“La Nascita della Clinica” di Michel Foucault parla di Spazio, di
Linguaggio e di Morte.
Nella premessa, Foucault scrive, tra l’altro:”in questo libro si parla dello spazio, del linguaggio e della morte, si parla dello sguardo”.
Il filosofo e storico della scienza francese (1926 – 1984), uno dei
maggiori pensatori del XX secolo, in “Nascita della Clinica” si sofferma sullo
spazio che i nuovi ospedali hanno occupato, dopo la Rivoluzione Francese.
Il linguaggio, a cui fa riferimento, è quello derivante dalla nuova visibilità del male che appare allo “sguardo medico”, grazie all’intervenuta riorganizzazione istituzionale ed all’avanzamento delle tecnologie.
Lo sguardo medico inoltre è quello che, con l’anatomia patologica di Bichat, si accinge a varcare i limiti del visibile di superficie, per trovare la verità delle malattie nella profondità invisibile dei tessuti. Era, per questo, necessario un radicale rimaneggiamento nel pensiero e nella percezione medica della morte.
Questi alcuni dei tratti, secondo Foucault, alla base della “Nascita della clinica”, nel secolo dei lumi, nel 1700, epoca in cui l’illuminismo, in tanti campi del sapere umano, valse ad imporre l’uso critico della ragione, sul pregiudizio e sull’accettazione acritica della realtà, in particolare scientifica, politica e religiosa.
Nel capitolo ottavo del libro “Aprite qualche cadavere” Foucault chiarisce in maniera puntuale quale ruolo abbia avuto la pratica diffusione delle autopsie, per il progresso della medicina. Quanto lo studio dell’anatomia patologica ha contribuito a questo progresso. Scrive Foucault: “La medicina ha potuto avere accesso, a quello che la fondava scientificamente, solo aggirando, con lentezza e prudenza, l’ostacolo maggiore, quello che la religione, la morale e ottusi pregiudizi opponevano all’apertura dei cadaveri”…,“Con Bichat lo sguardo medico ruota su se stesso ed alla morte chiede conto della malattia e della vita”.
Bichat (1771 – 1802) medico francese è considerato, pur nella sua breve
esistenza, uno degli scopritori del ruolo fondamentale, per la medicina,
dell’anatomia patologica e dell’istologia moderna. Scrive Bichat nel suo
“Anatomie Générale”: “quand’anche
prendeste appunti per venti anni, dalla mattina alla sera, al capezzale dei
malati, sulle affezioni del cuore, dei polmoni, del viscere gastrico, tutto non
sarà per voi che confusione nei sintomi che, non collegandosi a nulla, vi
offriranno un seguito di fenomeni incoerenti. Aprite qualche cadavere, vedrete
tosto scomparire, l’oscurità che la sola osservazione non aveva potuto
dissipare”.
Bichat scriveva i suoi testi alla fine del 1700. Un’epoca molto lontana.
Attualmente con gli strumenti tecnologici ed informatici a disposizione sembra
ormai desueta la pratica di fare autopsie, di “aprire qualche cadavere”. Eppure
c’è chi pensa che queste pratiche non vadano abbandonate e che, anzi, vadano
riattualizzate. Le autopsie possono essere tuttora un’utile forma di avanzamento
della ricerca e del progresso scientifico, come riportato nell’articolo che
segue, un’interessante intervista alla patologa Cristina Cattaneo, pubblicata
sul “Corriere della sera”.
Nella premessa, Foucault scrive, tra l’altro:”in questo libro si parla dello spazio, del linguaggio e della morte, si parla dello sguardo”.
Il linguaggio, a cui fa riferimento, è quello derivante dalla nuova visibilità del male che appare allo “sguardo medico”, grazie all’intervenuta riorganizzazione istituzionale ed all’avanzamento delle tecnologie.
Lo sguardo medico inoltre è quello che, con l’anatomia patologica di Bichat, si accinge a varcare i limiti del visibile di superficie, per trovare la verità delle malattie nella profondità invisibile dei tessuti. Era, per questo, necessario un radicale rimaneggiamento nel pensiero e nella percezione medica della morte.
Questi alcuni dei tratti, secondo Foucault, alla base della “Nascita della clinica”, nel secolo dei lumi, nel 1700, epoca in cui l’illuminismo, in tanti campi del sapere umano, valse ad imporre l’uso critico della ragione, sul pregiudizio e sull’accettazione acritica della realtà, in particolare scientifica, politica e religiosa.
