Due schermitrici si fronteggiano su una pedana: una è la quarta spadista più forte del mondo, l’altra invece è la numero trentasette del ranking internazionale. A chi le osserva da fuori risulta evidente quanto ciascuna a suo modo stia cercando di stemperare l’ansia in vista dell’assalto che sta per cominciare. Sono atlete professioniste, sappiamo che entrambe hanno lavorato molto per arrivare a così pochi passi dalla medaglia d’oro, eppure, in questo preciso istante, la sola cosa che conta è la risposta a una domanda ben precisa: chi è – delle due – quella che ha più paura dell’avversaria?
Nel video della semifinale di spada femminile ai mondiali del Cairo 2022,
su un totale di ventitré minuti ben centottanta secondi sono occupati dagli
sguardi che Rossella Fiamingo e Alexandra Ndolo lanciano l’una in direzione
dell’altra, mentre aspettano che l’incontro abbia inizio. Ci sono stati
problemi tecnici al tabellone che registra il tempo e le stoccate, ma nessuna
delle due atlete si sposta da quei quattordici metri di metallo. Nessuna delle
due vuole essere la prima ad allontanarsi, in attesa che arrivi l’arbitro ad
annunciare l’inizio. Sono tre minuti di grande tensione che la telecamera
riconosce e non può fare a meno di catturare nel dettaglio. L’operatore che
quel giorno si trova dietro la macchina da presa deve sapere quanto il
linguaggio del corpo delle due atlete contenga informazioni preziose per
decifrare lo scontro che sta per essere disputato.
Gli occhi dell’italiana sullo schermo sono grandi, spalancati, ad
abbracciare tutti gli esiti possibili che di lì a poco potrebbero verificarsi;
Ndolo, invece – atleta afroeuropea che indossa i colori della Germania – ha
un’espressione divertita, quasi distratta. Di tanto in tanto muove le gambe sul
posto, accenna un veloce riscaldamento che sembra riprendere dei passi di
danza, come se intorno ci fosse una musica leggera piuttosto che il silenzio
assordante dell’attesa.
La telecamera insiste sulle due scene, le alterna, e nel farlo presenta i
profili di due avversarie che si incontrano in due momenti molto diversi delle
loro carriere. Fiamingo, due volte campionessa del mondo, vanta in curriculum
un argento olimpico individuale a Rio 2016 e un bronzo a squadre a Tokyo 2020.
Ndolo, dal canto suo, alle Olimpiadi non c’è mai arrivata. Dopo un bronzo e un
argento europei nel 2017 e nel 2019, questo match sancisce l’accesso al suo
primo podio mondiale.
La scherma può essere uno sport estenuante. Negli eventi internazionali,
nell’arco di sole quarantotto ore si passa dai gironi di qualificazione alle
eliminazioni dirette, e forse è stata proprio quell’apparente assenza di
fatica a colpirmi la prima volta che ho visto Alexandra Ndolo sulla pedana.
Quel giorno al Cairo la schermitrice tedesca era in sincronia con il tempo,
anzi, il tempo riusciva proprio a vederlo: per chi insieme a me stava seguendo
da casa la diretta sul canale YouTube del Mondiale, c’era la strana sensazione
di percepire tutte le altre atlete come al rallentatore, mentre solo lei,
Ndolo, entrava veloce nei movimenti d’attacco bloccando le avversarie con la
loro gamba anteriore ancora sospesa da terra, nell’atto di accennare un passo.
Benché efficace e precisa, trovavo qualcosa di inafferrabile nella scherma
della spadista tedesca, nel suo stile non propriamente elegante, non bello ma
esatto, in quella guardia solida che, all’improvviso, al momento decisivo si
rivelava agile… Chi era quella donna dai risultati incostanti che però sapeva
stare in piedi senza indietreggiare davanti a un’indiscussa regina della spada
come Rossella Fiamingo?
Il palmarès dei campioni e delle campionesse riporta sempre e solo una parte della storia, quella che è degna di essere registrata negli annali; l’altra parte dell’arazzo però è fatta di cuciture e sfilacciamenti, di occasioni mancate, di sconfitte e ritardi, senza i quali non potrebbe esserci il grande disegno frontale. Una delle cose che non si raccontano quasi mai, ma che in uno sport minore come la scherma risulta determinante, è il motivo per cui un’atleta ha deciso di dedicare la sua vita proprio a questa disciplina. Una sala d’armi vicino casa, un professore appassionato che mette su un piccolo doposcuola con fioretti e maschere di plastica, un genitore o un familiare che in gioventù si era distinto in pedana sono solo alcuni dei motivi ricorrenti che possono accendere il desiderio di cominciare a combattere. Poi ci sono altre ragioni, forse perfino più importanti, e sono quelle che – nonostante tutti i lividi e le stoccate prese – col passare del tempo sulla pedana ti convincono a restare. Certe volte la motivazione ha a che fare con l’aver assistito alla vittoria di un campione o di una campionessa che ci ha toccati nel profondo, e in parte è proprio questo aspetto che si colloca al cuore della storia di Alexandra Ndolo. Raccontarla significa anche ragionare sull’impatto decisivo dei modelli femminili nel mondo dello sport e sulla loro visibilità.
