È un tema complesso e interdisciplinare, fondamentale per capire la contemporaneità, e non dovrebbe venir relegato ai soli programmi di biologia e scienze naturali.
tratto da La Tascabile del 21.10.21
Il 2 marzo del 2004 sulla Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana compaiono le nuove indicazioni ministeriali
riguardanti la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo
grado. Letizia Moratti, ministra dell’istruzione, dell’università e della
ricerca firma un documento contenente 110 pagine, 4 allegati e specifiche
di ogni genere. C’è chi si accorge di un grande assente: Charles Darwin. Da
queste nuove linee guida per l’insegnamento delle scienze viene infatti
eliminato ogni accenno alla teoria dell’evoluzione. Centinaia di accademici
insorgono e con una lettera che riceve molta attenzione mediatica riescono a
rimediare: la ministra si vede costretta a tornare sui propri passi. È stato un
malinteso, “Darwin si studierà sin dalle elementari”.
Sedici anni più
tardi, oggi fortunatamente Darwin è ancora presente nei libri di testo. Ma il
modo in cui viene trattato nei programmi non è ancora privo di problemi e
approssimazioni. Il più grande di tutti: nei programmi evoluzionismo equivale
a evoluzione biologica e naturale, di esclusiva competenza del
docente di scienze. Un errore che può rivelarsi grave, perché durante lo scorso
secolo e mezzo, l’evoluzionismo ha invece influenzato i contenuti e i metodi di
ricerca della quasi totalità delle scienze umane, portando a scoperte
fondamentali nei campi più disparati: evoluzione del senso morale, studio
scientifico delle emozioni, analisi del cosiddetto “libero arbitrio”. Ha
provocato grotteschi scivoloni (il darwinismo sociale, in primis), è
vero, ma in generale ha contribuito in modo essenziale alla comprensione, o a una
maggiore conoscenza, di molte caratteristiche umane. Basti guardare la nascita
dei campi di ricerca dell’antropologia evoluzionistica e della psicologia evoluzionistica,
che hanno affiancato la biologia negli ultimi decenni nel tentativo di
ricostruire la storia filogenetica umana, con particolare riguardo
all’evoluzione di Homo sapiens.
Nei programmi scolastici italiani l’evoluzionismo è di
esclusiva competenza del docente di scienze. Eppure l’evoluzionismo è un
paradigma il cui perimetro d’indagine comprende ormai la gran parte delle
scienze umane e delle discipline che si occupano di studiare l’umanità.
Insomma, la
ricerca scientifica ha preso atto da tempo del grande potenziale epistemologico
e interdisciplinare che l’evoluzionismo racchiude. La scuola italiana invece
pare andare ancora in un’altra direzione. Ad esempio, le indicazioni relative
all’insegnamento della biologia nei licei (perché solo per l’insegnamento della
biologia viene menzionato l’evoluzionismo) esplicitano solamente la parola
“evoluzione” e non riportano nemmeno il nome di Darwin. Si parla genericamente
di “introduzione allo studio dell’evoluzione”, risolvendo la questione in una riga
scarsa di testo. Inutile sottolineare che il tema non appare in nessun altro
punto, né all’interno del paragrafo dedicato a storia, né a quello di filosofia
o, per i licei preposti, a quello di scienze umane.
Si tratta di una
grave lacuna per almeno due ragioni. In primo luogo perché l’evoluzionismo è un
paradigma il cui perimetro d’indagine supera abbondantemente quello della
biologia e delle scienze naturali, comprendendo la gran parte delle scienze e
delle discipline che si occupano di studiare l’umanità, nelle sue varie
declinazioni. In secondo luogo perché a un’analisi approfondita delle grandi
questioni della contemporaneità (come crisi climatica e perdita di
biodiversità) è essenziale l’approccio evoluzionistico. Cerchiamo di raccontare
perché.
L’evoluzione e Homo sapiens.
Prima che il genere Homo comparisse, circa due milioni di anni
fa, le forze dell’evoluzione biologica naturale plasmavano le specie viventi.