Nel capitolo ottavo del libro “Aprite qualche cadavere” Foucault chiarisce in maniera puntuale quale ruolo abbia avuto la pratica diffusione delle autopsie, per il progresso della medicina. Quanto lo studio dell’anatomia patologica ha contribuito a questo progresso. Scrive Foucault: “La medicina ha potuto avere accesso, a quello che la fondava scientificamente, solo aggirando, con lentezza e prudenza, l’ostacolo maggiore, quello che la religione, la morale e ottusi pregiudizi opponevano all’apertura dei cadaveri”…,“Con Bichat lo sguardo medico ruota su se stesso ed alla morte chiede conto della malattia e della vita”.
(RL)
Cristina Cattaneo: «I cadaveri
sono un alfabeto, i nostri corpi non vanno distrutti. Il mio rapporto con la
morte? Mio padre è scomparso da anni, ancora non lo accetto»
Patologa forense, ma con studi di archeologia e antropologia alle spalle, ha indagato su molti dei casi più famosi d’Italia, dall’omicidio di Yara Gambirasio a quello di Elisa Claps: «Con il tempo ho capito che ricostruire la storia e dare un’identità ai morti è essenziale per i vivi».
Cristina
Cattaneo fa parlare i morti.
No,
non è una medium. È
una patologa forense, un medico legale insomma. Ma con studi
umanistici alle spalle, di archeologia e antropologia, che affiancano al
raziocinio della scienziata una sensibilità speciale.
È una numero 1.
Ha eseguito autopsie sulle vittime di alcuni dei più celebri delitti degli ultimi tempi, da Yara Gambirasio a Stefano Cucchi, ha esaminato i resti di Elisa Claps, ha identificato i corpi martoriati della strage di Linate nel 2001 e quelli senza nome dei grandi naufragi di migranti a Lampedusa. Tanto per dare l’idea: nel ramo è nota come «Bones», dal titolo della celebre serie tv americana ispirata al lavoro di una sua collega d’oltre oceano.
Cristina
fa parlare i morti nel senso che si fa
dire dai loro corpi più o meno integri, più o meno decomposti, talvolta dalle
sole ossa, come sono morti e quando,
o anche solo chi erano, informazioni indispensabili per scoprire chi o che cosa li abbia uccisi. «Si può morire per mano di altri o di sé stessi, per
cause accidentali o naturali. Ma
il mio mondo è la violenza: di solito mi occupo delle prime due categorie». Sono le procure a chiedere al Labanof,
il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università di Milano,
di dare un’identità a un corpo, o di conoscere l’ora del decesso, la causa e il
modo. «E noi, non dico io perché questo è davvero un lavoro di équipe che
richiede un pool di esperti di varie discipline, ci proviamo».
Che cosa succede a un essere umano dopo la morte?
«Si innescano tre processi concomitanti: il rigor mortis, il corpo si irrigidisce; il livor mortis, il corpo assume una colorazione rosa nelle parti dove la forza di gravità fa depositare il sangue; l’algor mortis, il corpo si raffredda. Noi partiamo dall’esame dello stato di avanzamento di questi tre fenomeni per ricostruire all’indietro quando si è verificato il decesso».
Cioè, la fatidica ora del delitto…
«Più che l’ora, meglio sarebbe dire l’epoca. Questa è la spina nel fianco del nostro mestiere. È estremamente difficile accertarla. Quando la morte è intervenuta da poco, ci si può riuscire con un’approssimazione di appena qualche ora. Ma poi comincia il processo di decomposizione…».
Cioè?
«Il corpo letteralmente si disfa. O inizia a colliquare, imputridisce, viene assalito dalle larve di insetti, le carni si decompongono. Oppure si mummifica. E quest’ultimo è un fenomeno che può accadere nel deserto del Sahara, a causa di un clima molto secco, ma anche in una cantina di Milano per la ragione opposta, un eccesso di umidità. Nel primo caso è una specie di liofilizzazione, una volta l’ho osservato sul cadavere di un’anziana che era rimasto per otto anni in una casa: il materasso su cui giaceva aveva assorbito tutti i liquidi. Nel secondo caso si parla invece di corificazione, all’interno il corpo si altera ma la pelle resta relativamente intatta e resistente, come se fosse cuoio».
Quanto tempo ci vuole perché un cadavere si decomponga?
«Da dieci giorni all’aperto in estate a dieci mesi se è sepolto sotto terra».
E perché ne rimangano solo ossa?
«Da tre settimane a vent’anni. Come vede la nostra non è una scienza esatta, la natura tende a ingannarci».
Domando a Cristina Cattaneo che cosa può comunicare un cadavere.
