analizzando nuovamente i dati, l’azienda ha sostenuto che esso possa migliorare le funzioni cognitive dei soggetti con malattia in fase precoce del 22%, e ridurre di un terzo la formazione di placche: al costo di 56.000 dollari all’anno. E l’agenzia, contro il parere degli esperti da lei stessa nominati, ha dato il suo benestare.

Tra coloro che avevano alzato la voce contro il via libera all’Aduhelm (questo il nome commerciale del monoclonale), c’era anche Matthew Shrag, un neurologo dell’Università Vanderbildt che, anche per questo, è stato in seguito coinvolto in una petizione alla FDA per fermare la sperimentazione di un altro farmaco, il Simufilam, della Cassava Sciences, anch’esso diretto contro la beta amiloide, e tuttora in studio. La motivazione della richiesta, sottoscritta da molti neurologi, era stata: i dati dell’azienda sono falsi, inventati e distorti, come in parte ha poi dimostrato lo stesso Shrag. 

Questi studi, come moltissimi altri, traggono origine da quell’unico paper, pubblicato nel 2006 su Nature, a firma Sylvain Lesné, neurologo dell’Università del Minnesota Twin Cities, che di fatto, per quasi due decenni, ha monopolizzato la ricerca sull’Alzheimer, mentre uno sparuto gruppo di dissidenti cercava di discutere su altre idee per le demenze, scontrandosi con quella che definiva la mafia dell’amiloide.  Poi la svolta degli ultimi mesi: Schrag, che ha avuto accesso alle figure originali usate da Lesné nel paper, ha agevolmente dimostrato che molte di esse sono collage di altre foto, copia-e-incolla piuttosto grossolani, e lo stesso hanno fatto numerosi esperti coinvolti in questa spy story raccontata da Science, rivista che non si è fermata a quello studio ma ha allargato l’inchiesta agli altri lavori (almeno 70) di Lesné, dimostrando che il vizietto era insorto ben prima del 2006, e che gli stessi artefatti erano rintracciabili in molti altri lavori. In altre parole, centinaia di studi di base e clinici costati – solo per quanto riguarda i National Institutes of Health statunitensi – 1,6 miliardi di dollari, sono stati condotti partendo da una paccottiglia scientifica che qualunque laureato in biotecnologie avrebbe potuto facilmente svelare. Il paper del 2006 non è stato ritirato né corretto né dagli autori, né da Nature. E la FDA non ha ancora accolto la richiesta di fermare la sperimentazione del Simufilam. 

Uno dei casi di maggior scalpore è quello contro Carlo Maria Croce, genetista del cancro, accusato da Nature di aver falsificato i dati e sovrastimato enormemente la loro portata, e di averlo fatto per anni.

Anche le accuse a Carlo Maria Croce, genetista del cancro, sono di aver falsificato i dati sovrastimando enormemente la loro portata, e di averlo fatto per anni. In questo caso l’inchiesta è stata condotta da Nature, che ha ripercorso tutta la storia del discusso ricercatore dell’Università dell’Ohio di Columbus, membro della US National Academy of Sciences, trovando undici studi ritirati, e ventuno rispediti agli autori per correzioni sostanziali, e un’infinità di dubbi su dati di vario tipo segnalati da ricercatori di diversi paesi. In questo caso, però, è stato l’ateneo di Croce ad aprire le indagini già cinque anni fa, conducendone almeno tre su numerosi casi di sospetti plagi e falsificazioni. Gli esiti di questa inchiesta non sono stati pubblicati, ma secondo Nature sono state dimostrate le responsabilità di due ricercatrici italiane del gruppo, Michela Garofalo e Flavia Picchiorri. Croce sarebbe stato ritenuto colpevole solo della pessima gestione del suo laboratorio, e per questo “dimissionato” dall’incarico più prestigioso, la John W. Wolfe Chair in Human Cancer Genetics. Rimane però ancora dipendente dall’ateneo, che lo paga più di 800.000 dollari all’anno. E si è appellato contro la sentenza, perché vorrebbe indietro la sua cattedra, insieme a un milione di dollari di danni per il disturbo. Il ricorso non è andato a buon fine e il genetista, interpellato da Nature, ha ribadito la sua linea, e cioè che gli errori, in un grande team, sono fisiologici e che lui, insomma, non è che può controllare tutto, e gli attacchi sono motivati solo dall’invidia di colleghi meno brillanti. 