C’era la selezione naturale con la sua cieca forza, che permetteva la
sopravvivenza e garantiva la riproduzione o che, viceversa, condannava a morte
gli individui in base alle loro caratteristiche. E c’erano poi la selezione
sessuale e gli altri meccanismi ben noti oggi alla biologia evoluzionistica che
possedevano potere esclusivo su tutte le specie. La comparsa del genere Homo,
dalla tribù degli Hominini, portò qualche piccolo cambiamento
locale nel rapporto organismi-ambiente. L’evoluzione biologica naturale
conservò tuttavia il primato che possedeva fino all’arrivo della vera
rivoluzione, quando una specie di Homo, Homo sapiens,
che batteva i territori dell’Africa orientale già da oltre centomila anni senza
provocare clamore maggiore degli scimpanzè attuali, iniziò la sua diaspora “fuori dall’Africa”. Iniziò così l’ultima
grande migrazione umana preistorica, questa volta destinata a cambiare tutto.
Possiamo quindi
affermare che almeno a partire da settantamila anni fa, l’epoca a cui stiamo
facendo riferimento, l’evoluzione cessò di essere un fenomeno
esclusivamente biologico e si trasformò, in assoluta sinergia con le vicende
umane, in qualcosa di molto più grande. Quel periodo coincide infatti con la
prima delle grandi rivoluzioni umane: la rivoluzione cognitiva (o “grande balzo
in avanti”). Le specie del genere Homo, in realtà, si erano
tutte distinte dagli altri cugini Hominini per un aumento del
quoziente di encefalizzazione, ovvero del rapporto tra la massa cerebrale di un
individuo e quella che ci si aspetterebbe di trovare in un altro animale di
taglia simile. In sapiens, tuttavia, questo aumento prese una piega
del tutto inusuale. Il cervello cessò di espandersi in direzione
antero-posteriore, ovvero in orizzontale, per prendere una forma globulare,
ossia verticalizzata, aumentando la superficie della fronte. E proprio dietro a
quest’ultima si celava il segreto del successo: la corteccia prefrontale.
La capacità di
astrazione, l’autocontrollo, la presa di decisione, l’intelligenza emotiva e
tantissime abilità neurocognitive sono emerse grazie allo sviluppo di questa
piccola e recentissima porzione cerebrale. In sostanza, possiamo dire che la
capacità di produrre cultura (nel senso più ampio e universale del termine,
umanamente inteso) è emersa insieme alla corteccia prefrontale. Tutte queste
capacità tipiche di Homo sapiens (e, seppur in misura molto
minore, anche di altre specie del genere Homo, soprattutto di neanderthal),
non apparirono dal nulla. Non rappresentano il frutto di un intervento trascendentale,
non si manifestarono in un sol colpo. Furono anch’esse la conseguenza di un
percorso evolutivo, analogo a quello responsabile del cambiamento dei tratti
fisici. L’esempio più emblematico e forse più ricco dal punto di vista
epistemologico è l’evoluzione del linguaggio.
La capacità di astrazione, l’autocontrollo, la presa di decisione,
l’intelligenza emotiva, la capacità di produrre cultura sono emerse insieme
alla corteccia prefrontale, conseguenza di un percorso evolutivo.
Il
filosofo Francesco Ferretti dell’Università di
Roma Tre sostiene che questa facoltà sia emersa grazie a exaptation (termine
del linguaggio evoluzionistico che indica cooptazione funzionale,
ossia una nuova utilizzazione di elementi originariamente sviluppatisi per
assolvere ad altre funzioni) di tre abilità cognitive preesistenti: mindreading,
ossia la capacità di cogliere, inferire e interpretare gli stati mentali
altrui, mental time travel e mental space travel:
le abilità di muoversi con la mente, rispettivamente, nel tempo passato,
presente, futuro e nello spazio. Originariamente emersi per altri scopi, o in
seguito ad altre dinamiche evoluzionistiche, questi tre meccanismi cognitivi si
sarebbero uniti, probabilmente in seguito a pressioni selettive, consentendo
a Homo sapiens di sviluppare un linguaggio articolato.