«Se si è trattato di una morte violenta, il corpo offre una specie di alfabeto del crimine. Noi cerchiamo qualsiasi indizio. I lividi per esempio. Su ciascuno di essi ci può essere il Dna dell’eventuale assassino, o il minuscolo residuo di metallo o di legno appartenuto all’arma del delitto. Oppure cerchiamo una frattura, talvolta anche soltanto la scheggiatura di un osso. Se la morte è avvenuta da tempo, avremo bisogno della consulenza di un entomologo, che dalle larve di insetti presenti può ricavare molte informazioni, o di un botanico, per capire se le foglie o le piante sul cadavere ci dicano qualcosa. Nel nostro laboratorio lavora poi un virtuoso della ricostruzione cranio-facciale, che a volte riesce a ricomporre un volto da un teschio. È una specie di collage criminalistico. In questo istituto facciamo un migliaio di autopsie all’anno, e non solo su richiesta dell’autorità giudiziaria. Anche quando il pm non ha particolari motivi per indagare, può essere infatti l’autorità sanitaria a chiederci di accertare il perché della morte di persone che non hanno chiesto o ricevuto un’assistenza clinica: la legge dice che prima di dare sepoltura bisogna individuare la causa del decesso».
La dottoressa Cattaneo ha raccontato molti dei casi che più l’hanno impegnata in un libro, Corpi, scheletri e delitti. Le storie del Labanof. Con una forte partecipazione emotiva, impregnata di pietas.
«I morti raccontano sé stessi. E non solo il loro ultimo istante. Anche la vita precedente. I colori di un pennarello sulla mano di un bambino, per esempio. Le carie di un tossicodipendente. La fragilità ossea di una ragazza anoressica». Mi ha molto colpito questo dettaglio: sui corpi dei più piccoli è difficile trovare i segni della lotta con l’aggressore, perché non sanno difendersi, vengono colti di sorpresa.
Ma prima ancora di capire che cosa abbia messo fine alla vita di una persona, spesso bisogna accertarne l’identità. Cosa tutt’altro che facile. Ci sono ancora 101 schede di cadaveri di “sconosciuti” nei sotterranei del Labanof. Dai tempi di Priamo, il re di Troia che implora ai greci la restituzione delle spoglie del figlio Ettore, sappiamo che per la nostra civiltà, e non solo per la nostra, il lutto non può neanche iniziare, e certamente non può essere elaborato, senza un corpo su cui piangere. “The Right to Truth”, il diritto alla verità per i familiari, è ormai considerato nella legislazione internazionale un diritto umano alla pari degli altri. «Quando ho cominciato questo lavoro, trent’anni fa, e vedevo una lapide con su scritto “sconosciuto”, pensavo che fosse ingiusto per la comunità perdere il valore di quella esistenza, perché anche le vite finite o spezzate fanno parte di un patrimonio comune. Ma poi col tempo ho capito che dare un’identità ai morti è in realtà essenziale per i vivi. Una mole di studi clinici ci dice ormai che la “ambiguous loss”, la mancata verità sulla perdita di un proprio caro, è causa di stress, di depressione, di patologie anche gravi. Dietro il diritto all’identità dei morti c’è dunque anche un diritto alla salute mentale e fisica di chi resta. Va poi aggiunto che il certificato di morte è indispensabile per garantire altri diritti. Per esempio di successione. E se questo ci appare chiaro per i “nostri” morti, per i morti con la pelle bianca, i morti del mondo ricco, ancor di più è vitale per le famiglie africane dei migranti che muoiono a migliaia nel Mediterraneo. Finché quei corpi non saranno riconosciuti “oltre ogni ragionevole dubbio”, un orfano in un campo profughi non potrà essere adottato, o una vedova e i suoi figli non potranno ricongiungersi alla famiglia che l’attende in Europa».
