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Quanto ci assomigli, Paperino: 90 anni ma non li dimostri...

di Francesco Piccolo
tratto da “Robinson” de “La Repubblica”del 23.5.24


Da subito, questo pennuto vestito da marinaio è diventato un idolo alla pari di Topolino, ma nei nostri cuori senz’altro di più.

Paperino nasce come presidente del circolo dei pigri, in un cortometraggio del 1934. Nessuno pensava dovesse avere rilevanza, il padrone del mondo Disney era Topolino (uso i nomi italiani non perché sia tornato il fascismo, ma soltanto perché è con questi nomi che siamo cresciuti): Topolino era intelligente, rapido nelle conclusioni, capace di risolvere parecchi problemi suoi e di altri. Ci trascinava dietro, lo rincorrevamo, e comunque ci veniva l’affanno a seguire tutte le sue peripezie e le sue conseguenti soluzioni. Ma Topolino non poteva e non può permettersi difetti, casomai qualche inciampo, ma certo non essere rabbioso, invidioso, meschino.


E invece fin da subito, questo papero vestito da marinaio, che prediligerà l’amaca per novant’anni, diventerà un idolo alla pari dell’altro, e nei nostri cuori senz’altro di più. È un paradigma letterario: l’arguzia e l’onestà morale di Topolino ci servono; la sfortuna e l’irascibilità di Paperino, ci piacciono. Topolino è meglio di noi, Paperino è peggio di noi — almeno, è quello che speriamo da sempre. Topolino può arrivare a fare antipatia, Paperino mai (è impossibile).

E non solo lui, ma nessuno dei personaggi del suo mondo può fare antipatia, nemmeno lo zio miliardario e avaro; nemmeno il cugino Gastone, sfacciatamente fortunato, che vince ogni round con Paperino, e fa sbattere gli occhi a Paperina, nemmeno lui con quell’aria tronfia del vincente può darci fastidio: perché sono tutte funzioni di relazione; servono alla narrazione, e servono a noi lettori o spettatori, per precisare e amare le caratteristiche del nostro.

Gastone serve a misurare Paperino, ma nessuno di noi vorrebbe essere Gastone; ed è incredibile, ma dà l’idea precisa della potenza che sprigiona un personaggio così discutibile, sfortunato, pigro, che si sottrae ai compiti, indeciso, un po’ vigliacco (alcune di queste caratteristiche sono riscattate dalla versione coraggiosa e salvamondo che si chiama Paperinik), che urla imbestialito sbattendo il cappello a terra, con una voce fastidiosa. Uno che capisce le cose troppo tardi (molto dopo di noi), così come Topolino le capisce troppo presto (molto prima di noi). Uno che spera di diventare Gastone, ed è in questo molto diverso da noi, che preferiamo essere Paperino; il suo desiderio di diventare Gastone però ci piace, perché ci rassicura il fatto che non ne abbia nessuna speranza.


Eccola l’identificazione perfetta: non ne avremmo speranza nemmeno noi; così come abbiamo più possibilità che, andando avanti, la nostra reazione mentale rallenti piuttosto che acceleri. Insomma, noi non abbiamo nessuna prospettiva di diventare Topolino. Figuriamoci Paperon de’ Paperoni, seduto in cima alla montagna di monete. Noi possiamo solo sperare di sopravvivere, non soccombere, non perdere definitivamente, non soffrire troppo; noi possiamo solo sperare di uscire dagli ospedali dopo le fratture, possiamo conservare, come Paperino, le speranze intatte ogni volta, a ogni episodio, a ogni striscia, a ogni cortometraggio; possiamo continuare a perdere ininterrottamente e in fondo fregarcene; possiamo constatare che le nostre sfuriate non hanno nessun risultato positivo; e possiamo in fondo starcene sulle nostre amache metaforiche o reali a non pensare a niente e a lasciare che il mondo vada avanti senza di noi.

