Tratto da Il Post del 15 novembre 2024
Quella dei nati
negli anni Ottanta e Novanta si è spostata a destra meno della successiva,
negli Stati Uniti, ma secondo dati da prendere con cautela.
Una ventiduenne sostenitrice del senatore
statunitense ex candidato alle primarie dei Democratici Bernie Sanders
a un
comizio a Santa Barbara, California, il 28 maggio 2016 (REUTERS/Lucy Nicholson)
In un suo saggio
del 1962, intitolato Cosa significa essere conservatori, il
politologo e filosofo inglese Michael Oakeshott scrisse che una caratteristica fondamentale dell’essere conservatori è «la
propensione a usare e a godere ciò che è disponibile piuttosto che desiderare e
cercare qualcosa di diverso». Attribuì questa inclinazione soprattutto alle
persone meno giovani, confermando il senso di un citato aforisma anglosassone: «Se non sei progressista a 25 anni, non hai
cuore. Se non sei conservatore a 35 anni, non hai cervello».
Questo luogo
comune sulla relazione tra l’età e l’orientamento politico delle persone,
secondo alcune analisi delle tendenze del voto negli Stati Uniti e nel Regno
Unito negli ultimi anni, sarebbe però contraddetto dalle scelte di una precisa
fascia della popolazione: i millennial (la generazione dei nati tra il 1981 e
il 1996, anche detta “generazione Y”). Dopo le elezioni presidenziali
statunitensi diversi utenti sui social hanno condiviso un grafico tratto da un’analisi pubblicata a dicembre del 2022 dal Financial Times, secondo
cui il sostegno ai partiti conservatori da parte dei millennial è notevolmente
più basso in confronto a quello espresso dalle generazioni precedenti nei
decenni passati, quando avevano la loro età.
Se davvero le
persone diventano più conservatrici invecchiando, scrisse il Financial
Times, allora anche i millennial a 35 anni dovrebbero mostrare – come le
generazioni che li hanno preceduti – un’inclinazione a votare per partiti
conservatori più bassa di circa cinque punti percentuali rispetto alla media nazionale,
e dovrebbero anche loro diventare più conservatori con il passare del tempo.
Invece la loro inclinazione a esserlo è molto più bassa della media nazionale:
non di cinque ma di circa 15 punti percentuali. Sia nel Regno Unito che negli
Stati Uniti i millennial «sono di gran lunga i trentacinquenni meno
conservatori nella storia registrata».
L’analisi del Financial Times è stata ripresa da alcuni utenti sui social negli Stati Uniti dopo la vittoria del candidato Repubblicano Donald Trump alle elezioni presidenziali, sostenuto tra gli altri da una cospicua parte di elettorato giovane. Secondo i dati di alcuni exit poll diffusi da NBC, Trump è stato votato da persone con meno di 30 anni (e quindi appartenenti alla generazione Z, quella successiva ai millennial) più di qualsiasi altro candidato repubblicano dal 2008.
Sebbene i dati
di questo tipo presentino un ampio margine di errore, altri exit poll diffusi
da CNN hanno mostrato anche che la perdita di consensi per i Democratici è stata più
significativa tra gli elettori e le elettrici della generazione Z (nata tra il
1997 e il 2012) che tra i millennial.
In pratica, le
analisi dei risultati delle presidenziali negli Stati Uniti sono state
utilizzate da diverse persone per rafforzare una certa reputazione dei
millennial come generazione irriducibilmente progressista, o se non altro meno
incline a votare per i partiti conservatori, anche rispetto alla generazione
successiva.
L’ipotesi proposta dal Financial Times nel 2022 per spiegare la riluttanza dei millennial a votare per i conservatori man mano che invecchiano è che abbiano sviluppato valori diversi rispetto alle generazioni precedenti, non condivisi dai partiti conservatori, e siano stati influenzati da esperienze vissute a una certa età unicamente da loro. John Burn-Murdoch, autore dell’analisi, citò un sondaggio condotto negli Stati Uniti secondo cui i millennial, avendo raggiunto in buona parte la maturità politica dopo la crisi finanziaria del 2008, erano più favorevoli a una redistribuzione delle ricchezze rispetto alle generazioni precedenti.
