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Riflessioni sull’etica del nostro “Co-abitare”

 Intervento di Virginia Varriale al seminario di Disciplina  ordinistica  e  deontologia  professionale (Ordine degli architetti pianificatori paesaggisti e conservatori di Napoli e provincia 22.07.22). 

Buona sera a tutti e ringrazio per questo invito, gradito perché può essere terreno di confronto fra discipline e linguaggi che, al di là della loro specificità, hanno in comune qualcosa: la realtà umana.

Mi è stato chiesto di dare un contributo sull’etica dalla prospettiva filosofica, essendo docente di filosofia e storia e premetto che non basterebbe un convegno per ripercorrere la storia dell’etica dall’antichità ad oggi, passando per il cosiddetto “Secolo Breve”, le cui categorie del pensare e dell’agire umano sono state come polverizzate dalle ideologie totalitarie, ma da allora è diventato sempre più urgente interrogarsi sull’etica, su cosa fare ma anche su cosa non fare, su cosa lasciar stare, su quali valori l’uomo di volta in volta costruisce la sua dimensione morale in una data fase storica. Ma per comprendere bene, bisogna andare alla radice, un po’ come quando per comprendere la stabilità di un edificio è necessario conoscerne le fondamenta.

La parola etica deriva dal greco “ethos” che comunemente traduciamo “costume”, ma per comprenderne a pieno l’essenza, dobbiamo rifarci a un detto di Eraclito, filosofo di Efeso, uno dei più importanti presocratici dell’antica Grecia.

Il detto di Eraclito suona: “ethos antròpo daìmon” che significa “Il carattere proprio è per l’uomo il suo demone”. “Ethos” significa soggiorno, luogo dell’abitare. La parola denomina la regione aperta dove abita l’uomo. L’ethos, ovvero ciò che soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno dell’uomo custodisce l’avvento di ciò a cui l’uomo appartiene nella sua essenza. Secondo Eraclito, questo è il  “daimon”, il dio. L’uomo abita nella vicinanza del dio. Anche Aristotele riporta lo stesso detto: “Di Eraclito si riporta un detto che egli avrebbe proferito a degli stranieri che volevano incontrarlo. Avvicinandosi, lo videro mentre si riscaldava a un forno. S’arrestarono sorpresi, soprattutto perché, vedendoli esitanti, egli li incoraggiò, invitandoli ad entrare, con queste parole “Anche qui sono presenti gli dei”. Che cosa significa?

Il gruppo di visitatori stranieri, curioso e invadente nel voler vedere la dimora del famoso filosofo, resta deluso e sconcertato. Quella gente credeva di incontrare il pensatore in condizioni che, a differenza del modo abituale di vivere alla giornata degli uomini, hanno i tratti dell’eccezione, dell’insolito. La gente voleva vedere qualcosa di cui poi chiacchierare. Magari si aspettavano di vederlo nell’atto di pensare, assorto in una meditazione profonda, non perché volessero essere colpiti dal suo pensiero, ma solo per poter dire di aver visto e ascoltato uno di cui “si dice” sia un gran pensatore. Invece i curiosi trovano Eraclito presso un forno, un luogo normale, dove si cuoce il pane e dove ci si può riscaldare. È un luogo quotidiano e lì Eraclito mostra tutta la sua povertà. Lo spettacolo di un filosofo infreddolito non offre nulla d’interessante. Questa situazione quotidiana e priva di fascino, cioè uno che abbia freddo e stia vicino al fuoco, ognuno la può trovare in qualsiasi momento a casa propria. Così i viaggiatori si accingono ad andarsene, Eraclito legge sui loro volti la curiosità disattesa e allora li invita a entrare con queste parole: “gli dei sono presenti anche qui”. Queste parole pongono l’ethos, ovvero il soggiorno del pensatore e il suo fare in un’altra luce. Non sappiamo se i visitatori abbiano compreso le parole di Eraclito, ma il fatto che l’aneddoto sia stato narrato e tramandato fini a oggi dipende dal fatto che ciò che esso racconta proviene dall’atmosfera di questo pensatore: anche in un luogo solito, “persino qui”, “sono presenti gli dei”. Il soggiorno (il solito) è per l’uomo l’ambito aperto per il presentarsi del dio (dell’in-solito).

Perciò in conformità al significato fondamentale della parola ethos, il termine “etica” vuol dire il luogo in cui abita l’uomo.

 L’etica deriva dall’abitudine: questo significa che nessuna virtù morale nasce in noi per natura, dato che nessun ente naturale si abitua a essere diverso: per esempio una pietra che per natura si muove verso il basso non prenderà l’abitudine di muoversi verso l’alto, neanche se qualcuno voglia abituarla lanciandola in alto migliaia di volte.