Il Labanof è stato un antesignano nella battaglia per creare una banca dati europea che consenta di raccogliere i dati post mortem degli ormai almeno trentamila naufraghi morti nel Mediterraneo dal 2001, e confrontarli con le informazioni ante mortem che possono darne familiari e conoscenti: tipo, aveva un neo sulla spalla, e il neo effettivamente è sul corpo, oppure da bambino si era rotto la clavicola, e la frattura risulta proprio lì. Purtroppo, oltre la metà dei cadaveri dei migranti ripescati in mare è rimasta senza nome. Fino alla tragedia del 2013, il naufragio davanti all’Isola dei Conigli a Lampedusa che fece 366 vittime di provenienza eritrea, la procedura che si applica regolarmente per tutti i disastri “occidentali” (incidenti, terremoti, aerei caduti, stragi terroristiche) e cioè il lavoro di identificazione delle vittime, non era nemmeno contemplata per i migranti. Le procure fanno il loro lavoro, ciascuna per i suoi casi, richiedono gli esami autoptici, ma poi i dati raccolti restano nei singoli fascicoli. Ed è molto improbabile che i familiari di migranti clandestini si presentino esibendo radiografie, cartelle cliniche, informazioni odontoiatriche o oggetti con il Dna dello scomparso che ne consentano il riconoscimento. Cristina racconta con passione in un altro libro (Naufraghi senza volto) questo tragico “buco nero” dell’Europa, su cui il Labanof, con l’Ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse, cominciò a lavorare proprio in occasione di quel naufragio, e si batte perché venga finalmente creato questo data-base: una proposta fondata sulle raccomandazioni del laboratorio sarà presto discussa a Strasburgo. «Tecnicamente si può fare. Interpol ha già offerto il suo software, manca solo una decisione politica. Eppure, ci sono ancora migliaia di esseri umani rimasti senza una identità. Noi abbiamo la gran parte dei morti, e il Nord Europa ha la gran parte dei parenti che li aspettava. Possibile che l’Europa non riesca a essere una sola neanche su questo?».
Con tutta la sua esperienza diretta, che idea si è fatta della morte?
«Attenzione, io mi occupo di morti, non della morte. Anzi, direi che vedere tutti questi morti non ha migliorato per niente il mio rapporto con la morte. Mio padre è scomparso ormai da dieci anni, e io non riesco ancora a superarlo». Si dichiara credente, aderisce agli insegnamenti di Santa Madre Chiesa, ma come molti cristiani dice di non riuscire a concepire la resurrezione dei corpi.
Almeno nell’immortalità dell’anima, ci crede?
«Dipende da che cosa intendiamo con “anima”. Se quel concetto comprende anche il ricordo di una persona, la memoria che ne conservano i suoi cari, ciò che lascia di non fisico dietro di sé, allora sì, credo che l’anima sia immortale».
E sul dilemma cremazione-inumazione?
«Devo ammettere che mi piacciono molto gli scheletri, anche se il processo fisico attraverso cui un corpo si trasforma in un mucchietto di ossa è così terribilmente caotico. Ma non mi fraintenda. Voglio dire che i resti umani servono non solo alla giustizia per comprendere quando e come è stato commesso un crimine, ma anche alla società per la comprensione di sé stessa. Sono una formidabile fonte materiale di storia sociale. Noi ospitiamo qui anche un museo delle scienze antropologiche, mediche e forensi, che raccoglie i resti ritrovati a Milano nel corso di scavi archeologici: abbiamo un’ampia collezione che va dai più recenti scheletri di partigiani uccisi, all’indietro fino ai tempi dei romani (si chiama MUSA, e consiglio vivamente di visitarlo, ndr.). Dall’analisi di quei resti si scoprono tante cose. Per esempio; che in epoca romana le grandi discriminate erano le donne, vivevano in media trent’anni in meno degli uomini, mentre nel Medioevo questo gap si riduce di molto. Nei resti del cervello di una persona morta nel Seicento, conservati dall’umidità della cripta dell’ospedale Ca’ Granda, voluto da Francesco Sforza, sono state trovate tracce inequivocabili dell’uso di cocaina (e in altri di cannabis e oppio). È stato così possibile anticipare di circa due secoli l’arrivo in Europa dall’America di queste foglie stupefacenti. L’analisi genetica dei resti di cadaveri antichi ci illumina sulle malattie rare. Quando trent’anni fa si facevano ancora molte autopsie, ci aiutarono a seguire nei ragazzi morti a Milano la diffusione delle nuove droghe e dunque ad accrescere la consapevolezza della società e la sua capacità di difendersi. Lo stesso vale per le cause di inquinamento ambientale. I morti ci parlano, anche quando sono morti da molto tempo».
Ecco perché Cristina Cattaneo preferisce la sepoltura alla cremazione.
«Far sparire un corpo è peraltro pressocché impossibile, se non con i sistemi moderni di incinerazione ad altissime temperature che riducono i corpi in polvere. Altrimenti anche i cadaveri bruciati lasciano un mucchietto di un paio di chili di ossa. Perciò la criminalità non ha modo di far scomparire del tutto le tracce di un corpo, e questo ci aiuta. Neanche l’acido basta, ce ne vuole tanto e ci vuole tanto tempo. Perfino quando danno i cadaveri in pasto ai maiali, tecnica orribile ma frequente, rimangono resti umani che continuano a parlarci».