Citò poi altri fattori che potrebbero avere avuto un impatto sull’orientamento politico dei millennial, rendendo per loro più difficile avere esperienze condivise con le generazioni precedenti. La proprietà di una casa, per esempio, è il tipo di esperienza che avrebbe potuto avvicinarli a valori tipicamente difesi dai partiti conservatori, ma sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti è diventata più rara per loro rispetto a quanto lo fosse per le generazioni precedenti a quella stessa età. Un altro possibile fattore, citato anche in altre analisi, è che in entrambi i paesi i sistemi di assistenza all’infanzia si sono dimostrati carenti o poco accessibili.
Le analisi come
quella del Financial Times si concentrano sui cosiddetti
«effetti di coorte», cioè i cambiamenti riscontrati in un insieme di individui
che all’interno di una stessa popolazione predefinita sono accomunati da
esperienze simili in un determinato periodo di tempo. Di solito, proprio perché
cercano di individuare caratteristiche comuni in un gruppo molto eterogeneo,
generano spesso risultati incerti che vanno presi in considerazione con grande
cautela. Possono anche facilmente essere contraddetti da altre analisi dello
stesso tipo.
I risultati delle presidenziali statunitensi, per esempio, confermano solo in parte l’idea che i millennial siano più progressisti di altre generazioni. Gli stessi dati degli exit poll di CNN, che mostrano una perdita di consensi dei Democratici più estesa nella generazione Z che tra i millennial, indicano anche che in termini assoluti la generazione Z è comunque la più incline a votare per i Democratici rispetto a tutte le altre, sebbene lo sia meno di quanto lo fosse alle precedenti elezioni.
Inoltre, secondo gli stessi dati, non la generazione Z e nemmeno i millennial bensì i baby boomers (i nati tra il 1946 e il 1964) sono l’unico gruppo generazionale in cui i Democratici a queste elezioni non hanno ridotto ma aumentato, seppur di poco, i loro consensi. E anche questo dovrebbe teoricamente contraddire il luogo comune secondo cui invecchiando si diventa più conservatori.
L’analista
politico Nate Cohn, in un articolo pubblicato a giugno del 2023 sul New
York Times, confutò l’ipotesi sostenuta dal Financial Times e da altre
analisi a sostegno dell’idea che i millennial fossero più progressisti. Scrisse
che il recente spostamento a destra delle giovani generazioni statunitensi
riscontrato nei sondaggi riguardava in generale ogni coorte di elettrici ed
elettori sotto i 50 anni: le stesse che 15 anni prima avevano molto contribuito
alla vittoria del candidato Democratico Barack Obama.
Cohn spiegò che
le tendenze variano a seconda che si prenda in considerazione il comportamento
di uno stesso insieme di individui nel tempo – i nati in un certo anno, per
esempio – o quello di un’intera generazione con una composizione mutevole. E
questo perché il gruppo di millennial considerato nel 2008, per esempio, sarà
inevitabilmente diverso da quello del 2016: il secondo gruppo includerà
tantissimi millennial che alle elezioni precedenti non potevano ancora votare.
Il che rende i risultati delle analisi delle tendenze generazionali molto
difficili da interpretare e spiegare.
I risultati sono ancora più eterogenei e ambigui estendendo ad altri paesi l’analisi delle correlazioni tra l’età e l’orientamento politico dell’elettorato. Alle elezioni europee di giugno del 2024, secondo diversi sondaggi, i partiti progressisti ottennero ottimi risultati nel gruppo di elettori ed elettrici più giovani in Italia, mentre in Germania una parte rilevante di quel gruppo si spostò verso l’estrema destra.