Quindi le virtù etiche  non si generano né per natura né contro natura, ma è nella nostra natura accoglierle, e sono portate a perfezione per mezzo dell’abitudine. Allora è necessario esaminare il campo delle azioni e il modo con cui compiano le azioni, perché questo determina la qualità del nostro comportamento etico. Accanto agli stati abituali vi sono i piaceri e i dolori ed è in virtù di questi che orientiamo il nostro agire. Ma l’uomo è un animale politico, sociale … non può non coesistere con gli altri, non può non creare relazioni, rapporti intersoggettivi, non può non considerare l’ambiente in cui si trova, non può non essere con-gli-altri.

Allora il discorso sull’etica si fa più complesso perchè “quel luogo dell’abitare”, di cui ci ha parlato Eraclito, non è solo il mio ma è anche quello della comunità di cui faccio parte.

Sarebbe molto interessante fare un excursus storico- filosofico su come l’etica sia cambiata dal periodo delle poleis greche, in cui si educava alla “paideia politica”: educare l’uomo politico significava educare l’uomo morale, poiché l’agire può rivestirsi di un contenuto etico solo quando congloba in sé il bene dell’intera collettività.

Noi ci comportiamo eticamente non quando agiamo in relazione al nostro bene personale, ma quando agiamo in vista del bene comune  di cui il nostro bene fa parte.

Ma oggi è l’ethos degli architetti ad essere indagato!

E credo che anche gli architetti orientino le loro azioni non esclusivamente in virtù di ragioni estetiche, ma debbano tener conto del rapporto con la società, con la cittadinanza, con la memoria culturale.

Nel mestiere dell’architetto esiste un’etica professionale? Un architetto deve solo obbedire alle richieste del suo committente, oppure, quando progetta e costruisce un edificio o trasforma un paesaggio o una città, deve avere in mente un più ampio orizzonte? Deve impostare il proprio lavoro tenendo conto del contesto storico, naturale, ambientale in cui opera, o può prescinderne piú o meno totalmente? Progettando un edificio, per esempio in Costiera amalfitana, deve tener conto del paesaggio, del tessuto urbano, della storia del posto, o concepirlo come qualcosa che, calato dall’alto, può inserirlo indifferentemente in costa amalfitana, a Dubai o a Madrid?

L’etica architettonica non deve diventare essa stessa un meccanismo di mercato, ma deve tradurre in opere il diritto alla città. Gli architetti devono mettere al primo posto non il proprio individualismo formalizzante, ma la propria consapevolezza di volersi rendere utili alla gente mettendo al loro servizio la propria arte ed esperienza.

Un’architettura etica deve interessarsi delle preoccupazioni etiche, sociali, politiche del suo tempo; e il lavoro dell’architetto va vissuto come un dovere civico che comporta forti responsabilità morali.

Il profilo etico, o deontologico, delle professioni nella nostra epoca attuale purtroppo non è cosa primaria. Se pensiamo a dei codici di comportamento del passato, per esempio il Giuramento d’Ippocrate per quanto riguarda i medici, leggiamo:

“Regolerò ogni prescrizione per il giovamento dei malati secondo le mie possibilità e il mio giudizio; e giuro che mi asterrò dal recar loro qualsiasi danno e offesa […] In qualsiasi casa io entri, giuro che vi entrerò solo per il bene dei malati, astenendomi da ogni offesa volontaria e da ogni abuso”.

Sarebbe facile trasferire, per analogia o per metafora, gli stessi principi al mestiere dell’architetto, poiché il paesaggio e la città sono la materializzazione del corpo sociale.

Oppure possiamo chiamare in causa Vitruvio, architetto dell’età augustea, il quale nel primo libro del “De architectura” delinea la figura dell’architetto ideale indicandone le caratteristiche salienti:

“La scienza dell’architetto richiede l’apporto di molte discipline e di conoscenze relative a svariati campi. Egli dev’essere in grado di giudicare i prodotti di ogni altra arte. La sua competenza nasce da due componenti: quella pratica, che è la costruzione [fabrica], e quella teorica [ratiocinatio]. La fabrica consiste nell’esercizio continuato e ripetuto dell’esperienza costruttiva, che si concreta quando l’architetto di sua propria mano, sulla base di un disegno progettuale, realizza l’edificio desiderato. La ratiocinatio consiste nella capacità di esporre e spiegare gli edifici, una volta costruiti con debita diligenza, secondo computi matematici e proporzionali. Perciò gli architetti che costruiscono senza una cultura adeguata non hanno un esito corrispondente al loro sforzo; mentre quelli che si impegnano sulla sola teoria inseguono un’ombra, e non la realtà. Solo chi padroneggia sia la pratica che la teoria è dotato di tutte le armi necessarie e può conseguire pieno successo […] L’architetto deve dunque avere ingegno naturale ma anche sapersi sottoporre alle regole dell’arte […] Deve avere cultura letteraria, essere esperto nel disegno, preparato in geometria e ricco di cognizioni storiche; deve avere nozioni di filosofia e di musica, saper qualcosa di medicina e di diritto, ma anche di astronomia e astrologia”.