Tento di farla parlare dei grandi delitti di cui si è occupata. Ma a lei non piace. «Il delitto è oggi inflazionato. C’è un’attenzione morbosa che sta finendo col produrre una sorta di anestesia di massa nei confronti del crimine. Capisco che l’omicidio sia un atto così anomalo, fuori dal comune, da incuriosire il grande pubblico. Ma non capisco la facilità, quasi la banalità con cui gli si dà in pasto e si consuma l’immagine del delitto. Troppo spesso viene meno anche il rispetto verso le vittime».
E la religione del Dna? La cronaca nera e giudiziaria sembra ormai esserne schiava.
«La prova del Dna è oggi altamente affidabile, consente di andare oltre ogni ragionevole dubbio (eppure, ciò nonostante, ogni tanto si creano ondate di innocentismo che la ignorano). Non sempre però può essere risolutiva. Al fine di individuare l’identità di un migrante morto in mare, per esempio, avremmo bisogno di confrontare il suo Dna con quello di un parente diretto, un genitore, un fratello, e spesso questo non è possibile. Ma devo aggiungere, da medico legale, che nel caso dei delitti molte volte l’identificazione di un corpo è invece possibile anche senza il Dna, se si svolgono bene le attività investigative e si recuperano tutte le informazioni possibili nell’ambiente, nei tessuti, con l’esame tossicologico e in tanti altri modi. Oggi c’è un po’ il mito del 99% del Dna: è più facile, rapido e meno faticoso, ma deresponsabilizza chi deve cercare la verità. È un po’ come nella medicina, dove la diagnostica ha preso il posto della diagnosi. Inoltre, la pressione crescente dell’opinione pubblica, la tendenza progressiva a fare il processo sui media invece che nelle aule di giustizia, rende il nostro lavoro sempre più difficile. I consulenti di parte che vanno in tv, perché la legge non glielo impedisce, diffondono nella gente la convinzione di conoscere, anche quando in realtà non possono sapere tutto. Noi lavoriamo invece sui fatti e nel segreto».
Nella sua trentennale carriera Cristina Cattaneo ha visto tanti anziani morti, spesso soli e abbandonati. E si è fatta l’idea che alcuni di loro, a un certo punto, si siano lasciati andare. «Troviamo un anziano morto nel rogo del suo appartamento. Da solo. Anche se si è trattato di un incidente, la causa della morte nel suo caso è l’abbandono, più che il fuoco. Oppure i suicidi: le malattie psichiatriche sono elusive per servizi sociali che non ce la fanno a seguire tutti come si dovrebbe. La nostra società, molto meno accudente e solidale che in passato, rende più facile il lasciarsi andare. Si è fortemente affievolita l’influenza del messaggio cristiano. Malati e deboli sono considerati membri di serie B delle nostre società. Per questo penso che una legge sul fine-vita, che pure va fatta e presto, debba tenere attentamente conto di questo rischio: che una società allo sbaraglio la usi male, che si svaluti il valore altissimo di ogni vita umana».
E come conclusione di una conversazione sulla morte, quest’inno alla vita mi piace moltissimo.
Cristina Cattaneo è nata a Casale Monferrato il 18 gennaio 1964. Cresciuta in Canada, dove il padre faceva l’ingegnere, è poi tornata in Piemonte per frequentare il liceo classico. Si è laureata a Montreal in Biologia, ha frequentato Lettere a Roma, si è laureata in Antropologia a Sheffield e quindi in Medicina Legale in Italia. Con Marco Grandi, Professore Ordinario di Medicina Legale, nel 1995 ha fondato il LABANOF, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense.
È una numero 1.
Ha eseguito autopsie sulle vittime di alcuni dei più celebri delitti degli ultimi tempi, da Yara Gambirasio a Stefano Cucchi, ha esaminato i resti di Elisa Claps, ha identificato i corpi martoriati della strage di Linate nel 2001 e quelli senza nome dei grandi naufragi di migranti a Lampedusa. Tanto per dare l’idea: nel ramo è nota come «Bones», dal titolo della celebre serie tv americana ispirata al lavoro di una sua collega d’oltre oceano.
Che cosa succede a un essere umano dopo la morte?
«Si innescano tre processi concomitanti: il rigor mortis, il corpo si irrigidisce; il livor mortis, il corpo assume una colorazione rosa nelle parti dove la forza di gravità fa depositare il sangue; l’algor mortis, il corpo si raffredda. Noi partiamo dall’esame dello stato di avanzamento di questi tre fenomeni per ricostruire all’indietro quando si è verificato il decesso».
Cioè, la fatidica ora del delitto…
«Più che l’ora, meglio sarebbe dire l’epoca. Questa è la spina nel fianco del nostro mestiere. È estremamente difficile accertarla. Quando la morte è intervenuta da poco, ci si può riuscire con un’approssimazione di appena qualche ora. Ma poi comincia il processo di decomposizione…».
