tratto da “Robinson” de “La Repubblica”del 23.5.24
Da subito, questo pennuto vestito da marinaio è diventato un idolo alla pari di Topolino, ma nei nostri cuori senz’altro di più.
Paperino nasce
come presidente del circolo dei pigri, in un cortometraggio del 1934. Nessuno
pensava dovesse avere rilevanza, il padrone del mondo
Disney era Topolino (uso i nomi italiani non perché sia tornato
il fascismo, ma soltanto perché è con questi nomi che siamo
cresciuti): Topolino era intelligente, rapido nelle conclusioni,
capace di risolvere parecchi problemi suoi e di altri. Ci trascinava dietro, lo
rincorrevamo, e comunque ci veniva l’affanno a seguire tutte le sue peripezie e
le sue conseguenti soluzioni. Ma Topolino non poteva e non può
permettersi difetti, casomai qualche inciampo, ma certo non essere rabbioso,
invidioso, meschino.
E invece fin da
subito, questo papero vestito da marinaio, che prediligerà l’amaca
per novant’anni, diventerà un idolo alla pari dell’altro, e nei nostri cuori
senz’altro di più. È un paradigma letterario: l’arguzia e l’onestà morale
di Topolino ci servono; la sfortuna e l’irascibilità
di Paperino, ci piacciono. Topolino è meglio di noi, Paperino è
peggio di noi — almeno, è quello che speriamo da sempre. Topolino può
arrivare a fare antipatia, Paperino mai (è impossibile).
E non solo lui,
ma nessuno dei personaggi del suo mondo può fare antipatia, nemmeno lo zio
miliardario e avaro; nemmeno il cugino Gastone, sfacciatamente fortunato,
che vince ogni round con Paperino, e fa sbattere gli occhi a Paperina,
nemmeno lui con quell’aria tronfia del vincente può darci fastidio: perché sono
tutte funzioni di relazione; servono alla narrazione, e servono a noi lettori o
spettatori, per precisare e amare le caratteristiche del nostro.
Gastone serve a misurare Paperino, ma nessuno di noi vorrebbe essere Gastone; ed è incredibile, ma dà l’idea precisa della potenza che sprigiona un personaggio così discutibile, sfortunato, pigro, che si sottrae ai compiti, indeciso, un po’ vigliacco (alcune di queste caratteristiche sono riscattate dalla versione coraggiosa e salvamondo che si chiama Paperinik), che urla imbestialito sbattendo il cappello a terra, con una voce fastidiosa. Uno che capisce le cose troppo tardi (molto dopo di noi), così come Topolino le capisce troppo presto (molto prima di noi). Uno che spera di diventare Gastone, ed è in questo molto diverso da noi, che preferiamo essere Paperino; il suo desiderio di diventare Gastone però ci piace, perché ci rassicura il fatto che non ne abbia nessuna speranza.
Eccola
l’identificazione perfetta: non ne avremmo speranza nemmeno noi; così come
abbiamo più possibilità che, andando avanti, la nostra reazione mentale
rallenti piuttosto che acceleri. Insomma, noi non abbiamo nessuna prospettiva
di diventare Topolino. Figuriamoci Paperon de’ Paperoni, seduto in
cima alla montagna di monete. Noi possiamo solo sperare di sopravvivere, non
soccombere, non perdere definitivamente, non soffrire troppo; noi possiamo solo
sperare di uscire dagli ospedali dopo le fratture, possiamo conservare,
come Paperino, le speranze intatte ogni volta, a ogni episodio, a ogni
striscia, a ogni cortometraggio; possiamo continuare a perdere
ininterrottamente e in fondo fregarcene; possiamo constatare che le nostre
sfuriate non hanno nessun risultato positivo; e possiamo in fondo starcene
sulle nostre amache metaforiche o reali a non pensare a niente e a lasciare che
il mondo vada avanti senza di noi.
