Quando ho avuto
tra le mani la nuova edizione di ‘Le italiane si confessano’ di Gabriella Parca
(nottetempo), ho percepito l’elettricità tipica di certi oggetti trans-epocali,
dal valore assoluto, al limite del magico.
Il volume esce
la prima volta nel 1959, frutto di un raffinato lavoro di cernita delle lettere
inviate da donne alla ‘piccola posta’ di due settimanali a fumetti presso cui
l’autrice era attiva. Un cut-up sui generis, dove il singolo stralcio
giustapposto a un altro e a un altro ancora componeva una specie di nuova
storia.
Esce ma non
decolla. L’iniziale indifferenza da parte dei lettori procede in parallelo alle
peregrinazioni dell’autrice in giro per le librerie, nel tentativo di
comprendere lo stato delle vendite. Come racconta la stessa Parca nella
prefazione all’edizione Feltrinelli del 1973, il suo libraio di fiducia le
avrebbe confessato con una certa diplomazia: “Sa, è uno di quei libri che si
leggeranno in seguito…”. La buona creanza borghese, a volte, sa essere
involontariamente profetica.
È un articolo
sull’Espresso di Paolo Milano a far crollare la diga. Seguono polemiche,
critiche, qualcuno addirittura disseppellisce la lombrosiana formula di
‘maniaca sessuale’ rivolgendola niente di meno che all’autrice. Un tessuto di
interventi più o meno autorevoli che fanno però lievitare la notorietà del
libro. Da quel momento in poi ‘Le italiane si confessano’ avrà ben 15 edizioni,
e viene tradotto in Europa, America Latina, Stati Uniti e persino in Giappone.
Cesare Zavattini
realizza una cernita delle lettere cucite da Parca, curando poi insieme ad
altri la sceneggiatura di ‘Le italiane e l’amore’, pellicola del 1961 che
varrebbe la pena riscoprire, non fosse altro per sondare nel corpo vivo di
un’espressione artistica ‘altra’ quale fu l’effetto debordante di ‘Le italiane
si confessano’ sulla percezione che un popolo aveva di sé. Ovvero, mutatis
mutandis, qualcosa di simile alla scoperta della propria nudità nel Paradiso
terrestre.
Tuttavia non è
solo la sua vicenda editoriale a rendere questo oggetto diverso dagli altri. È la
sua aura. È un libro di voci non funzionali, che non sono il frutto di
un’evocazione letteraria. Infine le sue pagine sono l’esito di un sedimento
vivo, che è filtrato nelle crepe della censura maschile. Le lettere che
compongono l’opera, in prima battuta, erano rivolte a un’istanza di carta, a
un nom de plume incorporeo,
quindi a un’identità che non si caratterizzava come repressiva proprio perché
all’apparenza non compromessa con l’ambiente sociale e familiare delle
lettrici. Gabriella Parca le riceveva, tentava la pubblicazione delle più
controverse, e quasi sempre doveva rinunciare poiché i direttori non volevano
saperne di quel materiale. Con tutta evidenza, sarebbe stato troppo
compromettente dare voce alla miriade di tabù con cui le donne avevano a che
fare nel corpo repressivo della famiglia cattolica e maschilista sulla soglia
degli anni Sessanta. Il destinatario di quelle lettere quindi, è parte stessa
del messaggio. Benché allora si collocasse alla periferia editoriale, Gabriella
Parca aveva scelto di divaricare gli interstizi di una censura silenziosa, di
accogliere, comprendere, a dispetto delle forzate rimozioni.
L’urgenza delle
testimonianze raccolte non arrivava da troppo lontano. Era l’Italia ex
proletaria dei piccoli e grandi centri urbani che, a diversi livelli, stava
precipitando nel pettinato baccanale del boom economico, farsa epocale ad
appannaggio di pochi, che da parte sua avrebbe ulteriormente sepolto l’eco di
quel martirio, etichettandole come sintomo di una cultura retriva, superato
dalla bellezza dei consumi. E invece Gabriella Parca le conserva, le coltiva,
le rende più forti studiando la composizione di un coro che non ha perso una
scintilla del suo fuoco originario. Sono lettere delle nostre ave, per così
dire, ma alcune di esse sembrano scritte oggi, poiché i fenomeni che inquadrano
sono quelli di oggi: amore tossico, costrizione, subalternità coatta.
Fuori dal suo tempo di appartenenza, infatti, ‘Le italiane si confessano’ non ha bisogno di una teca per splendere della sua attualità. Non necessita di parafrasi che aggiornino il lessico, o di glosse che spieghino a chi oggi legge cosa fosse – cosa ancora sia – quella violenza, quella segregazione, che a centinaia le donne del dopoguerra italiano tratteggiavano con così lucida consapevolezza. Quelle mani che avevano il coraggio, e talvolta l’incoscienza, di prendere carta e penna tracciavano tutte, in controluce, il profilo odioso del privilegio maschile. Ridare corpo a quelle voci significa ripartire dal fantasma di una condizione che ancora adesso si aggira per l’Europa. E per il mondo.