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Anna Maria Ortese alla Stazione Centrale

“In quella eccezionale città gli opposti non si fronteggiano, ma si toccano, e quasi si confondono….
Nella nuova epoca, nel tempo degli idoli, conta poco l’uomo e poco conta il suo sentire.”

di Maurizio Ciampa

tratto da Doppio zero.com  del 15 marzo 2023


In un giorno d’ottobre del 1957, Anna Maria Ortese, scrittrice e giornalista d’occasione, si trova ad attraversare la Stazione Centrale di Milano. Non deve partire, e neppure sta arrivando. Il quotidiano “L’Unità”, nella sua edizione milanese, l’ha incaricata di raccontare la vita della Stazione seguendo “le correnti umane che scorrono come rigagnoli neri per ogni dove”. Farà di più Anna Maria Ortese.

I suoi occhi mobili sono esigenti, lacerano la superficie levigata delle apparenze, e non si lasciano incantare dalle mitologie diffuse che esaltano il dinamismo della società italiana poco oltre la metà degli anni cinquanta. È iniziata l’epopea del “boom”, l’Italia sta cambiando volto, sotterra la sua secolare memoria contadina, s’inventa terra d’industria. Ma Anna Maria Ortese non partecipa alla festa. Manifesta disagio. Si tiene a distanza dai nuovi idoli. Ne diffida.

Dentro la circoscritta porzione di mondo della Stazione Centrale, vorrà cogliere “la percezione esatta di ciò che è la realtà del nostro tempo”. In tutti i suoi viaggi fra il ’48 e il ’62, in giro per le città italiane, a Nord e a Sud (Milano, Roma, Genova, Firenze, Napoli, Bologna, Venezia, la Sicilia, la Liguria) con puntate a Parigi, Mosca, Vienna, Anna Maria Ortese ha cercato una verità celata, l’ossatura, il suolo su cui poggiano le nostre vite. Persino nel Giro d’Italia, che la scrittrice segue (è la prima donna a farlo) nell’edizione del 1955. La Ortese ama l’apparizione fugace, il rapido dissolversi delle situazioni, sente nella loro fragile concatenazione, nel turbinio dell’effimero, il gioco mortale della vita. Questo è il Giro d’Italia per Anna Maria Ortese, che si è fatta catturare piacevolmente dalla sua “onda sempre nuova di uomini, di colori, di gridi, entro uno scintillio continuo di occhi, di ruote, urtati caoticamente da braccia dure e sudate, da formidabili spalle curve su un manubrio, vacillando come ubriachi e irrigiditi come gente che sogna”. E, a conclusione di questa singolare esperienza, dirà di aver conosciuto nel tempo del Giro le “ore più attonite e smemorate della nostra vita”.

Due anni dopo, nel 1957, l’intonazione cambia. Non c’è più la “bella, bellissima Italia” conosciuta al Giro. Quell’Italia si è dileguata dietro l’ultima curva come un’illusione. Ora premono pensieri più gravi, più gravi immagini. È il tempo degli idoli: “Si costruisce febbrilmente, si elevano cattedrali ai nuovi dei: la produzione, il guadagno, una felicità apparente dominano: sotto tutto questo riposano la memoria e la bontà dell’uomo”.

La landa oscura della Stazione Centrale di Milano è ora una triste prigione di esistenze. Qui la luce sembra essersi incagliata nella soffocante “solennità delle mura”, nella sua architettura gonfia di maestosa grandiosità, e precipita nelle acque stagnanti della Galleria. Eppure c’è movimento, un’“onda vivente” passa tra la Galleria e i binari, tra i binari e i varchi d’uscita. La scrittrice si tiene dentro il suo flusso, rovista tra i sogni e le paure di chi incontra, raccoglie le speranze inaridite, porta attenzione al declino delle attese. Nel “traffico febbrile” intravvede il profilo di un’ombra: un’“interiore immobilità e stordimento di chi crede di correre, ma è soltanto trascinato”.

Questa è la “realtà del nostro tempo” su cui impatta Anna Maria Ortese aggirandosi fra le mura della Stazione Centrale. Quello che vede le fa paura, sente avanzare e crescere il dominio perentorio delle “coalizioni del Nulla”. Le loro scorribande non sono transitorie. Lo smarrimento degli umani non è provvisorio. Si affaccia una nuova epoca, scintillante e desolata, dove non c’è riparo. Il giudizio di Anna Maria Ortese è asciutto e terribile, ed è sconfortato: l’uomo non ha più casa. Nelle città che, in questo arco di anni, visita, nei loro spazi dissestati, spadroneggia l’estraneità. 



Sull’“immobilità” la Ortese tornerà ancora, avvertendo nella febbre che sta scuotendo il Paese la presenza sotterranea di un nucleo freddo d’inerzia: “Era tutto più fermo, come se il tempo si fosse messo a correre in modo da confondersi con l’immobilità”. Qui non siamo a Milano, ma a Napoli nel 1961, gli anni cinquanta ormai alle spalle. La Ortese conosce bene Napoli (“Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale”, dirà in “Infanzia sepolta”). In quella eccezionale città gli opposti non si fronteggiano, ma si toccano, e quasi si confondono. Come ora si intrecciano movimento e stasi, sotto l’azione di un tarlo che corrode l’asse del tempo. Così nelle “correnti umane che scorrono come rigagnoli neri per ogni dove”, Anna Maria Ortese vede un meccanico procedere di automi, uomini e donne in silenzio (“lo sguardo fisso, le labbra serrate”), chiusi nel proprio intontimento. Il lavoro li ha svuotati di ogni umore vitale. L’umanità fa naufragio in “un gesto ripetuto milioni di volte, tutta una vita, sempre più serrato e rapido, fino all’estinzione totale della personalità”. 

E fuori? Che cosa accade una volta superate le arcate della Stazione Centrale, al di fuori del suo perimetro incantato? Come vive chi vive a Milano? Per la Ortese, non c’è un fuori: Milano è la sua Stazione, ed è l’Italia nella sua interezza. La selvaggia foresta delle differenze che un tempo segnavano il nostro Paese e la sua storia, sono state macinate da un grandioso processo di unificazione. In ogni più nascosto angolo del Paese “gli uomini tribolano, e hanno paura, e sono soli, e parlano sottovoce, e muoiono, senza che nessuno li sorregga e consoli, esattamente come nei deserti che videro correre le prime orde”. 

Nella nuova epoca, nel tempo degli idoli, conta poco l’uomo e poco conta il suo sentire.