Seconda Parte
IV. Il ritorno
Percorrendo le valli, il romano si fermava ad osservare ogni pianta, e si soffermava su quelle che potevano somigliare al desiderato silfio. Aniketos era irritato e lo andava convincendo che il silfio era estinto e che nessun dio e nessuna buona sorte avrebbero potuto metterglielo sul cammino. Nelle grotte in cui nei giorni successivi si fermarono, erano a volte tracciati dei disegni, ed anche quelli esaminava il romano, indugiando oltre ogni ragionevolezza. In una delle grotte, poi, incontrarono un vecchio, che l'aveva eletta a propria dimora, e vi aveva organizzato giaciglio, mensa e focolare. Li ricevette come ospiti: nonostante le vesti stracciate e la sporcizia che ricopriva il suo corpo, la sua parola era agile ed il suo pensiero alto. "È un eremita, un filosofo". "Non fidarti, è un folle". "Gli chiederò della pianta"."Cirene è ancora lontana, cerchiamo di arrivarci vivi".
Diceva di chiamarsi Egesia. Spiegò con passione insospettabile la propria dottrina ai giovani. Aveva studiato a Cirene, ma da tempo aveva abbandonato la civiltà. In quella grotta e a contatto con la natura sperava di trovare soluzione al conflitto tra la vita reale ed il principio che - ne era sicuro - ne costituiva il fondamento. Questo principio era il piacere. Nessuno si illudesse sulla gratitudine degli esseri umani, e sulla loro capacità di amare in maniera disinteressata; non diceva questo per sfiducia negli uomini, ma perché era evidente ed innegabile che ogni creatura vivente insegue la soddisfazione del proprio piacere ed il conseguimento dell'utile. Dunque nulla di strano se ogni altro principio era subordinato a questo, se da questo discendevano amicizia e beneficenza. Breve è la vita dell'uomo ed il suo corpo mortale è soggetto al dolore. Anche l'anima sperimenta la sofferenza e l'angoscia della limitatezza. Anargyros era affascinato dai discorsi del saggio, e per quella notte rimasero nella caverna insieme a lui.
"Il piacere è una chimera, ed il caso governa le vite delle creature viventi. A ciascuno la pienezza del vivere è negata, e invano inseguiamo i sogni che continuamente mutano, credendo vere le percezioni e le sensazioni del momento. Quello che per uno è piacere, non lo è allo stesso modo per un altro, e alcuni sono fortunati più di altri, perché sono offerte loro maggiori occasioni di piacere. Così per coloro che sono sazi il piacere assume connotazioni diverse da quelle che ha per coloro che ne sono maggiormente privi. In ogni caso, a tutti è negato l'appagamento, e perciò è saggio imparare a non aspettarsi troppo dalla vita. Io vivo in questa caverna per tenere lontani i desideri, e coltivo l'indifferenza per ogni aspetto materiale. Il giorno che anche vivere mi riuscirà indifferente, avrò compiuto il mio percorso di perfezionamento, e sarò libero. La mia felicità consisterà nell'essere oltre la vita ed anche la morte, che ci divide dai mali e non dai beni. Voi che inseguite le vostre illusioni non siete che schiavi, anime ingenue e transitorie come i piaceri che ricercate".
"Egesia, dopo queste parole la richiesta che volevo farti mi sembra sconveniente. Io però, che non sono saggio, come tu stesso hai detto, non potrei mai imparare a scegliere la morte. Inoltre non cerco la felicità per me, ma per il mio padrone, dal cui benessere discende il benessere di interi popoli. Pertanto, tu che sei sapiente, e che conosci i vani desideri degli uomini, dimmi dove posso trovare il silfio che dà la felicità. Non ho più risorse e domani tornerò a Roma a mani vuote. Il mio Cesare attende questa pianta per curare i mali del corpo e dell'anima, e non voglio deluderlo".
V. Il silfio
Dunque Anargyros procedeva
fissando il terreno, e dietro di lui veniva Aniketos, che alzava il capo per
guardare il mare e gioiva nel vederlo sempre più vicino. Giunsero all'ultima
collina, quella da cui erano partiti, la più prossima alla città. Erano
entrambi silenziosi, ma concentrati nell'ultima ricerca. Quando il liberto vide
il tappeto di semi seppe di aver trovato la pianta. Un esemplare bellissimo,
dal cui fusto delicato si levavano rami sempre più sottili e foglie lanceolate,
eleganti, puntute e verdissime. Rise per la felicità, e con le mani scavò la
terra e ne pose al riparo le radici. L'avvolse nel mantello, con grandissima
delicatezza, e si rivolse ad Aniketos con gli occhi pieni di lacrime.
