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Un venerdì ancora mite

Mite non lo è la guerra che, in questi anni, impazza in Europa, medio oriente e tante altre parti del mondo.
 
Mite non lo è questo autunno, afflitto da stravolgimenti climatici con alluvioni, squilibri termici e devastazioni in tanti paesi.
 
Mite non lo è la comunicazione tra le persone e i popoli che, dai social alla Tv, al poco che resta della carta stampata, dà una pessima impressione di sé, tra messaggi urlati senza contenuto e contenuti osceni che lanciano messaggi violenti in particolare per i giovani.
 
Mite, inteso come persona che ha carattere dolce e umano, disposto alla pazienza e all’indulgenza, non è fuori moda, è ghiaccio bollente, tra tanta aggressività, violenza, ferocia ed inclemenza.
 
Ecco che, ostinatamente, è di mitezza che vogliamo continuare a parlare; è alla mitezza che ci vogliamo continuare ad ispirare. La mitezza che non esclude i conflitti ma li governa, come ci hanno insegnato tanti e, fra i tanti, Norberto Bobbio di cui abbiamo scritto venerdì scorso e Fedor Dostoevskij del cui romanzo fantastico, La Mite, scrive oggi, venerdì, Virginia Varriale.
 
La  mitezza,  come stato d’animo, potenza e sentimento perché, come scrive la Varriale; “La protervia e la mitezza dei due protagonisti del racconto di Dostoevskij sono la chiara espressione dei due irriducibili atteggiamenti che gli esseri umani possono instaurare fra loro, e lo scarto sostanziale tra l’uno e l’altro modo è nella capacità di essere-per-l’altro, in quella inclinazione a non voler cambiare l’altro, bensì riconoscerci nel “tu” senza annullare i limiti della propria coscienza, perché quei limiti sono un ponte per costruire relazioni”.

(RL)


Eugène Delacroix,  "Jeune orpheline au cimetière"


La mite di Dostoevskij
Una rilettura di Virginia Varriale
 
Nel 1876 Dostoevskij apprese due fatti di cronaca molto gravi: nel mese di giugno il suicidio per avvelenamento della giovane figlia di Alexandr Herzen e nel mese di ottobre il caso di una giovane sarta, gettatasi dalla mansarda del sesto piano con l’immagine della Madonna donatale dai genitori. I due suicidi impressionarono molto e per lungo tempo lo scrittore, tanto che cercò di trasformare in narrazione la storia di una suicida mite e umile. Il racconto insieme a un altro breve capolavoro, Il sogno di un uomo ridicolo, entrambi con il sottotitolo “Racconto fantastico”, comparvero nel Diario di uno scrittore, destinato a divenire una rivista letteraria, ma per Dostoevskij era come un “laboratorio” dei suoi romanzi. Lo scrittore fu in stretto rapporto con il movimento femminista del suo tempo e nutriva grande ammirazione per il coraggio di quelle donne che, fra mille incertezze, lasciavano la propria casa per non farvi più ritorno. Ebbe modo di conoscere donne di diversa estrazione sociale e di diverse convinzioni, molte gli scrivevano per chiedere consiglio e lui sempre rispondeva e suggeriva, convinto che il valore più profondo della natura femminile risiedesse nella saggezza del cuore.
E proprio in una pagina del Diario di uno scrittore Dostoevskij scriveva:
“La rinascita della donna russa negli ultimi venti anni è indiscutibile. Lo slancio delle sue esigenze è stato grande, sincero e ardito … La donna russa ha con purezza disprezzato impedimenti e ironie. Ha proclamato fermamente il suo desiderio di partecipare all’opera comune … L’uomo russo in questi ultimi decenni si è abbandonato terribilmente alla corruttela del profitto, del cinismo, del materialismo; la donna è rimasta più fedele alla pura adorazione dell’idea, al servizio dell’idea. Nella sete d’istruzione superiore essa ha rivelato serietà e pazienza e ha dato un esempio di altissimo coraggio”[1].
 
