Tratto da “Pangea” del 17 agosto 2024
I racconti di Flannery O’Connor sono
disgustosi. Flannery O’Connor aveva una faccia da faina; poco prima di
morire si vantava di aver visto – così leggo nella nota biografica – “14 dei
suoi 40 pavoni mentre fanno contemporaneamente la ruota”. Il pavone non appare
nella Bibbia ma è, tradizionalmente, il simbolo della resurrezione e
dell’immortalità, del Dio dai mille occhi, che ti fissa di continuo, ovunque,
del Cristo stellato.
Doveva essere insopportabile, Flannery O’Connor. I suoi racconti sono scritti per dare fastidio. Dei racconti di Flannery O’Connor, disgustosi per eccesso di realtà, perché ne senti l’odore, rancido, penetrante, che non ti si leva dalla maglia, non ricordi quasi nulla se non il retrogusto insopportabile della colpa. Non ricordi la ‘trama’ – di solito un’epifania occasionale: il tratto elettrico in cui una vita si interrompe, si converte, ovvero: si consuma – ma la sagoma di un volto, le mani gonfie, il piede caprino, il fitto squittio di quotidiane ipocrisie.
Everything That Rises Must Converge, per
dire, tradotto da Gaja Cenciarelli per minimum fax come Punto
Omega, finisce
con un racconto che s’intitola Il giorno del giudizio, con un tizio che si
chiama Tanner, naturalmente solo e fuori posto, e con l’esumazione del suo
cadavere. Mi ha sorpreso, piuttosto, più della prima volta – molti anni fa, in
un libro della Bur –, leggere La schiena di Parker. Tutto in quella storia
è assurdo. La moglie di Parker, Sarah Ruth Cates, “brutta, davvero brutta”; il
modo in cui Parker l’ha concupita (portando ceste di mele); il corpo pieno di
astrusi tatuaggi di Parker – un caos di ancore, fucili, aquile, pantere –, la
risoluzione di farsi incidere il volto di Cristo sulla schiena. È assurda ogni
decisione presa da Parker che pare chiamato, guidato da segni
inderogabili che lo obbligano a sposare Sarah Ruth e a farsi tatuare il
Pantocratore sul dorso; è violenta e assurda la reazione di Sarah Ruth al gesto
d’amore di Parker. Qual è il lato in cui interviene Dio? Chi è il fiancheggiatore
di Dio, in questa storia, il suo garante?
Doveva essere insopportabile, Flannery O’Connor. I suoi racconti sono scritti per dare fastidio. Dei racconti di Flannery O’Connor, disgustosi per eccesso di realtà, perché ne senti l’odore, rancido, penetrante, che non ti si leva dalla maglia, non ricordi quasi nulla se non il retrogusto insopportabile della colpa. Non ricordi la ‘trama’ – di solito un’epifania occasionale: il tratto elettrico in cui una vita si interrompe, si converte, ovvero: si consuma – ma la sagoma di un volto, le mani gonfie, il piede caprino, il fitto squittio di quotidiane ipocrisie.
Flannery O’Connor gioca a sovvertire i
canoni della provvidenza, per riallinearli. Forse la risposta del racconto
è nel padre di Sarah Ruth, “un predicatore del Vangelo Corretto”. Già. Ma cosa
significa “Vangelo Corretto”? Nell’originale è scritto “Straight Gospel”. Su
internet trovo una “Straight Gospel Church” a Talbott, Tennessee. Pare siano
carismatici, pentecostali, affiliati alla dottrina del “Full Gospel”.
Forse, più santamente, la chiave del testo è nel nome di Parker, mormorato solennemente soltanto una volta. Obadiah Elihue. Obadiah, cioè Abdia, il profeta più laconico della Bibbia, uno dei più violenti. L’oracolo pronunciato da Abdia annuncia che “è vicino il giorno del Signore” e che sarà letale: “ecco, ti minimizzo tra le nazioni, perché sei spregevole: la superbia del tuo cuore ti ha ingannato”. Amen.
Flannery O’Connor è più crudele di Dostoevskij. Come i veri entusiasti, Dostoevskij distrugge tutto per ricostruire tutto, giganteggia nella melma: alla fine, c’è sempre qualcuno che ama il prossimo più di se stesso, appare l’icona del “folle di Dio”, che conforta. Flannery O’Connor, invece, non conforta; è fastidiosa, indaga la mediocrità del cuore umano, disorienta. Rileggo quell’altro racconto, notissimo, Gli storpi entreranno per primi. Anche qui, la realtà passa sottopelle, come una grandine di schegge di legno, non hai nemmeno il tempo di succhiarti il sangue.