Exaptation, termine coniato per la prima volta dal biologo Stephen J. Gould e dalla
paleontologa Elisabeth Vrba, è un fenomeno di grande interesse per gli
evoluzionisti contemporanei al fine di spiegare l’evoluzione dei tratti
biologici. In questo caso vediamo come in realtà si applichi analogamente anche
all’evoluzione dei tratti neurocognitivi, come la capacità di produrre
linguaggio. È un primo caso che mostra come i meccanismi evoluzionistici
sconfinino dalle dinamiche strettamente biologiche e influenzino l’essere umano
(ma non solo) anche su altri livelli.
Un altro esempio riguarda l’evoluzione del senso morale. Uno dei più noti
esperti in questo campo è lo psicologo Michael Tomasello, attuale co-direttore del Max Planck Institut per l’antropologia
evoluzionistica. Tomasello sostiene che la nostra capacità di percepire e agire
moralmente, anche se in realtà la sua teoria si irradia a tutte le abilità
tipicamente umane, è diretta conseguenza del suddetto mindreading:
l’abilità di cogliere, inferire e interpretare gli stati mentali altrui. In
questo caso, tale capacità sarebbe frutto del classico adattamento darwiniano,
evolutosi quindi per diretta influenza della selezione naturale. Anche qui
vediamo come termini, concetti, ragionamenti che siamo abituati ad associare
di default agli studi di biologia evoluzionistica permeano in
realtà anche le ricerche delle scienze umane, in questo caso della
psicologia.
Cultura e rivoluzione.
La rivoluzione cognitiva di Homo sapiens, seppur unica, rappresentò
il fenomeno che diede avvio allo sconvolgimento dei meccanismi evolutivi. Ma la
lentezza dei processi di sviluppo e l’assenza di una finalità nel loro
emergere, circoscrivono questa fase della nostra storia evolutiva ancora nel
perimetro dell’evoluzione biologica naturale.
Fu con la
nascita della cultura che, invece, cambiò tutto. Non bisogna dimenticarsi,
certo, che il termine cultura è molto ampio e può essere declinato secondo
un’infinità di accezioni. Una determinata tipologia di cultura appartiene alle
specie animali a noi più vicine, come gli scimpanzé, ma anche ad altre molto
più filogeneticamente distanti da noi, come i delfini. Cultura significa
diversità dei costumi, della cui analisi, e non solo, si occupa l’antropologia
culturale; cultura significa il profilo di conoscenze che un determinato
individuo possiede; ancora, cultura significa complesso delle istituzioni
economiche, sociali, politiche, artistiche di un determinato paese. L’elenco
non è esauribile in queste righe.
In questo caso,
però, con il termine cultura intendiamo in particolare quel fenomeno di
trasmissione dei saperi, esclusivamente umano, dinamico e diacronico, che si
realizza grazie a un processo cumulativo: l’effetto “dente d’arresto”, termine
coniato proprio da Tomasello. È il meccanismo che permette alle tradizioni
culturali di evolvere “con l’accumularsi delle modificazioni apportate nel
tempo da individui differenti, le quali diventano più complesse e riescono a
far fronte a una più ampia varietà di funzioni”. In sostanza l’essere umano,
grazie alle sue abilità neurocognitive, è in grado di apprendere nuove
informazioni, o di modificarne altre già acquisite, e trasmetterle stabilmente
al conspecifici. Scimpanzé e bonobo, i nostri cugini più stretti, possono
tramandare tanti tipi di saperi, anche articolati, ma non in forma cumulativa,
non quindi attraverso il dente d’arresto, che “congela l’idea”. Se una nuova
conoscenza emerge nel gruppo, è destinata a morire nel gruppo, nel giro di poco
tempo. Dunque le innovazioni, seppur presenti, sono circoscritte, fugaci e,
aspetto evoluzionisticamente determinante, non reggono quasi mai il susseguirsi
delle generazioni e non coinvolgono l’intera specie.