Eppure lo scrittore nelle sue opere non ha rappresentato quella tipologia di donna forte e indipendente, al contrario preferiva figure di donne umili e miti, o disperatamente sprezzanti della realtà, e l’amore si manifestava come passione cupa e malinconica, capace di spingere ai più atroci delitti come ai più nobili sacrifici.
Il racconto La mite è la narrazione dell’estraneità che separa l’uomo dall’uomo e, in particolar modo, l’uomo dalla donna: due mondi paralleli che non s’intersecano o, se accade, essi non se ne accorgono in tempo, così non è più possibile rimediare, perché il tempo non si ripete una seconda volta. Tutto diviene irriducibile. È la storia di un ex ufficiale che, dopo un passato tormentato, acquista un banco di pegni e a quarant’anni, in una giornata qualunque a lavoro, conosce una giovanissima donna, bionda ed esile, dallo sguardo mite. In breve tempo diviene sua moglie, ma un giorno si ritrova nel soggiorno a parlare con il corpo di lei senza vita, perché si è lanciata dalla finestra ed è morta … se solo fosse arrivato cinque minuti prima!
L’opera è un lungo monologo interiore, in cui il narratore va a ritroso nel tempo per trovare l’ultimissima verità, ma ne esce sconfitto perché siamo “un mucchio di rifiuti e non sopportiamo la verità …e la maledizione peggiore è che l’uomo, nella sua grande solitudine, rimane un mistero nella comprensione dell’altro”.
Dostoevskij non rivela il nome della giovane donna, la chiama semplicemente “la mite”: un’orfana povera e serva di due zie dispotiche, in cerca di un lavoro come governante. Il suo animo è innocente e il suo fare infantile, due aspetti che colpiscono l’ufficiale- usuraio, tanto da “acquistarla” dalle due zie e sposarla per farne un suo bene: il suo desiderio è che ci possa essere sulla faccia della terra una creatura pronta ad adorarlo.
 
“Quando poi arrivò, entrai con lei in amabile conversazione con straordinaria gentilezza. In fondo ho una buona educazione e me ne intendo di buone maniere. Uhm! Allora intuii che era buona e mite. Le persone buone e miti non si oppongono a lungo e, anche se non subito, diventano poi molto comunicative, non sanno evitare una conversazione: rispondono prima a monosillabi, ma rispondono  e rispondono sempre più facilmente, solo non bisogna scoraggiarsi se ci si tiene tanto alla conversazione”[2].
 
Forse tutto avvenne in fretta … perché lui non era preparato all’entusiasmo di lei, a tutto il suo amore, al suo cinguettìo, quando la sera tornava e lo travolgeva con tutta la sua innocenza.
Anziché aprirsi e abbandonarsi a quella dolcezza, si mostrò gelido e rispondeva con il silenzio. 
Non voleva essere cattivo, voleva apparire ai suoi occhi come un enigma e, nel perseguire il suo intento, prolungava i silenzi. Ma poi indugiava con la sguardo su di lei, conosceva le sue abitudini, come quella di urtare con il piedino destro il tappeto quando era seduta sul letto.
Una volta al mese andavano a teatro, ma senza mai parlare …
Poi cominciarono a litigare per incomprensioni al banco di pegni e per la scoperta di un’umiliazione subita in gioventù, quando era ancora ufficiale e fu costretto a dimettersi: col silenzio e la freddezza voleva vendicarsi del torto avuto su di lei, che iniziò a mostrarsi ribelle, ma senza sfrontatezza proprio per la sua natura mite.
 
“A un tratto, mentre la guardavo, mi venne il pensiero che lei durante l’ultimo mese, o meglio, durante le ultime due settimane, non era se stessa, ma addirittura si potrebbe dire il suo contrario: appariva come una creatura selvaggia, aggressiva, non posso dire sfrontata, ma disordinata, che da sola cercava la tempesta, anzi la desiderava. Glielo impediva la sua mitezza innata. Quando uno di questi esseri si ribella, e anche se oltrepassa ogni limite, si vede sempre che compie violenza su se stesso, si incita senza riuscire a dominare la propria vergogna e il proprio senso del pudore. Proprio per questo nature simili possono perdere il senso di ogni misura, tanto da non fidarsi della propria ragione che vigila. Invece un’anima abituata alla corruzione si dimostrerà sempre più contenuta, commetterà un’azione in modo più vile, ma con quella parvenza di ordine e di decoro che ha perfino, rispetto a voi, una pretesa di superiorità”[3].
 