Fin qui potrebbe trattarsi effettivamente solo – si fa per dire – di inciampi nel cammino di uno dei laboratori più prestigiosi degli Stati Uniti, sottoposto a una tremenda pressione affinché produca continuamente risultati. Ma il punto è che le acque, attorno a Croce, che nella sua carriera ha ricevuto oltre cento milioni di dollari in grant e una sessantina di premi, sono agitate da quasi tre decenni, come aveva ricostruito il New York Times in una minuziosa inchiesta del 2017. In quel reportage c’era già tutto: una sorta di fotocopia delle accuse di falsi e plagi su almeno trenta lavori, retrodatate fino al 1994 e appesantite da sospetti di poco commendevoli legami economici con la lobby del tabacco. Croce aveva fatto causa al Times, e aveva perso anche in quell’occasione. Ciononostante, non era successo nulla. E lui, famoso anche per la sua collezione privata di grandi dipinti italiani rinascimentali e barocchi, è tornato al lavoro, sempre seguendo il suo metodo, ovvero pubblicare un’impressionante quantità di studi, senza soluzione di continuità. Studi che, spesso, non hanno avuto le ricadute epocali che Croce ha sempre vantato, perché i geni individuati e descritti non erano poi così cruciali, nel cancro.

Il caso più clamoroso però, e certamente il più drammatico, è quello di Paolo Macchiarini, autoproclamatosi, e poi considerato da molti, fenomeno del bisturi: è responsabile della morte atroce di almeno sette persone, condannato (troppo tardi) sia in Italia che in Svezia per “negligenze” e scorrettezze burocratiche, e al momento latitante (forse in Spagna). Macchiarini inizia a proporre il suo strabiliante trapianto di trachea biotech ricoperta di cellule staminali a Barcellona, nel 2008. L’allora assessore alla sanità della Toscana Enrico Rossi lo viene a sapere, e fa di tutto per averlo al Careggi di Firenze, dove resta tra il 2010 e il 2012, anno dei primi guai legali. 

Il recente caso più clamoroso è quello del chirurgo Paolo Macchiarini e del suo presunto strabiliante trapianto di trachea biotech ricoperta di cellule staminali: come è stato possibile pubblicare dati di qualità così scadente su un tema così delicato?

Intanto Macchiarini inizia una collaborazione anche con l’istituto Karolinska a Stoccolma, che gli permette di operare. Gli Interventi sono prime mondiali: nessuno ha mai effettuato trapianti del genere, tantomeno di un organo delicato e cruciale come la trachea. Ma lui procede in Svezia, Russia e Stati Uniti, senza dati preliminari su modelli animali, senza approvazioni dei comitati etici, e pubblicando resoconti anche su riviste come Lancet (che in seguito ritira due lavori: studi che non avrebbero mai dovuto essere accettati), subito considerati da molti colleghi a dir poco lacunosi. Purtroppo per la sua folgorante carriera, sette degli otto operati muoiono, quasi sempre dopo atroci sofferenze e innumerevoli interventi successivi, e anche la sopravvissuta deve rimuovere la trachea impiantata. Gli anatomopatologi che conducono le autopsie parlano di corpi devastati, infetti e con gravissime dislocazioni di organi. 

Eppure, nonostante questi fatti inequivocabili, e nonostante un curriculum in larga parte inventato (e non impossibile da verificare), nessuno lo ferma fino a quando, nel 2012, è Vanity Fair a farlo, pubblicando un articolo della giornalista Benita Alexander. La donna lo aveva conosciuto durante un reportage su una delle pazienti, una ragazzina di 13 anni (deceduta poche settimane dopo l’intervento), ma aveva intrapreso con lui una relazione sentimentale fino al fidanzamento, nonostante la sua presenza – peraltro già sposato –  fosse più che discontinua, e nonostante promesse assurde come quella di essere uniti in matrimonio a Castel Sant’Angelo, a Roma, nientemeno che dal Papa, alla presenza tra gli ospiti dei coniugi Obama, Clinton e Sarkozy. Qualcosa evidentemente non torna e Benita Alexander, due mesi prima del sì, ingaggia un investigatore e smaschera il bugiardo patologico. È troppo, per un chirurgo di cui tutti parlano, e il reportage ha una tale rilevanza mediatica che anche i responsabili del Karolinska iniziano a unire i punti, fino a citarlo in giudizio, per misconduct: processo finito poche settimane fa con una condanna che non sarà mai eseguita, perché il condannato è irreperibile. 

La storia di Macchiarini è quasi incredibile, e sfocia, con ogni probabilità, nella patologia psichiatrica. Tuttavia, la domanda è: come è stato possibile che sia stato semplicemente creduto sulla parola sia prima di effettuare i trapianti senza prove preliminari, che dopo, una volta che l’esito era palese? E perché gli editor hanno pubblicato dati di qualità così scadente su un tema così delicato? Bo Risberg, ex presidente del comitato etico della ricerca svedese, ha definito la vicenda “la Chernobyl dell’etica”. Ancora una volta, ciò che emerge è che tutto si sarebbe potuto fermare, se solo qualcuno avesse letto i numeri e le spiegazioni date correttamente. Ma nessuno lo ha fatto. 