Cioè?
«Il corpo letteralmente si disfa. O inizia a colliquare, imputridisce, viene assalito dalle larve di insetti, le carni si decompongono. Oppure si mummifica. E quest’ultimo è un fenomeno che può accadere nel deserto del Sahara, a causa di un clima molto secco, ma anche in una cantina di Milano per la ragione opposta, un eccesso di umidità. Nel primo caso è una specie di liofilizzazione, una volta l’ho osservato sul cadavere di un’anziana che era rimasto per otto anni in una casa: il materasso su cui giaceva aveva assorbito tutti i liquidi. Nel secondo caso si parla invece di corificazione, all’interno il corpo si altera ma la pelle resta relativamente intatta e resistente, come se fosse cuoio».
Quanto tempo ci vuole perché un cadavere si decomponga?
«Da dieci giorni all’aperto in estate a dieci mesi se è sepolto sotto terra».
E perché ne rimangano solo ossa?
«Da tre settimane a vent’anni. Come vede la nostra non è una scienza esatta, la natura tende a ingannarci».
Domando a Cristina Cattaneo che cosa può comunicare un cadavere.
«Se si è trattato di una morte violenta, il corpo offre una specie di alfabeto del crimine. Noi cerchiamo qualsiasi indizio. I lividi per esempio. Su ciascuno di essi ci può essere il Dna dell’eventuale assassino, o il minuscolo residuo di metallo o di legno appartenuto all’arma del delitto. Oppure cerchiamo una frattura, talvolta anche soltanto la scheggiatura di un osso. Se la morte è avvenuta da tempo, avremo bisogno della consulenza di un entomologo, che dalle larve di insetti presenti può ricavare molte informazioni, o di un botanico, per capire se le foglie o le piante sul cadavere ci dicano qualcosa. Nel nostro laboratorio lavora poi un virtuoso della ricostruzione cranio-facciale, che a volte riesce a ricomporre un volto da un teschio. È una specie di collage criminalistico. In questo istituto facciamo un migliaio di autopsie all’anno, e non solo su richiesta dell’autorità giudiziaria. Anche quando il pm non ha particolari motivi per indagare, può essere infatti l’autorità sanitaria a chiederci di accertare il perché della morte di persone che non hanno chiesto o ricevuto un’assistenza clinica: la legge dice che prima di dare sepoltura bisogna individuare la causa del decesso».
La dottoressa Cattaneo ha raccontato molti dei casi che più l’hanno impegnata in un libro, Corpi, scheletri e delitti. Le storie del Labanof. Con una forte partecipazione emotiva, impregnata di pietas.
«I morti raccontano sé stessi. E non solo il loro ultimo istante. Anche la vita precedente. I colori di un pennarello sulla mano di un bambino, per esempio. Le carie di un tossicodipendente. La fragilità ossea di una ragazza anoressica». Mi ha molto colpito questo dettaglio: sui corpi dei più piccoli è difficile trovare i segni della lotta con l’aggressore, perché non sanno difendersi, vengono colti di sorpresa.
Ma prima ancora di capire che cosa abbia messo fine alla vita di una persona, spesso bisogna accertarne l’identità. Cosa tutt’altro che facile. Ci sono ancora 101 schede di cadaveri di “sconosciuti” nei sotterranei del Labanof. Dai tempi di Priamo, il re di Troia che implora ai greci la restituzione delle spoglie del figlio Ettore, sappiamo che per la nostra civiltà, e non solo per la nostra, il lutto non può neanche iniziare, e certamente non può essere elaborato, senza un corpo su cui piangere. “The Right to Truth”, il diritto alla verità per i familiari, è ormai considerato nella legislazione internazionale un diritto umano alla pari degli altri. «Quando ho cominciato questo lavoro, trent’anni fa, e vedevo una lapide con su scritto “sconosciuto”, pensavo che fosse ingiusto per la comunità perdere il valore di quella esistenza, perché anche le vite finite o spezzate fanno parte di un patrimonio comune. Ma poi col tempo ho capito che dare un’identità ai morti è in realtà essenziale per i vivi. Una mole di studi clinici ci dice ormai che la “ambiguous loss”, la mancata verità sulla perdita di un proprio caro, è causa di stress, di depressione, di patologie anche gravi. Dietro il diritto all’identità dei morti c’è dunque anche un diritto alla salute mentale e fisica di chi resta. Va poi aggiunto che il certificato di morte è indispensabile per garantire altri diritti. Per esempio di successione. E se questo ci appare chiaro per i “nostri” morti, per i morti con la pelle bianca, i morti del mondo ricco, ancor di più è vitale per le famiglie africane dei migranti che muoiono a migliaia nel Mediterraneo. Finché quei corpi non saranno riconosciuti “oltre ogni ragionevole dubbio”, un orfano in un campo profughi non potrà essere adottato, o una vedova e i suoi figli non potranno ricongiungersi alla famiglia che l’attende in Europa».