Poi lei si ammalò gravemente e lui temette di perderla, l’unica creatura che stava coltivando, che gli apparteneva, a cui avrebbe dato tutto il suo futuro.
Inaspettatamente la mite si riprese e il pericolo di morte fu scongiurato, intanto passò l’inverno e in petto sentiva una strana contentezza, fatta di attesa.
 
“Amavo guardarla di nascosto quando stava seduta al suo tavolino. Faceva qualche lavoro, rammendava la biancheria, ma di sera leggeva  i libri che prendeva dal mio scaffale. La scelta dei libri nel mio scaffale avrebbe dovuto testimoniare a mio favore. Non andava da nessuna parte. Prima del crepuscolo, dopo il pranzo, facevamo la nostra passeggiata quotidiana per fare un po’ di moto, e non tacevamo più completamente come prima”[4].
 
“… ai miei occhi lei era così vinta, così umiliata, così annientata che a volte sentivo un’angosciosa pietà nei suoi confronti, anche se d’altro canto il pensiero della sua umiliazione mi compiaceva. L’idea della nostra disuguaglianza mi affascinava…”[5].
 
E all’improvviso gli cadde un velo dagli occhi, come se un raggio di luce lo avesse folgorato, come se una piccola vena fosse tornata a pulsare, tutto avvenne all’improvviso, verso sera. Si lasciò cadere ai suoi piedi, li baciò piangendo ma non riusciva a parlare, le confessò tutto il suo amore. L’aveva spaventata.
Ma le parole che lei pronunciò lo sconvolsero:
“E io che pensavo che voi mi avreste lasciata semplicemente così, semplicemente così”[6].
Lui si sentì felice, sicuro che all’indomani sarebbe iniziato qualcosa di “completamente diverso”, delirava preso dall’entusiasmo e aspettava la mattina per dirle che un viaggio avrebbe salvato tutto, avrebbe rimediato ogni cosa …. Ma il corso degli eventi può cambiare anche in soli cinque minuti e la mite vide nella morte l’unica soluzione di fronte al suo sentimento incompreso, umiliato, finito.
E lui perse la sua vita con quella di lei, perché quella morte segnò la rovina di entrambi.
“Tutto è morto e dappertutto c’è morte. Solo gli uomini vivono e intorno a loro regna il silenzio – questa è la terra! “Uomini, amatevi l’un l’altro”- chi l’ha detto? Di chi è questo comandamento? Il pendolo batte insensibile e odioso. Sono le due di notte. Le sue scarpine stanno vicino al letto come se l’aspettassero … No, seriamente, quando domani la porteranno via, che sarà di me?”[7].
 
Lo scrittore russo con La mite ha messo a nudo quanto possa essere impenetrabile la nostra coscienza di fronte alle altre coscienze, quanto ci si possa alienare dagli altri pur restando contigui, incapaci di uscire da quei labirinti di pensieri che ci costruiamo giorno dopo giorno fino a farne la nostra prigione.
Se l’ufficiale avesse messo da parte il suo orgoglio, se avesse lasciato attraversare la propria esistenza dalla freschezza d’animo della mite, forse quella “terra” sarebbe stata un luogo meno solitario, forse il ticchettio del pendolo sarebbe stato più sopportabile.
La protervia e la mitezza dei due protagonisti del racconto di Dostoevskij sono la chiara espressione dei due irriducibili atteggiamenti che gli esseri umani possono instaurare fra loro, e lo scarto sostanziale tra l’uno e l’altro modo è nella capacità di essere-per-l’altro, in quella inclinazione a non voler cambiare l’altro, bensì riconoscerci nel “tu” senza annullare i limiti della propria coscienza, perché quei limiti sono un ponte per costruire relazioni.


[1] F. M. Dostoevskij, Diario di uno scrittore, a cura di E. Lo Gatto, Firenze 1981, p. 441.
[2] F. M. Dostoevskij, La mite, Mondadori, Milano 1995, p. 8.
[3] Ivi, cit., pp. 27-28.
[4] Ivi, cit., pp. 40-41.
[5] ibidem
[6] Ivi, cit., p. 47.
[7] Ivi, cit., p. 57.