Natura e cultura, un binomio da sempre considerato irriducibile, due
mondi considerati indipendenti e non comunicanti, sono ora considerate da molti
esperti due dimensioni unite in una fortissima sinergia.
L’emergere
in Homo sapiens di una cultura dal potenziale cumulativo, mai
apparsa prima, innescò un altro, inedito meccanismo evolutivo: l’evoluzione
culturale, appunto. Luigi Luca Cavalli Sforza, genetista di
fama internazionale ma anche esperto di storia e di antropologia, descrisse
analogie e differenze, seppur superficiali, che accomunerebbero l’evoluzione
biologica a quella culturale. Entrambe possiedono un’unità minima isolabile e
replicabile: in un caso il DNA, nell’altro l’idea.
Sia il DNA che
l’idea sono soggetti a cambiamenti, il primo dei quali va sotto il nome di
mutazione, il secondo di innovazione o invenzione. Entrambi gli elementi si
trasmettono ad altri individui; nel caso del DNA per via riproduttiva, nel caso
dell’idea attraverso modalità socioculturali: l’insegnamento, ad esempio. Tra
DNA e idee ci sono anche molte differenze, ovviamente, innumerevoli e
sostanziali. Ci limitiamo a evidenziarne due: la rapidità e l’intenzionalità.
Se da un lato per l’evoluzione biologica un millennio equivale a poco più di un
battito d’ali, dall’altro l’evoluzione culturale è in grado, in pochi secoli,
di provocare conseguenze su larghissima scala. Anzi, talvolta basta
qualche decennio: pensiamo alla crisi climatica. Quest’ultima, rappresentando
una conseguenza dell’attività umana, è figlia dell’evoluzione culturale che ha
consentito lo sviluppo di innovazioni tecnologiche sempre più sofisticate e, in
questo caso, dannose per il pianeta. Inoltre, se gli effetti l’evoluzione biologica
naturale sono afinalistici, l’evoluzione culturale ha sempre qualche livello di
intenzionalità. Un esempio efficace è la trasmissione dei saperi
intergenerazionale: quando le informazioni vengono trasmesse da genitore a
figlio, non avvengono casualmente, ma attraverso uno specifico schema sociale,
culturale ed educativo, con obiettivi specifici.
Fino a qui,
tuttavia, questi due meccanismi evolutivi (biologico e culturale) sembrano
correre su binari separati; posti in parallelo, ma separati. Da un lato
lentissimi e ciechi mutamenti biologici, dall’altro scatti culturali e
innovazioni pervasive e globalizzanti. In realtà natura e cultura, un binomio
da sempre considerato irriducibile, due mondi considerati indipendenti e non
comunicanti, ora sono considerate da molti esperti due dimensioni unite in una
fortissima sinergia. Dovremmo parlare, allora, di evoluzione bioculturale.
Ibridare i programmi.
L’ibridazione dei due processi è stata recentemente tentata da Edmund Russell, ideatore di una nuova e affascinante disciplina alla
quale attribuisce il nome di “storia evoluzionistica”. Il risultato del
connubio tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale dà vita a una forza
evolutiva straordinariamente impattante, la più impattante: l’evoluzione
antropogenica. Con questo termine intendiamo i processi di cambiamento delle
specie viventi la cui causa non è da ricercare nelle forze dell’evoluzione
naturale, bensì nelle conseguenze dell’evoluzione culturale.
