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Caro mondo ti scrivo. Rileggendo “Le italiane si confessano” di Gabriella Parca


di Danilo Soscia 
tratto da  MINIMA&Moralia del 25 Luglio 2023 


Quando ho avuto tra le mani la nuova edizione di ‘Le italiane si confessano’ di Gabriella Parca (nottetempo), ho percepito l’elettricità tipica di certi oggetti trans-epocali, dal valore assoluto, al limite del magico.

Il volume esce la prima volta nel 1959, frutto di un raffinato lavoro di cernita delle lettere inviate da donne alla ‘piccola posta’ di due settimanali a fumetti presso cui l’autrice era attiva. Un cut-up sui generis, dove il singolo stralcio giustapposto a un altro e a un altro ancora componeva una specie di nuova storia.

Esce ma non decolla. L’iniziale indifferenza da parte dei lettori procede in parallelo alle peregrinazioni dell’autrice in giro per le librerie, nel tentativo di comprendere lo stato delle vendite. Come racconta la stessa Parca nella prefazione all’edizione Feltrinelli del 1973, il suo libraio di fiducia le avrebbe confessato con una certa diplomazia: “Sa, è uno di quei libri che si leggeranno in seguito…”. La buona creanza borghese, a volte, sa essere involontariamente profetica.

È un articolo sull’Espresso di Paolo Milano a far crollare la diga. Seguono polemiche, critiche, qualcuno addirittura disseppellisce la lombrosiana formula di ‘maniaca sessuale’ rivolgendola niente di meno che all’autrice. Un tessuto di interventi più o meno autorevoli che fanno però lievitare la notorietà del libro. Da quel momento in poi ‘Le italiane si confessano’ avrà ben 15 edizioni, e viene tradotto in Europa, America Latina, Stati Uniti e persino in Giappone.

Cesare Zavattini realizza una cernita delle lettere cucite da Parca, curando poi insieme ad altri la sceneggiatura di ‘Le italiane e l’amore’, pellicola del 1961 che varrebbe la pena riscoprire, non fosse altro per sondare nel corpo vivo di un’espressione artistica ‘altra’ quale fu l’effetto debordante di ‘Le italiane si confessano’ sulla percezione che un popolo aveva di sé. Ovvero, mutatis mutandis, qualcosa di simile alla scoperta della propria nudità nel Paradiso terrestre.

Tuttavia non è solo la sua vicenda editoriale a rendere questo oggetto diverso dagli altri. È la sua aura. È un libro di voci non funzionali, che non sono il frutto di un’evocazione letteraria. Infine le sue pagine sono l’esito di un sedimento vivo, che è filtrato nelle crepe della censura maschile. Le lettere che compongono l’opera, in prima battuta, erano rivolte a un’istanza di carta, a un nom de plume incorporeo, quindi a un’identità che non si caratterizzava come repressiva proprio perché all’apparenza non compromessa con l’ambiente sociale e familiare delle lettrici. Gabriella Parca le riceveva, tentava la pubblicazione delle più controverse, e quasi sempre doveva rinunciare poiché i direttori non volevano saperne di quel materiale. Con tutta evidenza, sarebbe stato troppo compromettente dare voce alla miriade di tabù con cui le donne avevano a che fare nel corpo repressivo della famiglia cattolica e maschilista sulla soglia degli anni Sessanta. Il destinatario di quelle lettere quindi, è parte stessa del messaggio. Benché allora si collocasse alla periferia editoriale, Gabriella Parca aveva scelto di divaricare gli interstizi di una censura silenziosa, di accogliere, comprendere, a dispetto delle forzate rimozioni.

L’urgenza delle testimonianze raccolte non arrivava da troppo lontano. Era l’Italia ex proletaria dei piccoli e grandi centri urbani che, a diversi livelli, stava precipitando nel pettinato baccanale del boom economico, farsa epocale ad appannaggio di pochi, che da parte sua avrebbe ulteriormente sepolto l’eco di quel martirio, etichettandole come sintomo di una cultura retriva, superato dalla bellezza dei consumi. E invece Gabriella Parca le conserva, le coltiva, le rende più forti studiando la composizione di un coro che non ha perso una scintilla del suo fuoco originario. Sono lettere delle nostre ave, per così dire, ma alcune di esse sembrano scritte oggi, poiché i fenomeni che inquadrano sono quelli di oggi: amore tossico, costrizione, subalternità coatta.

Fuori dal suo tempo di appartenenza, infatti, ‘Le italiane si confessano’ non ha bisogno di una teca per splendere della sua attualità. Non necessita di parafrasi che aggiornino il lessico, o di glosse che spieghino a chi oggi legge cosa fosse – cosa ancora sia – quella violenza, quella segregazione, che a centinaia le donne del dopoguerra italiano tratteggiavano con così lucida consapevolezza. Quelle mani che avevano il coraggio, e talvolta l’incoscienza, di prendere carta e penna tracciavano tutte, in controluce, il profilo odioso del privilegio maschile. Ridare corpo a quelle voci significa ripartire dal fantasma di una condizione che ancora adesso si aggira per l’Europa. E per il mondo.