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L’evoluzione nascosta del corpo femminile
Per molto tempo la scienza ufficiale ha trascurato la biologia e il sapere femminile, con conseguenze a volte drammatiche. Ma stiamo cominciando a cambiare prospettiva.
Recuperare le narrazioni sommerse non è un esercizio di correttezza politica, ma una necessità epistemologica per comprendere più pienamente chi siamo e come siamo diventati tali.
di Laura Antonella Carli
Nel caso di Crezia però le cose erano andate diversamente: era una donna anziana, vedova e povera – condizioni che per molti rappresentavano già una colpa – ma soprattutto, era una guaritrice. Curava le persone con erbe e formule propiziatorie, custode di una tradizione empirica tramandata di generazione in generazione attraverso una rete di conoscenze condivise. E questo, nella sedicente epoca d’oro del Rinascimento toscano, era un problema: si stava infatti consolidando un curioso sodalizio tra la Chiesa della Controriforma, chiamata a serrare i ranghi contro ogni manifestazione di possibile eresia, e la nuova classe professionale dei medici accademici, ansiosi di assicurarsi il monopolio corporativo. Il risultato fu la persecuzione di tutte quelle figure professionali – soprattutto femminili – che da secoli si sporcavano le mani alleviando concretamente le pene dei malati: cerusici, norcini, barbieri e, soprattutto, levatrici.
La figura della levatrice è, con ogni probabilità, molto più antica di quanto immaginiamo, e la sua importanza è stata radicalmente sottovalutata, anche dal punto di vista evolutivo. Quattrocentotrentacinque anni dopo la condanna di Crezia, Cat Bohannon, ricercatrice presso la Columbia University, nel suo saggio Eva. Come il corpo femminile ha plasmato l’evoluzione umana (2024) si interroga su una questione apparentemente provocatoria: “qual è stata l’invenzione più decisiva nella storia dell’umanità? La ruota, la lancia, internet?” La risposta che propone è sorprendente nella sua evidenza: la ginecologia, con il suo corredo di ostetricia, baliatico e assistenza prenatale. Proprio quelle pratiche che donne come Crezia Mariani portavano avanti a rischio della vita, mentre il sapere medico ufficiale ancora brancolava nel buio.
Chiunque abbia idea di quanto sia difficile per gli esseri umani partorire rispetto agli altri mammiferi non può che essere d’accordo. Lo spiega il genetista Guido Barbujani, tentando di chiarire come l’evoluzione proceda più per accomodamenti che per soluzioni ottimali. Col passaggio alla stazione eretta, la colonna vertebrale ha subito modifiche che hanno reso la distribuzione dei pesi più complessa, causando i mal di schiena, le ernie al disco e i torcicolli che tutti conosciamo. Ma “il conto più salato”, scrive Barbujani in Il giro del mondo in sei milioni di anni (2018) “l’hanno pagato le donne. Il cambiamento di forma del bacino col passaggio alla stazione eretta costringe la nostra specie a un parto molto complicato, […] di regola, le donne hanno bisogno di assistenza per partorire. In confronto, per gorilla e scimpanzé è uno scherzo”.
C’è chi suggerisce che furono le femmine le prime a fare uso di strumenti e utensili, spinte dalla necessità di risolvere problemi immediati. In quest’ottica, la tecnologia emergerebbe non tanto come estensione della forza, ma come amplificazione dell’intelligenza pratica e della capacità di adattamento.
La complessità dell’evoluzione umana va ben oltre le dinamiche del parto e dell’allevamento dei piccoli. Nel ribaltare la narrativa tradizionale, Bohannon propone un’altra provocazione: le abilità tecnologiche umane potrebbero avere origini diverse da quelle comunemente immaginate. L’autrice suggerisce che furono probabilmente le femmine a sviluppare per prime l’uso sistematico di strumenti, spinte non dalla caccia ma dalle esigenze quotidiane di raccolta, conservazione e trasporto del cibo per sé e per la prole. “La donna è un MacGyver meno trionfante e più impaurito”, scrive Bohannon, sottolineando come l’innovazione nasca spesso dalla necessità di risolvere problemi immediati piuttosto che da impulsi di dominio. In quest’ottica, la tecnologia emergerebbe non tanto come estensione della forza, ma come amplificazione dell’intelligenza pratica e della capacità di adattamento.