Quanto al greco, dichiarò serenamente che sull'altopiano di silfio non ve n'era più, e che il deserto avanzava con i suoi soffi bollenti inaridendo i boschi.
Il viaggio di ritorno non fu sereno come quello dell'andata. Il mese invernale non era adatto per la traversata e più di una tempesta mise a repentaglio la nave e l'equipaggio. Ad Anargyros dispiaceva di non poter essere a corte per le feste dei Saturnali, perché avrebbe voluto fare dono della pianta a Nerone in quella occasione.
VI.
Nerone
Nerone ricevette Anargyrosin udienza privata. Ascoltòin silenzio il suo lungo racconto. Anargyros era deluso dalla indifferenza triste che gravava sul volto del Principe, laddove si sarebbe aspettato una vivace e gioiosa partecipazione. Intanto la pianta era stata interrata ed esposta in un bellissimo vaso, proprio di fronte agli appartamenti di Nerone, perché la potesse ammirare a suo piacimento. Quando il liberto ebbe terminato la narrazione, Cesare si abbandonò ad uno sfogo doloroso. Parlava piangendo ed ogni tanto un tremito gli percorreva le membra.
"Io non volevo che morisse, Anargyros, non volevo. Ho ucciso mio fratello il giorno dei Saturnali, con il veleno. Tutto è precipitato: Agrippina non mi dava tregua, mi minacciava e mi ricattava, mi controllava e tramava alle mie spalle. Non avevo voluto credere, fino a quel momento, che in lei non ci fosse neppure un'ombra dell'amore cui avevo diritto, se è vero che l'amore più grande è quello della madre. Per lei ero uno strumento, il bastone del comando, e la mia persona ed i miei desideri e le mie speranze non contavano nulla. Ho premeditato la morte di Britannico come il più spietato dei criminali. Ho calcolato tempi e luoghi, reazioni, ho scelto e misurato le parole. Non odiavo mio fratello, ma mia madre, ed era lei che volevo uccidere. Ho creduto, anche, che sarei stato finalmente padrone di me e del mio destino dopo questo delitto. Invece il rimorso mi strazia l'anima e tutte le notti lo spirito di quello sventurato si affaccia al mio capezzale. Rivedo il volto di pietra di Ottavia, l'espressione di terrore dei commensali, lo sguardo perso di mia madre. Pago un prezzo insostenibile, e mi chiedo se era questo l'unico modo per riprendermi la vita e l'impero. Il tuo silfio è giunto troppo tardi.Magari, se il suo succo prodigioso mi avesse inebriato, avrei ancora potuto credere in lei, ed in me stesso. Non sarò mai più felice, Anargyros, e non saprò occuparmi della felicità del mio popolo. Io sono come non dovrei, eppure dall'orrore di me stesso scaturisce la più ripugnante compassione, quella che si prova per i folli e per gli uomini spietati, perché non era questa la vita che volevo".
Nei giorni seguenti il
racconto delle avventure di viaggio del liberto distrassero la corte, e
alleggerirono la cupa atmosfera che circondava gli appartamenti di Cesare;
questi, dietro molte insistenze, accettò di partecipare al banchetto che gli si
preparava. Vedendo la pianta, infatti, il primo cuoco aveva danzato per la gioia
nelle cucine immaginando le prelibatezze che ne sarebbero derivate. Il pranzo
che seguì, elaborato in diversi giorni di lavoro, consistette in una grande
quantità di laseratum, la salsa più buona del mondo, arricchita da grani di
pepe e pinoli, un antipasto di zucca, una minestra di castagne, pollo numidico
nella versione originale, e a seguire lepre farcita. Furono preparati anche ghiri
imbottiti e succo d'orzo. Dopo il convito memorabile, accompagnato da canti e
danze, Atte preparò con le sue mani una pozione dolce, dal gusto delicato, che
Nerone bevve prima di andare a letto.
Avrebbe suonato e cantato e poi, forse, sarebbe partito per un lungo viaggio.
NdR: questo racconto narra in maniera romanzata una storia romana nata da letture storiche attendibili.