Il Labanof è stato un antesignano nella battaglia per creare una banca dati europea che consenta di raccogliere i dati post mortem degli ormai almeno trentamila naufraghi morti nel Mediterraneo dal 2001, e confrontarli con le informazioni ante mortem che possono darne familiari e conoscenti: tipo, aveva un neo sulla spalla, e il neo effettivamente è sul corpo, oppure da bambino si era rotto la clavicola, e la frattura risulta proprio lì. Purtroppo, oltre la metà dei cadaveri dei migranti ripescati in mare è rimasta senza nome. Fino alla tragedia del 2013, il naufragio davanti all’Isola dei Conigli a Lampedusa che fece 366 vittime di provenienza eritrea, la procedura che si applica regolarmente per tutti i disastri “occidentali” (incidenti, terremoti, aerei caduti, stragi terroristiche) e cioè il lavoro di identificazione delle vittime, non era nemmeno contemplata per i migranti. Le procure fanno il loro lavoro, ciascuna per i suoi casi, richiedono gli esami autoptici, ma poi i dati raccolti restano nei singoli fascicoli. Ed è molto improbabile che i familiari di migranti clandestini si presentino esibendo radiografie, cartelle cliniche, informazioni odontoiatriche o oggetti con il Dna dello scomparso che ne consentano il riconoscimento. Cristina racconta con passione in un altro libro (Naufraghi senza volto) questo tragico “buco nero” dell’Europa, su cui il Labanof, con l’Ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse, cominciò a lavorare proprio in occasione di quel naufragio, e si batte perché venga finalmente creato questo data-base: una proposta fondata sulle raccomandazioni del laboratorio sarà presto discussa a Strasburgo. «Tecnicamente si può fare. Interpol ha già offerto il suo software, manca solo una decisione politica. Eppure, ci sono ancora migliaia di esseri umani rimasti senza una identità. Noi abbiamo la gran parte dei morti, e il Nord Europa ha la gran parte dei parenti che li aspettava. Possibile che l’Europa non riesca a essere una sola neanche su questo?».
Con tutta la sua esperienza diretta, che idea si è fatta della morte?
«Attenzione, io mi occupo di morti, non della morte. Anzi, direi che vedere tutti questi morti non ha migliorato per niente il mio rapporto con la morte. Mio padre è scomparso ormai da dieci anni, e io non riesco ancora a superarlo». Si dichiara credente, aderisce agli insegnamenti di Santa Madre Chiesa, ma come molti cristiani dice di non riuscire a concepire la resurrezione dei corpi.
Almeno nell’immortalità dell’anima, ci crede?
«Dipende da che cosa intendiamo con “anima”. Se quel concetto comprende anche il ricordo di una persona, la memoria che ne conservano i suoi cari, ciò che lascia di non fisico dietro di sé, allora sì, credo che l’anima sia immortale».
E sul dilemma cremazione-inumazione?
«Devo ammettere che mi piacciono molto gli scheletri, anche se il processo fisico attraverso cui un corpo si trasforma in un mucchietto di ossa è così terribilmente caotico. Ma non mi fraintenda. Voglio dire che i resti umani servono non solo alla giustizia per comprendere quando e come è stato commesso un crimine, ma anche alla società per la comprensione di sé stessa. Sono una formidabile fonte materiale di storia sociale. Noi ospitiamo qui anche un museo delle scienze antropologiche, mediche e forensi, che raccoglie i resti ritrovati a Milano nel corso di scavi archeologici: abbiamo un’ampia collezione che va dai più recenti scheletri di partigiani uccisi, all’indietro fino ai tempi dei romani (si chiama MUSA, e consiglio vivamente di visitarlo, ndr.). Dall’analisi di quei resti si scoprono tante cose. Per esempio; che in epoca romana le grandi discriminate erano le donne, vivevano in media trent’anni in meno degli uomini, mentre nel Medioevo questo gap si riduce di molto. Nei resti del cervello di una persona morta nel Seicento, conservati dall’umidità della cripta dell’ospedale Ca’ Granda, voluto da Francesco Sforza, sono state trovate tracce inequivocabili dell’uso di cocaina (e in altri di cannabis e oppio). È stato così possibile anticipare di circa due secoli l’arrivo in Europa dall’America di queste foglie stupefacenti. L’analisi genetica dei resti di cadaveri antichi ci illumina sulle malattie rare. Quando trent’anni fa si facevano ancora molte autopsie, ci aiutarono a seguire nei ragazzi morti a Milano la diffusione delle nuove droghe e dunque ad accrescere la consapevolezza della società e la sua capacità di difendersi. Lo stesso vale per le cause di inquinamento ambientale. I morti ci parlano, anche quando sono morti da molto tempo».