Nel saggio Anonymous is a Woman la storica iraniana Nina Ansary ha discusso
il rapporto tra role model ed emancipazione delle donne
partendo dall’assunto che è difficile «essere ciò che non puoi vedere»; per
«essere», e quindi incarnare un futuro, è necessario prima di tutto immaginare
una strada e pensarla possibile, un processo che si realizza soprattutto grazie
a esempi di esperienze precedenti. In un mondo come quello dello sport, in cui
il racconto delle discipline maschili occupa uno spazio di gran lunga maggiore
rispetto a quello delle discipline femminili, per una donna immaginare di
trasformare la propria passione sportiva in una carriera non è un passo
immediato. Se poi l’atleta in questione appartiene a una minoranza, la
situazione è ancora più complessa. Quanto la questione dei modelli di
riferimento fosse centrale nel percorso di Alexandra Ndolo l’ho capito solo nel
cor- so di quella semifinale mondiale seguita a distanza, nel 2022, catturata
da un gesto che mi è sembrato familiare. Ancora oggi, tornando alle riprese di
quell’assalto, nei primi secondi dell’ultimo round possiamo vedere Ndolo – in
leggero vantaggio – che colpisce l’italiana con un balzo in avanti, eseguito in
contrattacco su un tempo perfetto. Lo fa accovacciandosi sulle gambe,
sottraendo il proprio corpo alla punta dell’altra. Per una schermitrice si
tratta di un movimento coraggioso: non si può contare sull’equilibrio totale,
e se la stoccata non va a segno si rischia di esporre troppo la spalla del
braccio armato. Mentre guardavo il match in tempo reale, mi sono chiesta il
perché di un’azione tanto avventata in un momento così delicato, allora sono
tornata a rivedere il video più volte, fino a quando alla silhouette di Ndolo
che colpisce Fiamingo si è sovrapposto il ricordo di un altro assalto, ben
più famoso, ormai lontano decenni. Quel gesto – quel balzo in contrattacco –
è un amuleto che aiuta l’atleta a sentirsi invincibile, e rinnova di volta in
volta una rivelazione importante collocata proprio all’inizio della sua storia.
Nei mesi successivi al Mondiale egiziano ho cercato Alexandra perché me la
raccontasse di persona.
Bayreuth è una città di provincia non troppo lontana da Monaco di Baviera. È un luogo sonnolento e immobile, nel quale ogni abitante si assomiglia: sono tutti bianchi, di una certa borghesia benestante, perlopiù conservatori. È in questo contesto che negli anni No- vanta Alexandra Ndolo inizia a muovere i primi passi sulla pedana. Vent’anni dopo, quella bambina dai capelli riccissimi con gli occhi scuri sarebbe diventata la prima donna nera della nazionale femminile di spada e – tra il 2017 e il 2022 – anche la spadista tedesca più forte in campo internazionale. Classe ‘86, attivista del movimento Black Lives Matter e femminista, nel 2022 quest’atleta ha scritto una pagina di storia sportiva portando in una Coppa del Mondo di scherma i colori del Kenya. Con un piccolo dettaglio: per farlo ha dovuto fondare dal nulla una federazione che la sostenesse.
Se certe carriere sportive possono essere lette come parabole, questo è
vero in modo particolare per la storia di Alexandra Ndolo, una donna che
attraverso lo sport è stata chiamata a fare i conti con le proprie radici
culturali. Nella sua biografia il sangue kenyano del padre si intreccia a
quello polacco della madre, e perfino il suo stile schermistico, a osservarla
con attenzione, riflette in pieno l’esperienza di chi ha fatto degli innesti
culturali un punto di forza, una forma tutta personale di libertà. Il fisico
imponente e longilineo assorbe la solidità di una posizione di guardia di
stampo ungherese – a schiena dritta, non protesa verso l’avversario –, la
precisione dei passi – misurati e ingannevoli – prende spunto dalla scherma
italiana, mentre la predilezione per i colpi d’arresto arriva dalla scherma
francese.
Negli anni Ndolo si è lasciata ispirare dalle avversarie che ha incontrato lungo il suo percorso, dai maestri che ha incrociato, dalla scherma che le è girata intorno negli eventi internazionali. La spada per lei è sempre stata questo: l’arma dell’estrema libertà, quella che permette di andare a segno senza l’impaccio della convenzione. Se nel fioretto o nella sciabola sono privilegiati i colpi d’attacco o quelli che seguono una parata, non è così nell’unica disciplina che invece si qualifica come arma totale. Nella spada c’è il colpo doppio, perché nei duelli, toccandosi con la lama nello stesso istante, ci si sarebbe feriti a vicenda. E allora la strategia diventa più complessa, più drammatica ma anche più creativa.
«Mi stai dicendo che posso fare tutto quello che voglio con una spada in mano a patto che non esca dalla pedana?» aveva chiesto Ndolo, da bambina. Qualcuno le ha detto di sì e a lei deve essere sembrato un sogno.
Olga Campofreda ha un PhD in Italian studies. Insegna scherma nell'Under 20 del GB team.