Commentando
l’analisi pubblicata dal Financial Times il ricercatore
Nicholas Beauchamp, professore di scienze politiche alla Northeastern
University a Boston, disse che non è possibile sapere con certezza quale influenza abbia sulle
preferenze di voto unicamente il fattore anagrafico: perché è difficile
isolarlo e scorporarlo dall’influenza di altri fattori. Del resto, nella sua
analisi, lo stesso Burn-Murdoch aveva citato come possibile fattore influente
sull’orientamento progressista dei millennial del Regno Unito la loro reazione
avversa agli effetti della Brexit: un fattore evidentemente valido solo per
quel paese.
Secondo
Beauchamp il fattore anagrafico ha un valore predittivo piuttosto piccolo se
confrontato con altri indicatori come il reddito, l’istruzione e il gruppo
etnico. «Una cosa è seguire i cambiamenti di atteggiamento nei ventenni man
mano che invecchiano», disse, e «un’altra è cercare di capire cosa possa significare
passare da bianchi a neri, o da poveri a ricchi, o dall’avere un’istruzione
universitaria al non averla».
L’analisi del Financial Times è stata ripresa da alcuni utenti sui social negli Stati Uniti dopo la vittoria del candidato Repubblicano Donald Trump alle elezioni presidenziali, sostenuto tra gli altri da una cospicua parte di elettorato giovane. Secondo i dati di alcuni exit poll diffusi da NBC, Trump è stato votato da persone con meno di 30 anni (e quindi appartenenti alla generazione Z, quella successiva ai millennial) più di qualsiasi altro candidato repubblicano dal 2008.
L’ipotesi proposta dal Financial Times nel 2022 per spiegare la riluttanza dei millennial a votare per i conservatori man mano che invecchiano è che abbiano sviluppato valori diversi rispetto alle generazioni precedenti, non condivisi dai partiti conservatori, e siano stati influenzati da esperienze vissute a una certa età unicamente da loro. John Burn-Murdoch, autore dell’analisi, citò un sondaggio condotto negli Stati Uniti secondo cui i millennial, avendo raggiunto in buona parte la maturità politica dopo la crisi finanziaria del 2008, erano più favorevoli a una redistribuzione delle ricchezze rispetto alle generazioni precedenti.
Citò poi altri fattori che potrebbero avere avuto un impatto sull’orientamento politico dei millennial, rendendo per loro più difficile avere esperienze condivise con le generazioni precedenti. La proprietà di una casa, per esempio, è il tipo di esperienza che avrebbe potuto avvicinarli a valori tipicamente difesi dai partiti conservatori, ma sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti è diventata più rara per loro rispetto a quanto lo fosse per le generazioni precedenti a quella stessa età. Un altro possibile fattore, citato anche in altre analisi, è che in entrambi i paesi i sistemi di assistenza all’infanzia si sono dimostrati carenti o poco accessibili.
I risultati delle presidenziali statunitensi, per esempio, confermano solo in parte l’idea che i millennial siano più progressisti di altre generazioni. Gli stessi dati degli exit poll di CNN, che mostrano una perdita di consensi dei Democratici più estesa nella generazione Z che tra i millennial, indicano anche che in termini assoluti la generazione Z è comunque la più incline a votare per i Democratici rispetto a tutte le altre, sebbene lo sia meno di quanto lo fosse alle precedenti elezioni.
Inoltre, secondo gli stessi dati, non la generazione Z e nemmeno i millennial bensì i baby boomers (i nati tra il 1946 e il 1964) sono l’unico gruppo generazionale in cui i Democratici a queste elezioni non hanno ridotto ma aumentato, seppur di poco, i loro consensi. E anche questo dovrebbe teoricamente contraddire il luogo comune secondo cui invecchiando si diventa più conservatori.
I risultati sono ancora più eterogenei e ambigui estendendo ad altri paesi l’analisi delle correlazioni tra l’età e l’orientamento politico dell’elettorato. Alle elezioni europee di giugno del 2024, secondo diversi sondaggi, i partiti progressisti ottennero ottimi risultati nel gruppo di elettori ed elettrici più giovani in Italia, mentre in Germania una parte rilevante di quel gruppo si spostò verso l’estrema destra.