Vitruvio dice come dovrebbe essere il suo architetto ideale. Per esempio, occorrono all’architetto nozioni di ottica per poter «determinare la distribuzione della luce negli edifici calcolandone l’esposizione ai diversi punti cardinali»; le nozioni mediche gli servono per studiare il clima e fare in modo che le abitazioni siano salubri; mentre la filosofia deve insegnare all’architetto a essere «generoso e non arrogante, leale e non avido di denaro, moralmente integro e attento alla propria reputazione». È mai possibile a un uomo solo accumulare tante cognizioni?

Sí, risponde Vitruvio, perché tutti i campi del sapere sono fra loro connessi.

La formazione dell’architetto è dunque funzionale alla qualità del suo lavoro, nonché alla deontologia propria del suo mestiere.

Questo testo potrebbe essere considerato il Giuramento di Vitruvio.

Se chiunque costruisce oggi in Italia avesse fatto un simile giuramento e vi tenesse fede, nessuno avrebbe osato mai edificare numerosissime abitazioni a un passo dalle piú velenose discariche della Campania: poiché conoscerebbe «le proprietà dell’aria e dei luoghi, che possono essere salubri o malsani», e si sentirebbe moralmente impegnato a costruire solo «abitazioni salubri». Se gli architetti sapessero qualcosa di diritto, si preoccuperebbero molto piú spesso di rispettare la legalità. Se chi costruisce a Venezia sapesse unire esperienza costruttiva e riflessione teorica, nessun intervento prescinderebbe mai dalle condizioni fisiche e dalle pratiche edificatorie di quella città.

L’etica architettonica dovrebbe essere la proiezione viva della cittadinanza, delle donne e degli uomini che vivono in un dato luogo. Dovrebbe tradurre in bellezza visiva il senso di giustizia sociale, il senso di comunità …

Gli architetti devono contribuire a fare delle città e dei paesaggi lo specchio della democrazia, l’incarnazione dei principî della vita civile, la proiezione del desiderio di “viver bene” la nostra vita presente, ma anche dell’imperativo etico di lasciare alle generazioni future un ambiente e una trama di città che siano degni di quel che noi abbiamo ereditato.

Il “giuramento di Vitruvio” è fondato sul presente e orientato al futuro.

Per esempio, la raccomandazione di Vitruvio, che agli architetti del suo tempo richiedeva cognizioni di medicina perché garantissero la salubrità delle abitazioni, trova un’eco nella Costituzione italiana, dove la tutela del paesaggio (art. 9) è in forte relazione con il diritto alla salute come «interesse della collettività» (art. 32). Sulla base della convergenza tra questi due articoli la tutela dell’ambiente è (lo ha stabilito la Corte Costituzionale) un «valore costituzionale primario e assoluto» in quanto espressione di un interesse diffuso dei cittadini. Questo nesso fra salute e architettura, in linea con la più avanzata cultura ambientalistica e con le battaglie per il diritto alla città e il bene comune, ha radici etiche prima che estetiche. 

La città o il paesaggio non va solo “guardato” ma anche “vissuto”.

E la bellezza va salvaguardata, perché consola gli uomini, li aiuta a vivere meglio …

Ma una bellezza che non sia estetizzante, ma eticamente compartecipata, che sia frutto di logos, eleganza, sensibilità per l’ethos, cioè per il luogo che l’uomo abita … Attraversare una piazza, percorrere un corso, salire su un edificio, andare a scuola, frequentare il teatro o il cinema, andare alla stazione ferroviaria, superare un ponte … ecco, queste azioni, queste abitudini se avvengono in luoghi non solo funzionali e sicuri ma anche piacevoli a vedersi si ha la sensazione di vivere meglio insieme agli altri.

Allora bisogna guardare a un’etica rispettosa dell’abitare degli uomini nella loro pluralità e diversità, coniugando con saggezza (con buon senso) il senso di comunità e la libera espressione delle arti, che hanno il compito di comunicare verità in cui tutti devono avere la possibilità di riconoscersi. Ho sempre pensato che le opere architettoniche debbano essere l’espressione, la sintesi di più cose: l’idea di Bello dell’artista-architetto, la natura del luogo, la storia degli uomini, le innovazioni tecnologiche che non devono deturpare, violare o mascherare ciò che è: ma recuperare o rinnovare ciò che è essenziale. E l’essenziale è la “comunitarietà”: mi sento vincolato all’altro, ma non sento questo vincolo come una sottomissione o un obbligo. In virtù di questo vincolo libero riconosco e rispetto la libera volontà dell’altro. Provo amore, philia, per l’altro ed è questo amore (direbbe Platone) che ci svuota di “estraneità” e ci riempie di “intraneità”.