Come un fotografo che inquadra ostinatamente solo un lato del paesaggio, la scienza ha sviluppato una curiosa miopia di genere. E non è stata una svista casuale. La storia della medicina è costellata di esempi di questo pregiudizio, che ha influenzato non solo la nostra comprensione del passato, ma anche la pratica contemporanea. Quando, nel 1603, il medico veneziano Girolamo Fabrici d’Acquapendente pubblicò il suo De formato foetu, uno dei primi trattati di embriologia, fu acclamato come pioniere. Eppure, nelle sue pagine abbondantemente illustrate, il feto sembrava galleggiare in un vuoto astratto, mentre l’utero che lo ospitava appariva come un semplice contenitore passivo, quasi un dettaglio tecnico.
Nel suo Inferiori. Come la scienza ha penalizzato le donne (2019), Angela Saini ha evidenziato che figure centrali nella storia della medicina occidentale, come Ippocrate, non studiavano le donne direttamente ma si affidavano alle informazioni fornite da levatrici e donne che si auto-esaminavano. Ippocrate stesso avrebbe detto: “So solo quello che le donne mi hanno insegnato”. In pratica, il sapere femminile veniva allo stesso tempo utilizzato e delegittimato, incorporato senza riconoscerne la fonte.
Ma questa miopia scientifica non è limitata all’antichità. Nel corso del Novecento, con il graduale accesso di sempre più donne alla professione medica, la situazione è migliorata ma non risolta. Certo, non si crede più, come sosteneva Galeno, che le anziane abbiano uno sguardo velenoso perché non espellono più le impurità attraverso le mestruazioni. Né si pensa, come sosteneva il medico e antropologo evoluzionista Paolo Mantegazza alla fine del Diciannovesimo secolo, che le donne abbiano il cuore più grande per compensare il loro cervello minuto, e siano pertanto naturalmente predisposte al sacrificio silenzioso.
Per colpa della sottorapresentazione femminile nella ricerca medica oggi molti dosaggi farmacologici sono calibrati su corpi maschili anche per farmaci come antidepressivi e antidolorifici, i cui effetti non sono affatto così generalizzabili.
E se le donne sono sottorappresentate nella ricerca medica, le persone transgender, intersessuali e non binarie sono praticamente invisibili. Questa lacuna è particolarmente problematica considerando le specifiche necessità sanitarie di queste popolazioni, dalle terapie ormonali agli interventi chirurgici, fino alla gestione di eventuali condizioni mediche preesistenti in relazione ai percorsi di transizione. La ricerca scientifica contemporanea sta lentamente iniziando a colmare questo vuoto, ma il cammino verso una medicina veramente inclusiva è ancora lungo.
Quando la scienza rafforza i pregiudizi
I pregiudizi di genere nella medicina si manifestano anche nella formazione delle nuove generazioni di medici. Un’analisi recente sui libri di testo raccomandati dalle venti università più prestigiose di Europa, Stati Uniti e Canada rivela un dato emblematico: su 16.329 immagini usate per rappresentare il corpo umano, quello degli uomini è presente tre volte di più rispetto al corpo femminile. Anche nella rappresentazione visiva, dunque, il corpo maschile continua a essere proposto come standard, mentre quello femminile appare come eccezione o variante.