Si racconta di un pio uomo dagli occhi azzurri, Sheppard, vedovo, che si mette in testa di salvare un ragazzo storpio, Rufus Johnson, piccolo delinquente con sommo quoziente intellettivo, a discapito del figlio, Norton, viziato, dalle “orecchie molto grandi e tonde”, magistralmente stupido. La storia passa dallo schifo al sublime, cioè dal vomito di Norton, “un impasto morbido e dolciastro”, alle stelle dove il bimbo è certo di vedere la mamma che lo saluta, è certo di volerla raggiungere. Rufus Johnson, lo zoppo, forse è figura del demonio, forse del giusto: inghiotte i fogli della Bibbia come il profeta Ezechiele, mente di continuo, e quando è arrestato urla in faccia al pio Sheppard che “gli storpi entreranno per primi!”. Sheppard è il brav’uomo slanciato nella superbia: crede di sostituirsi a Dio, di poter salvare un suo simile. Crede di essere nel giusto. Anche in questo racconto è tutto assurdo secondo i canoni della buona morale: la pena, infatti, insopportabile, è inflitta al povero cristo.
Rudolf Kassner, pensatore tedesco reso storpio dalla poliomielite, maestro di Rilke, insegnava che il metro di misura del cristiano è l’incommensurabile, che l’uomo cristiano è “lo smisurato”. “Per il cristiano non esista altra grandezza che la colpa”, scrive in Gli elementi dell’umana grandezza (testo riprodotto in selezione antologica qui: Rudolf Kassner, La libertà e l’abisso, Magog, 2023).
“Per lui la perdita è un vantaggio, la diserzione una vittoria; in senso stretto, soltanto il peccatore, il ribelle, il colpevole, il nemico sono grandi, compiuti”.
Per dirla con Lev Šestov, l’estremista del pensiero, “il più importante è al di là dei limiti del comprensibile e dello spiegabile”.
Flannery O’Connor, voglio dire, ci mostra ciò che non vogliamo vedere: che il Vangelo non ha a che fare con la morale né con la legge, che le opere buone non sono garanzia di salvezza, che, come scrive San Paolo agli ebrei, “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (Eb 10, 31). Flannery O’Connor ci obbliga a riconoscere che il Vangelo non è un trattato per vivere felici, non vi troviamo la saggezza di Confucio, le buone istruzioni dettate in versi dal Buddha, i raffinati consigli di Seneca. In effetti, non troviamo nessun appiglio nel Vangelo. Nessun conforto. Il Vangelo è un baratro e Dio è capriccioso, geloso, inaffidabile; la sequela è fine a se stessa, non ha prezzo e non ha premio; uno scisma incolmabile separa cultura e verità. Ecco cosa ci dice Flannery O’Connor. La grande scrittrice americana mostra il Cristo “venuto a portare non pace, ma spada, a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre” (Mt 10, 34-35), che allontana da sé chi non è disposto a seguirlo subito, ora, qui, senza appello, senza seppellire il padre o congedarsi dai familiari (Lc 9, 59ss.), che urla a Pietro, il primo tra i discepoli, “Via da me, Satana!” (Mc 8, 33). Purificato da profilattici ecumenici, Flannery O’Connor ostenta il cristianesimo per ciò che è: il genio della contraddizione, anelito e belato, follia vera, assidua assurdità, privilegio dell’irriconoscenza, preparazione al martirio, genia di svergognati.
Forse, più santamente, la chiave del testo è nel nome di Parker, mormorato solennemente soltanto una volta. Obadiah Elihue. Obadiah, cioè Abdia, il profeta più laconico della Bibbia, uno dei più violenti. L’oracolo pronunciato da Abdia annuncia che “è vicino il giorno del Signore” e che sarà letale: “ecco, ti minimizzo tra le nazioni, perché sei spregevole: la superbia del tuo cuore ti ha ingannato”. Amen.
Flannery O’Connor è più crudele di Dostoevskij. Come i veri entusiasti, Dostoevskij distrugge tutto per ricostruire tutto, giganteggia nella melma: alla fine, c’è sempre qualcuno che ama il prossimo più di se stesso, appare l’icona del “folle di Dio”, che conforta. Flannery O’Connor, invece, non conforta; è fastidiosa, indaga la mediocrità del cuore umano, disorienta. Rileggo quell’altro racconto, notissimo, Gli storpi entreranno per primi. Anche qui, la realtà passa sottopelle, come una grandine di schegge di legno, non hai nemmeno il tempo di succhiarti il sangue.
Si racconta di un pio uomo dagli occhi azzurri, Sheppard, vedovo, che si mette in testa di salvare un ragazzo storpio, Rufus Johnson, piccolo delinquente con sommo quoziente intellettivo, a discapito del figlio, Norton, viziato, dalle “orecchie molto grandi e tonde”, magistralmente stupido. La storia passa dallo schifo al sublime, cioè dal vomito di Norton, “un impasto morbido e dolciastro”, alle stelle dove il bimbo è certo di vedere la mamma che lo saluta, è certo di volerla raggiungere. Rufus Johnson, lo zoppo, forse è figura del demonio, forse del giusto: inghiotte i fogli della Bibbia come il profeta Ezechiele, mente di continuo, e quando è arrestato urla in faccia al pio Sheppard che “gli storpi entreranno per primi!”. Sheppard è il brav’uomo slanciato nella superbia: crede di sostituirsi a Dio, di poter salvare un suo simile. Crede di essere nel giusto. Anche in questo racconto è tutto assurdo secondo i canoni della buona morale: la pena, infatti, insopportabile, è inflitta al povero cristo.