Quindi
l’evoluzione culturale è in grado di modificare l’evoluzione biologica. La
prima, pervasiva e rapidissima, ha introdotto l’agricoltura, l’allevamento,
l’industria, i pesticidi, gli antibiotici e l’editing genetico. Le
conseguenze di queste attività rispecchiano, a oggi, la pressione selettiva più
potente sul pianeta. Nel caso dell’editing genetico pare
lapalissiano, ma anche i traguardi più antichi dell’evoluzione culturale hanno
modificato il mondo naturale in termini netti e sorprendenti. L’estinzione
della megafauna pleistocenica, ad esempio, fu da un lato conseguenza
dell’ultima glaciazione, dall’altro un effetto della presenza dei primi esseri umani moderni. L’incremento delle
abilità di caccia, dovute a un arricchimento culturale, consentirono ai
primi sapiens arrivati in America dallo stretto di Bering
(allora ghiacciato e quindi transitabile) di sterminare completamente non solo
gli animali ormai estinti, ma anche cavalli, suini, bovini e altre specie da
allevamento che continuarono invece a prosperare oltre gli oceani e che
tornarono nel continente solo dopo l’arrivo delle caravelle nel 1492.
Proprio con la
scoperta del Nuovo Mondo (ma in misura inferiore anche in precedenza) abbiamo
iniziato a sradicare dalla nicchia ecologica originaria vegetali, animali (e,
con essi, i patogeni che veicolano) e li abbiamo importati ed esportati in
tutto il mondo. Durante l’ultimo secolo l’uso di pesticidi e antibiotici è
stato spesso sregolato. Così facendo, abbiamo consentito a virus e batteri
resistenti a tali sostanze di emergere, emigrare, prosperare e… evolversi, a
tal punto che la ricerca di antibiotici alternativi è diventata una necessità
impellente della scienza biomedica. Tutti questi sconvolgimenti causati
da Homo sapiens non sono al di fuori dei meccanismi
evoluzionistici, anzi, ne sono parte integrante e ne accelerano le dinamiche.
Abbiamo assaporato gli amari frutti dell’evoluzione antropogenica l’11 marzo
2020, quando l’OMS ha dichiarato COVID-19 “pandemia”, considerata oggi con ogni
probabilità frutto di zoonosi (il passaggio di un patogeno da una specie a
un’altra).
L’approccio evoluzionistico è in grado di insegnare molto sulle crisi
della contemporaneità, come quella relativa ai cambiamenti climatici e alla
perdita di biodiversità, sulle crisi sanitarie e addirittura sulle crisi di
valori e dei rapporti con i diversi membri della nostra specie.
Insomma,
l’approccio evoluzionistico è in grado di insegnare molto sulle crisi della
contemporaneità, come quella relativa ai cambiamenti climatici e alla perdita
di biodiversità, sulle crisi sanitarie e addirittura sulle crisi di valori e
dei rapporti con i diversi membri della nostra specie. La ricerca scientifica
ne ha preso atto ormai da decenni. Il dibattito e il lavoro interdisciplinare
animano le conferenze e caratterizzano i laboratori di scienziati umani e
naturali, come dimostra la Cultural
Evolution Society, istituita pochi anni fa con questi propositi. I
comunicatori della scienza continuano a sensibilizzare pubblici eterogenei
sull’importanza dell’interdisciplinarità nell’approccio al panorama scientifico
contemporaneo. Gli esperti di didattica informale insistono sulla trasversalità
delle conoscenze e delle competenze, promuovendo percorsi di apprendimento
aperti e co-costruiti da esperti di differente orientamento, come dimostra
l’esperienza pluridecennale di Fondazione
Golinelli, la “cittadella della conoscenza e della cultura”,
che sta sperimentando da tempo i benefici di approcci interdisciplinari
attraverso mostre e incontri.
Forse, allora, a
scuola è l’ora di una riscossa. È giunto il momento di garantire agli studenti,
ai cittadini di domani, gli strumenti necessari per sviluppare uno sguardo
critico, attento e globale alle questioni contemporanee, partendo dalla reale
comprensione di Homo sapiens e del suo singolare percorso. I
tempi sono maturi per chiedere che di evoluzionismo si parli anche dopo la fine
della lezione di scienze.
Simone Chiusoli bolognese, si occupa di
comunicazione della scienza. Ha collaborato con alcune testate di divulgazione
e informazione scientifica, come Oggi Scienza, Scienza in Rete e Gimema
Informazione. Attualmente lavora come comunicatore scientifico alla Fondazione AIRC.