Il risultato di questo approccio riduttivo è davanti ai nostri occhi: donne che muoiono più spesso di infarto perché i loro sintomi sono diversi e meno riconosciuti, o dosaggi farmacologici calibrati su corpi maschili anche per farmaci come antidepressivi e antidolorifici, i cui effetti non sono affatto così generalizzabili come si crede. In pratica, le fisiologiche differenze sessuali, a lungo strumentalizzate prima dalla Chiesa e poi dalla scienza per legittimare e imporre funzioni sociali di grado inferiore, non possono però nemmeno essere cancellate, perché, sostiene Bohannon, esistono delle specificità che, se ignorate, rischiano di interpretare nuovamente il corpo femminile come una variazione di quello maschile, con effetti anche gravi per la salute.
Questa sistematica esclusione naturalmente esisteva anche tra i dotti medievali, per i quali la ginecologia era soprattutto un argomento scabroso su cui era meglio soprassedere. Nel Cinquecento il corpo femminile riacquisisce centralità, ma in un’ottica forviante: tutte le malattie delle donne vengono interpretate come malattie dell’utero, con la conseguenza di considerare patologiche anche manifestazioni che non lo sono, come le mestruazioni o la menopausa.
Per molto tempo il sapere medico ufficiale ha fornito una giustificazione “oggettiva” all’esclusione delle donne dalle istituzioni e dalla vita pubblica: non era la cultura patriarcale a relegarle in uno spazio limitato, ma la loro stessa natura “instabile” a renderle inadatte a compiti di responsabilità.
La letteratura medica che circolava ai tempi di Crezia portava alle estreme conseguenze l’antica teoria umorale: la donna, si sosteneva, era più esposta alle malattie in quanto “disequilibrata per natura”, mentre il maschio, “equilibrato per metabolismo e temperatura”, risultava più forte, longevo e capace di reagire positivamente alle crisi dell’organismo. Allo stesso modo l’infertilità era considerata una prerogativa esclusivamente femminile, causata da un’eccessiva vita sessuale, dal troppo lavoro o, al contrario, dalla troppa pigrizia. Queste teorie rappresentano un caso esemplare di come la scienza, con la sua pretesa neutralità, abbia storicamente consacrato pregiudizi culturali conferendo loro lo status di verità biologiche. Il sapere medico ufficiale forniva così una giustificazione “oggettiva” all’esclusione delle donne dalle istituzioni e dalla vita pubblica: non era la cultura patriarcale a relegarle in uno spazio limitato, ma la loro stessa natura “instabile” a renderle inadatte a compiti di responsabilità.
Gli attacchi all’artigianato minuto della professione non procedevano tanto da una verifica di inefficacia, quanto dal loro non essere omogenei agli orientamenti e ai canoni fissati da un’impalcatura teoretica autoritaria. Si creò così un clima di delazione che coinvolse anche la nostra Crezia: capro espiatorio per una condanna esemplare che non verrà mai eseguita, perché la Mariani morirà in cella – probabilmente a causa delle torture – pochi giorni prima della data fissata per l’esecuzione.
Quella che veniva presentata come una battaglia della scienza contro la superstizione si rivelò, in molti casi, un arretramento della conoscenza empirica a favore di teorie astratte e spesso inefficaci.
Va da sé che la persecuzione di questo tipo di figure comportò anche notevoli passi indietro dal punto di vista del sapere medico. Per esempio, andarono perduti la ricchezza dei mezzi soporiferi e anestetici, che fecero posto a trattamenti più brutali e meccanici. Quella che veniva presentata come una battaglia della scienza contro la superstizione si rivelò, in molti casi, un arretramento della conoscenza empirica a favore di teorie astratte e spesso inefficaci. Una storia di progresso che nascondeva, in realtà, una regressione.