La manipolazione è sempre più presente (aiutata dalla sempre maggiore facilità d’uso dei software di elaborazione delle immagini). Ma è vero anche che viene anche scoperta più velocemente di un tempo.

E la storia continua a ripetersi. Ogni mese, purtroppo, vengono segnalati nuovi studi sospetti: è capitato recentemente per esempio con un’esperta di coralli e con uno di ragni sospettati, anche loro, di aver falsificato i dati. Per capire le dimensioni del fenomeno, si può leggere uno degli studi più imponenti mai condotti sul tema, nel 2016, che su oltre 20.000 paper biomedici aveva scoperto irregolarità probabilmente fraudolente in 800.

Anche la ricerca sul COVID ha lasciato spazio a decine di studi prima pubblicati e poi sbugiardati anche per il successo crescente di piattaforme che consentono la pubblicazione precoce senza la revisione come BioXRiv e MedRxiv, patrocinate, tra gli altri, dal British Medical Journal e dall’Università di Yale. Il meritevole sito Retraction Watch tiene il conto di tutti i lavori scientifici pubblicati e poi ritirati, e anche di quelli definiti zombie e che, cioè, pur essendo stati ritirati, continuano a essere citati e presi a riferimento. Sul coronavirus ne censisce già oltre 250, parte dei quali usciti sulle riviste peer review più autorevoli come quali ScienceNatureLancet, Blood e New England Journal of Medicine, che hanno ospitato teorie astruse quali il nesso tra COVID e 5G, tra COVID e cancro e tra COVID e una moltitudine di altre malattie, cause o trattamenti bizzarri come i suoni terapeutici di una certa lunghezza d’onda.

La manipolazione è dunque sempre più presente (aiutata dalla sempre maggiore facilità d’uso dei software di elaborazione delle immagini), ma viene anche scoperta più velocemente di un tempo, anche grazie alla rete e a siti come PubPeer, che pubblicano denunce motivate anonime e no. In più, è sempre più comune l’utilizzo di programmi di intelligenza artificiale capaci di riconoscere le immagini contraffatte, evidentemente più precisi ed efficaci di quanto non siano stati sin qui molti editor delle riviste o capi dipartimento. Basta insomma spesso uno sforzo neanche troppo eccessivo per valutare più attentamente gli studi – quando c’è la volontà di farlo.

A volte, ovviamente, escono paper con risultati sbagliati anche se non si tratta di frode, ma solo di superficialità, o di errori umani. Per evitare la diffusione di questi falsi c’è un rimedio più diretto, per quanto faticoso o umiliante possa sembrare. Lo ha dimostrato nelle scorse settimane Joan Strassmann, esperta di amebe, quando ha avuto la determinazione di ritirare un suo lavoro dopo aver scoperto, grazie a uno studente, alcune incongruenze nei numeri. Strassmann ha poi voluto raccontare la sua storia in un post:

“Ho dovuto dirlo a profani e scienziati: professori, post doc, familiari, redattori della rivista in cui abbiamo pubblicato i risultati sbagliati. La loro risposta è stata uniformemente positiva. Nessuno (tranne me stessa) mi ha rimproverato per incapacità tecniche o per aver perso tempo o denaro. Al contrario, tutti hanno provato a cercare delle giustificazioni (…). Eppure, la sensazione di aver fallito è stata difficile da contrastare (…). Ma ecco il lato positivo: ho imparato qualcosa, che poi è lo spirito stesso della scienza. Ho imparato che lo stigma che percepivo proveniva principalmente dal mio stesso ego. (…) Alla fine ciò che davvero conta è la scienza, e esercitarla nel migliore dei modi: evitando gli errori con una ricerca attenta, pensando attentamente a tutti i modi in cui puoi verificare il tuo lavoro. Se trovi errori, correggili con onestà e umiltà. Quando scopri un problema dopo la pubblicazione, ritira il documento. Abbi fiducia nel fatto che i tuoi colleghi scienziati capiranno. E poi torna al laboratorio, e ripeti l’esperimento.”

Perché la scienza si basa essenzialmente su qualcosa che è impossibile da imbrigliare in regole e controlli: la fiducia reciproca, che ogni ricercatore onesto chiede ed è disposto ad accordare agli altri membri della comunità, e che ogni ricercatore fraudolento mina alle radici.