Non che Paperino non riesca anche a essere coraggioso, e quindi a svolgere compiti che nei fumetti hanno anche una valenza pedagogica per i piccoli lettori. Ma la sua vicinanza a noi e la sua modernità arrivano dallo sforzo che deve compiere, che è lo sforzo dei pigri e degli inetti quando è arrivato il momento di dover agire. È esattamente questo il momento della identificazione totale che sentiamo. Il rumore arrugginito delle ossa quando bisogna mettersi in piedi. Si può essere migliori, ma c’è uno sforzo da fare; e quando lo si è fatto, si torna al punto di partenza, non è che si è migliorati definitivamente. Si prova, si prova, si prova. E lo sforzo e la soddisfazione sono tutti e due presenti.

E c’è di più. Paperino ha una caratteristica che ci piace molto, ed è forse l’unico momento in cui ci sta davanti, l’unico momento in cui è davvero un po’ più di noi: quando, alla fine delle sue storie, trae insegnamento da quello che gli è successo. Ecco, se c’è un momento che non si è più cancellato dalla memoria, delle mie letture di Topolino da bambino (oltre a quello in cui entrava mio padre in casa con in mano il nuovo numero appena acquistato in edicola) è quel finale riflessivo nelle storie di Paperino, quando gli era capitato di tutto, e lui ci ragionava e diceva che questo gli sarebbe servito a non fare più — oppure a non essere più — oppure a essere da quel momento in poi… Come capita nelle storie seriali, i miglioramenti poi non sono effettivi, perché se lo fossero non si potrebbe ricominciare la storia successiva con le stesse caratteristiche necessarie.

Quindi in realtà Paperino diceva di aver imparato, ci faceva sentire più piccoli di lui, ma poi non era vero, ed ecco che miracolosamente tornava a essere proprio come noi. Perché noi ci diciamo che le storie seriali ripartono sempre dallo stesso punto per esigenze narrative; ma in realtà ripartono dallo stesso punto perché sono reali e moderne, raccontano l’eroe moderno, e non quello settecentesco o ottocentesco che imparava. E l’eroe moderno è un antieroe; e lo è perché attraversa la storia e alla fine dei conti non ha imparato niente.

Ecco: Paperino ci assomiglia nel trarre la morale, nel constatare l’insegnamento, nel proporsi di essere migliore. Eppure, come noi, ricomincia da capo con gli stessi errori. Anche noi non vogliamo più, per esempio, fare il viso rosso e urlare sgrunt!, sbattere il berretto da marinaio a terra e saltargli sopra per la rabbia; ma poi lo rifacciamo, ancora, per tutta la vita. E non ripetiamo solo gli stessi errori, ma anche il ragionamento su quello che ci ha insegnato la storia appena vissuta. È la circolarità della condizione esistenziale.

Dobbiamo concludere che ci è sempre piaciuto e ci piace Paperino perché ha l’aria di non poterci insegnare nulla. Ci piace perché riteniamo che la sfortuna che potrebbe capitare a noi se la prende tutta lui. Ci piace perché ci serve una vittima da proporre al posto nostro. Non lo sappiamo, ma noi ci identifichiamo in lui credendo invece di essere migliori di lui, o almeno più fortunati. E questo è confortante.

Ma Paperino, in tutti questi anni, senza accorgersene nemmeno lui, con quella sopravvivenza stentata, senza soldi e senza lavoro, senza mai un vero riscatto e ricevendo quasi sempre commiserazione e pacche sulle spalle, beh, lui in tutti questi anni ha resistito, non è stato schiacciato né dagli zii ricchi né dai cugini fortunati, né dai prepotenti né dai delinquenti; ha perso ogni singola partita ma non ha mai perso il campionato; è lì, più resistente e forte di chiunque.

Non so se c’entra con la sua caratteristica più solida e alla fine più significativa: essere buono; è una persona buona, su questo nessuno potrebbe avere mai da dire. E non so se sia questa bontà a farlo resistere così tanto e così bene. Ma so che è una peculiarità che, al fondo, forse nessuno di noi ha così limpida e a fuoco. Una persona buona, qualsiasi sia la sua condizione: niente male per il presidente del circolo dei pigri.