Tra le conoscenze accantonate vi furono anche quelle che aiutavano (pur in modo rudimentale) il controllo delle nascite. Strategie che Bohannon indica come antichissime e fondamentali per la specie: “A ogni stadio della sua evoluzione”, scrive, “la ginecologia umana comprende anche molti tipi di controllo delle nascite, l’aborto e altri interventi contro la fertilità. La scelta riproduttiva femminile è di antica data”. Come dimostrano, per esempio, alcune tavolette sumere scritte in caratteri cuneiformi che offrivano consigli per aumentare o ridurre la fertilità. Lungi dall’essere una “invenzione moderna”, la scelta riproduttiva femminile è una strategia evolutiva antica. Come abbiamo visto, la gravidanza e il parto comportano rischi significativi; di conseguenza, avere troppe gravidanze troppo ravvicinate aumenta le complicanze e il tasso di mortalità. Per contro, la capacità di regolare la fertilità ha permesso alle popolazioni umane di adattarsi a diverse sfide ambientali e di migrare con successo in ambienti molto diversi tra loro.
Nel suo monumentale lavoro, che ha richiesto un decennio di studi, Bohannon cerca di fornire spiegazioni che intrecciano biologia e assetto sociale. Spiegazioni che a volte risultano incerte o soffrono di eccessivo determinismo, come accade spesso con i saggi di antropologia più ambiziosi. Ma la sua galleria di “Eve primordiali”, progenitrici esemplari che hanno plasmato l’evoluzione umana, è potente, e a tratti commovente nel suo permetterci di empatizzare con creature tanto distanti da noi, vissute qualche milione di anni fa, che con noi condividono comuni tratti ancestrali. In questo modo riesce nell’impresa di trasformare la preistoria in un racconto popolato di personaggi a cui possiamo affezionarci, rendendo tangibile quella che altrimenti resterebbe una fredda successione di specie e mutazioni genetiche.
La storia dell’evoluzione dimenticata del corpo femminile e quella della persecuzione storica delle guaritrici sono in fondo la stessa: quella di una conoscenza sommersa che continua a riemergere nonostante i tentativi di cancellarla.
In contrasto con la narrazione tradizionale dell’evoluzione umana – incentrata quasi esclusivamente su maschi cacciatori e sulla competizione per le risorse – Bohannon ci presenta figure come Morgie, vissuta nelle paludi umide della fine del Triassico: una sorta di incrocio tra una donnola e un topo, un animale che deponeva le uova e che fu probabilmente la prima creatura ad allattare. O Donna, vissuta tra 67 e 63 milioni di anni fa, una specie di donnola-scoiattolo, antenata dei mammiferi con un utero simile al nostro. “Non abbiamo dunque una sola madre”, scrive Bohannon, “ne abbiamo molte. E ognuna di queste Eve ha un suo Eden personale”.
La storia dell’evoluzione dimenticata del corpo femminile e quella della persecuzione storica delle guaritrici sono in fondo la stessa: quella di una conoscenza sommersa che continua a riemergere nonostante i tentativi di cancellarla. Dietro la persecuzione delle guaritrici e la delegittimazione del loro sapere empirico si nascondeva qualcosa di più profondo della semplice competizione professionale: il tentativo di disciplinare non solo i corpi, ma anche il modo in cui questi corpi venivano compresi e raccontati.
Non è un caso che gli stessi secoli che videro l’ascesa della medicina accademica e il declino delle guaritrici popolari coincidano con una sempre più rigida codificazione dei ruoli di genere. Il caso di Crezia Mariani si inserisce in questo complesso intreccio di fattori: la sua condanna non fu solo il risultato di una specifica accusa di stregoneria, ma parte di un più ampio processo di ridefinizione dei confini della conoscenza legittima. In gioco non c’era solo la competizione tra sistemi terapeutici diversi, ma anche il controllo su chi potesse produrre e trasmettere il sapere sul corpo, soprattutto quello femminile.
Al di là delle specifiche tesi biologiche, se qualcosa possiamo imparare dallo studio della storia evolutiva femminile, come dalla storia di Crezia e delle antiche guaritrici, è che la conoscenza è sempre situata, sempre parziale. E che recuperare le narrazioni sommerse non è un esercizio di correttezza politica, ma una necessità epistemologica per comprendere più pienamente chi siamo e come siamo diventati tali.