Non
che Paperino non riesca anche a essere coraggioso, e quindi a
svolgere compiti che nei fumetti hanno anche una valenza pedagogica per i
piccoli lettori. Ma la sua vicinanza a noi e la sua modernità arrivano dallo
sforzo che deve compiere, che è lo sforzo dei pigri e degli inetti quando è
arrivato il momento di dover agire. È esattamente questo il momento della
identificazione totale che sentiamo. Il rumore arrugginito delle ossa quando
bisogna mettersi in piedi. Si può essere migliori, ma c’è uno sforzo da fare; e
quando lo si è fatto, si torna al punto di partenza, non è che si è migliorati
definitivamente. Si prova, si prova, si prova. E lo sforzo e la soddisfazione
sono tutti e due presenti.
E c’è di
più. Paperino ha una caratteristica che ci piace molto, ed è forse
l’unico momento in cui ci sta davanti, l’unico momento in cui è davvero un po’
più di noi: quando, alla fine delle sue storie, trae insegnamento da
quello che gli è successo. Ecco, se c’è un momento che non si è più cancellato dalla
memoria, delle mie letture di Topolino da bambino (oltre a quello in cui
entrava mio padre in casa con in mano il nuovo numero appena acquistato in
edicola) è quel finale riflessivo nelle storie di Paperino, quando gli era
capitato di tutto, e lui ci ragionava e diceva che questo gli sarebbe servito a
non fare più — oppure a non essere più — oppure a essere da quel momento in
poi… Come capita nelle storie seriali, i miglioramenti poi non sono effettivi,
perché se lo fossero non si potrebbe ricominciare la storia successiva con le
stesse caratteristiche necessarie.
Quindi in
realtà Paperino diceva di aver imparato, ci faceva sentire più
piccoli di lui, ma poi non era vero, ed ecco che miracolosamente tornava a
essere proprio come noi. Perché noi ci diciamo che le storie seriali ripartono
sempre dallo stesso punto per esigenze narrative; ma in realtà ripartono dallo
stesso punto perché sono reali e moderne, raccontano l’eroe moderno, e non
quello settecentesco o ottocentesco che imparava. E l’eroe moderno è un
antieroe; e lo è perché attraversa la storia e alla fine dei conti non ha
imparato niente.
Ecco: Paperino
ci assomiglia nel trarre la morale, nel constatare l’insegnamento, nel
proporsi di essere migliore. Eppure, come noi, ricomincia da capo con gli
stessi errori. Anche noi non vogliamo più, per esempio, fare il viso rosso e
urlare sgrunt!, sbattere il berretto da marinaio a terra e
saltargli sopra per la rabbia; ma poi lo rifacciamo, ancora, per tutta la vita.
E non ripetiamo solo gli stessi errori, ma anche il ragionamento su quello che
ci ha insegnato la storia appena vissuta. È la circolarità della condizione
esistenziale.
Dobbiamo
concludere che ci è sempre piaciuto e ci piace Paperino perché ha
l’aria di non poterci insegnare nulla. Ci piace perché riteniamo che la
sfortuna che potrebbe capitare a noi se la prende tutta lui. Ci piace perché ci
serve una vittima da proporre al posto nostro. Non lo sappiamo, ma noi ci
identifichiamo in lui credendo invece di essere migliori di lui, o almeno più fortunati.
E questo è confortante.
Ma Paperino, in
tutti questi anni, senza accorgersene nemmeno lui, con quella sopravvivenza
stentata, senza soldi e senza lavoro, senza mai un vero riscatto e ricevendo
quasi sempre commiserazione e pacche sulle spalle, beh, lui in tutti questi
anni ha resistito, non è stato schiacciato né dagli zii ricchi né dai cugini
fortunati, né dai prepotenti né dai delinquenti; ha perso ogni singola partita
ma non ha mai perso il campionato; è lì, più resistente e forte di chiunque.
Non so se c’entra con la sua caratteristica più solida e alla fine più significativa: essere buono; è una persona buona, su questo nessuno potrebbe avere mai da dire. E non so se sia questa bontà a farlo resistere così tanto e così bene. Ma so che è una peculiarità che, al fondo, forse nessuno di noi ha così limpida e a fuoco. Una persona buona, qualsiasi sia la sua condizione: niente male per il presidente del circolo dei pigri.