Rudolf Kassner, pensatore tedesco reso storpio dalla poliomielite, maestro di Rilke, insegnava che il metro di misura del cristiano è l’incommensurabile, che l’uomo cristiano è “lo smisurato”. “Per il cristiano non esista altra grandezza che la colpa”, scrive in Gli elementi dell’umana grandezza (testo riprodotto in selezione antologica qui: Rudolf Kassner, La libertà e l’abisso, Magog, 2023).
“Per lui la perdita è un vantaggio, la diserzione una vittoria; in senso stretto, soltanto il peccatore, il ribelle, il colpevole, il nemico sono grandi, compiuti”.
Per dirla con Lev Šestov, l’estremista del pensiero, “il più importante è al di là dei limiti del comprensibile e dello spiegabile”.
Flannery O’Connor, voglio dire, ci mostra ciò che non vogliamo vedere: che il Vangelo non ha a che fare con la morale né con la legge, che le opere buone non sono garanzia di salvezza, che, come scrive San Paolo agli ebrei, “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (Eb 10, 31). Flannery O’Connor ci obbliga a riconoscere che il Vangelo non è un trattato per vivere felici, non vi troviamo la saggezza di Confucio, le buone istruzioni dettate in versi dal Buddha, i raffinati consigli di Seneca. In effetti, non troviamo nessun appiglio nel Vangelo. Nessun conforto. Il Vangelo è un baratro e Dio è capriccioso, geloso, inaffidabile; la sequela è fine a se stessa, non ha prezzo e non ha premio; uno scisma incolmabile separa cultura e verità. Ecco cosa ci dice Flannery O’Connor. La grande scrittrice americana mostra il Cristo “venuto a portare non pace, ma spada, a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre” (Mt 10, 34-35), che allontana da sé chi non è disposto a seguirlo subito, ora, qui, senza appello, senza seppellire il padre o congedarsi dai familiari (Lc 9, 59ss.), che urla a Pietro, il primo tra i discepoli, “Via da me, Satana!” (Mc 8, 33). Purificato da profilattici ecumenici, Flannery O’Connor ostenta il cristianesimo per ciò che è: il genio della contraddizione, anelito e belato, follia vera, assidua assurdità, privilegio dell’irriconoscenza, preparazione al martirio, genia di svergognati.
In una lettera del novembre del 1955
alla fatidica A., Flannery O’Connor narra di una gita ad Atlanta. Il dolore
all’anca l’ha resa zoppa, deve usare le stampelle. “Una signora è salita in
ascensore dietro di me. Non appena mi sono girata, mi guarda con occhi lucidi e
mi fa, ad alta voce, Dio ti benedica, cara!”. La scrittrice taglia corto,
intaglia la sconosciuta in “un debole sguardo assassino”, ma la signora non
desiste dal proselitismo.
“Mi ha preso il braccio e mi ha sussurrato – a voce molto alta – all’orecchio: Gli storpi entreranno per primi”.
La chiosa della scrittrice è ironica (“Forse sarà così perché potranno farsi largo tra tutti gli altri a colpi di stampelle”), il versetto è irreperibile. Nei Vangeli, Gesù dimostra una predilezione per “poveri, storpi, zoppi, ciechi” (Lc 14,13), ma quel versetto – The Lame Shall Enter First, in originale – non esiste neanche nella King James (dove è scritto, semmai, “And the blind and the lame came to him in the temple…”). Il versetto, nella formula corretta, suona così: “I pubblicani e le prostitute entreranno prima di voi nel regno di Dio” (Mt 21, 31). Pubblicani e prostitute. Non storpi. Tuttavia, Gli storpi entreranno per primi suona meglio. Forse è questa la soluzione del racconto. Il demonio storpia il Vangelo. E scrivere è una lotta contro i demoni.
“Mi ha preso il braccio e mi ha sussurrato – a voce molto alta – all’orecchio: Gli storpi entreranno per primi”.
La chiosa della scrittrice è ironica (“Forse sarà così perché potranno farsi largo tra tutti gli altri a colpi di stampelle”), il versetto è irreperibile. Nei Vangeli, Gesù dimostra una predilezione per “poveri, storpi, zoppi, ciechi” (Lc 14,13), ma quel versetto – The Lame Shall Enter First, in originale – non esiste neanche nella King James (dove è scritto, semmai, “And the blind and the lame came to him in the temple…”). Il versetto, nella formula corretta, suona così: “I pubblicani e le prostitute entreranno prima di voi nel regno di Dio” (Mt 21, 31). Pubblicani e prostitute. Non storpi. Tuttavia, Gli storpi entreranno per primi suona meglio. Forse è questa la soluzione del racconto. Il demonio storpia il Vangelo. E scrivere è una lotta contro i demoni.