Ecco perché Cristina Cattaneo preferisce la sepoltura alla cremazione.
«Far sparire un corpo è peraltro pressocché impossibile, se non con i sistemi moderni di incinerazione ad altissime temperature che riducono i corpi in polvere. Altrimenti anche i cadaveri bruciati lasciano un mucchietto di un paio di chili di ossa. Perciò la criminalità non ha modo di far scomparire del tutto le tracce di un corpo, e questo ci aiuta. Neanche l’acido basta, ce ne vuole tanto e ci vuole tanto tempo. Perfino quando danno i cadaveri in pasto ai maiali, tecnica orribile ma frequente, rimangono resti umani che continuano a parlarci».
Tento di farla parlare dei grandi delitti di cui si è occupata. Ma a lei non piace. «Il delitto è oggi inflazionato. C’è un’attenzione morbosa che sta finendo col produrre una sorta di anestesia di massa nei confronti del crimine. Capisco che l’omicidio sia un atto così anomalo, fuori dal comune, da incuriosire il grande pubblico. Ma non capisco la facilità, quasi la banalità con cui gli si dà in pasto e si consuma l’immagine del delitto. Troppo spesso viene meno anche il rispetto verso le vittime».
E la religione del Dna? La cronaca nera e giudiziaria sembra ormai esserne schiava.
«La prova del Dna è oggi altamente affidabile, consente di andare oltre ogni ragionevole dubbio (eppure, ciò nonostante, ogni tanto si creano ondate di innocentismo che la ignorano). Non sempre però può essere risolutiva. Al fine di individuare l’identità di un migrante morto in mare, per esempio, avremmo bisogno di confrontare il suo Dna con quello di un parente diretto, un genitore, un fratello, e spesso questo non è possibile. Ma devo aggiungere, da medico legale, che nel caso dei delitti molte volte l’identificazione di un corpo è invece possibile anche senza il Dna, se si svolgono bene le attività investigative e si recuperano tutte le informazioni possibili nell’ambiente, nei tessuti, con l’esame tossicologico e in tanti altri modi. Oggi c’è un po’ il mito del 99% del Dna: è più facile, rapido e meno faticoso, ma deresponsabilizza chi deve cercare la verità. È un po’ come nella medicina, dove la diagnostica ha preso il posto della diagnosi. Inoltre, la pressione crescente dell’opinione pubblica, la tendenza progressiva a fare il processo sui media invece che nelle aule di giustizia, rende il nostro lavoro sempre più difficile. I consulenti di parte che vanno in tv, perché la legge non glielo impedisce, diffondono nella gente la convinzione di conoscere, anche quando in realtà non possono sapere tutto. Noi lavoriamo invece sui fatti e nel segreto».
Nella sua trentennale carriera Cristina Cattaneo ha visto tanti anziani morti, spesso soli e abbandonati. E si è fatta l’idea che alcuni di loro, a un certo punto, si siano lasciati andare. «Troviamo un anziano morto nel rogo del suo appartamento. Da solo. Anche se si è trattato di un incidente, la causa della morte nel suo caso è l’abbandono, più che il fuoco. Oppure i suicidi: le malattie psichiatriche sono elusive per servizi sociali che non ce la fanno a seguire tutti come si dovrebbe. La nostra società, molto meno accudente e solidale che in passato, rende più facile il lasciarsi andare. Si è fortemente affievolita l’influenza del messaggio cristiano. Malati e deboli sono considerati membri di serie B delle nostre società. Per questo penso che una legge sul fine-vita, che pure va fatta e presto, debba tenere attentamente conto di questo rischio: che una società allo sbaraglio la usi male, che si svaluti il valore altissimo di ogni vita umana».
E come conclusione di una conversazione sulla morte, quest’inno alla vita mi piace moltissimo.
Cristina Cattaneo è nata a Casale Monferrato il 18 gennaio 1964. Cresciuta in Canada, dove il padre faceva l’ingegnere, è poi tornata in Piemonte per frequentare il liceo classico. Si è laureata a Montreal in Biologia, ha frequentato Lettere a Roma, si è laureata in Antropologia a Sheffield e quindi in Medicina Legale in Italia. Con Marco Grandi, Professore Ordinario di Medicina Legale, nel 1995 ha fondato il LABANOF, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense.