Da bambino
era piccolo e gracile; adolescente, all'età di quattordici anni, continuava ad
esserlo. La madre aveva sperato che divenisse più alto, che crescesse più
robusto, e gli guardava i piedi che, invece, erano abbastanza grandi, sperando
che fosse quello il segno del futuro sviluppo. Abitava in una casa
antichissima, che la sua famiglia occupava da generazioni. I soffitti erano a
perdita d'occhio, le stanze si sviluppavano una dall'altra ed affacciavano
tutte su una veranda che dava sul lato interno dello storico palazzo
napoletano, alquanto fatiscente. In quella casa troppo grande restava spesso da
solo; una condizione economica quasi disagiata gli proibiva la soddisfazione di
piccoli acquisti, giochi e libri, di cui sentiva il bisogno. A scuola non brillava,
ed anche le relazioni con i compagni non erano delle migliori. Lo prendevano in
giro per la sua fisicità, per degli atteggiamenti morbidi ed incerti di cui non
era consapevole, per l'espressione malinconica, oltre che per una
impercettibile balbuzie che affiorava nei momenti di maggiore tensione emotiva.
Così Pasquale, Lino in famiglia, restava a fantasticare tra le mura di casa, e
si abbandonava senza rimorsi a qualche sogno. Si immaginava, adulto, come un
affermato professionista, uno dalle cui labbra e dalle cui decisioni pendevano
anche quelli importanti, o i distratti. Negli occhi neri gli passava un lampo
fugace quando, affacciato al balcone che dava sulla strada, decideva quale
automobile avrebbe acquistato, e di che colore. Il corpo gli mandava talvolta
messaggi inconfondibili, ma sperare di approcciare una ragazza era davvero
troppo, e quando timidamente aveva provato ad avvicinarsi a qualche coetanea,
se ne era sentito respinto e si era scoraggiato. Pareva anzi che le femmine
godessero a mortificarlo, quasi a dirgli "ma come ti permetti di
rivolgerti a noi, nullità? Non ti guardi nello specchio?". Quella crudeltà
veniva ricambiata con risatine di disprezzo, che Lino si faceva uscire a bella
posta e senza motivo alle spalle delle compagne di scuola, e che finivano con
il peggiorare la situazione. La sua indole rinunciataria non gli suggeriva
soluzioni che invece un carattere determinato e forte avrebbe saputo trovare.
Riflettendo sul futuro, si avviliva. La sua esistenza sarebbe rimasta com'era.
Nessuno per giocare, nessuno da amare, neppure un bel voto a scuola, una
soddisfazione di qualsiasi tipo. A sera, quando il buio lentamente calava nelle
camere, rimaneva steso sul divano del salotto a fissare i soffitti, e sperava
che un qualche miracolo intervenisse a cambiare il corso delle giornate, il
corso della vita.
Una sera in
particolare si era quasi addormentato fantasticando su di un guerriero di cui
aveva letto la storia, un eroe invincibile armato di tutto punto e brillante
come il servizio di posate della nonna dopo la lucidatura. Fu allora che gli
parve di intravedere una figura appollaiata sulla trave che passava a vista
sotto l'alto soffitto, in un punto in cui la tela si era staccata. La figura
era quella di un nanetto, un ometto vestito di marrone, con una cappa da monaco
- così sembrava - che bofonchiava e sbuffava senza pronunciare delle vere
parole. "Chi sei? Che vuoi?" Chiese Pasquale. "Sei venuto per
me? Sei un mago?". La risposta farfugliata risultò incomprensibile.
"Dillo subito, io non ho paura di te. Se sei uno spirito, se un incubo, se
un segno del destino. Parla o vattene via". Allora l'omuncolo volteggiò
acrobaticamente intorno alla trave, come un alpinista alla parete rocciosa. Poi
si riassestò e rise sguaiatamente. Lino restava immobile, supino sul divano, ma
non provava timore. La vocina del nano gli giunse finalmente alle orecchie:
" Io vivo qui, come te". "E da quando?". "Da sempre.
Da quando tu non eri ancora nato." "E come passi il tempo?".
"Osservando le vostre vite, la tua vita.
Mi annoio a morte". "Hai ragione, anch'io!". "Quando
spavento qualcuno, sono soddisfatto. Ma non sempre mi riesce".
"Perché sei cattivo?. "No, perché mi annoio". "Perché non
scendi a giocare? Che poteri hai?". "E che poteri vuoi che abbia?
Sono una piccola ombra. Quanto a giocare, non saprei proprio. Potresti venire a
giocare tu con me". "Forse sono troppo grande per giocare",
rispose Pasqualino con velata esitazione.
"Non è vero, non si è mai troppo grandi per farlo". "E a
che cosa?". "A passare per il vecchio pozzo del cortile, a nascondino
negli sgabuzzini, alla caccia al tesoro nella soffitta, all'uomo mascherato di
fuliggine...puoi scegliere". " E va bene, cominciamo dal pozzo del
cortile. Magari scoprirò un tesoro e diventerò ricco e famoso".
Quando la
madre di Lino rientrò dal lavoro, dopo una faticosissima giornata trascorsa a
far le pulizie nelle case degli altri, cercò il figlio sul divano dove
abitualmente l'attendeva. La nonna allettata nella sua camera disse di non
sapere nulla, né che il nipote l'avesse avvisata di una passeggiata, o di una
visita. Pasquale non c'era più, e mai più fu ritrovato.
Robert Frost, La strada che non presi
Due strade
divergevano in un bosco giallo
e mi dispiaceva non poterle percorrere entrambe
ed essendo un solo viaggiatore, rimasi a lungo
a guardarne una fino a che potei.
Poi presi
l’altra, perché era altrettanto bella,
e aveva forse l’ aspetto migliore,
perché era erbosa e meno consumata,
sebbene il passaggio le avesse rese quasi simili.
Ed entrambe quella
mattina erano lì uguali,
con foglie che nessun passo aveva annerito.
Oh, misi da
parte la prima per un altro giorno!
Pur sapendo come una strada porti ad un’altra,
dubitavo se mai sarei tornato indietro.
Lo
racconterò con un sospiro
da qualche parte tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco, e io -
io presi la meno percorsa,
e quello ha fatto tutta la differenza.
tratti da “La Scuola Marginale” di Maria
Colaizzo – Ed. Millerighe - 2015