Tratto da Lucy sulla Cultura giugno 2025
"Su noi
donne musulmane ci si sofferma solo sul velo, su un fatto esteriore, mai su
quello che c'è dietro. Io ho deciso di mettere il velo a 21 anni perché ne
sentivo l'esigenza, non mi sentivo giusta davanti ad Allah. Ho deciso - e ci
tengo a sottolinearlo - perché nell'Islam non c'è costrizione. Nell'Islam
abbiamo un rapporto diretto con Dio". Così Amina Natascia Al Zeer,
presidente e co-fondatrice del progetto Aisha di Milano, ricorda il momento in
cui ha deciso di indossare il velo. "Nell'Ottocento quando si pensava alla
donna musulmana si pensava alle odalische, agli harem . Oggi
invece la donna musulmana viene vista solo come oppressa, e c'è una volontà di
mostrarla come tale. Credo che in questa società ci sia molta superficialità,
lo vedo da come la gente mi giudica per come mi vesto. Io porto il velo per
identificarmi. Non dobbiamo confondere la cultura con l'Islam".
Nata a Modena da madre italiana e padre palestinese, Amina fonda nel 2016 il progetto Aisha, nato come attività socioculturale all'interno dell'allora coordinamento islamico CAIM, diventata associazione nel 2017. "Eravamo un gruppo di donne italiane musulmane. Il progetto è nato per contrastare la violenza e le discriminazioni, e per opporci alla pratica della mutilazione dei genitali femminili. Ci eravamo rese conto che c'erano delle problematiche nella comunità musulmana e uno dei nostri obiettivi era quello di contrastare le interpretazioni fuorvianti del Corano”.
Nata a Modena da madre italiana e padre palestinese, Amina fonda nel 2016 il progetto Aisha, nato come attività socioculturale all'interno dell'allora coordinamento islamico CAIM, diventata associazione nel 2017. "Eravamo un gruppo di donne italiane musulmane. Il progetto è nato per contrastare la violenza e le discriminazioni, e per opporci alla pratica della mutilazione dei genitali femminili. Ci eravamo rese conto che c'erano delle problematiche nella comunità musulmana e uno dei nostri obiettivi era quello di contrastare le interpretazioni fuorvianti del Corano”.
Lo stato di subordinazione delle donne nel Medio Oriente comincia con la nascita delle società urbane e affonda le proprie radici in teorie androcentriche, secondo le quali l'inferiorità sociale femminile deriva da innati fattori biologici. In alcune civiltà, come in quella araba preislamica, le donne non godevano di alcun diritto: la nascita di una figlia femmina era considerata una disgrazia, per cui era legittimato l'infanticidio femminile. In Oltre il velo. La donna nell'Islam da Maometto agli ayatollah (1995) la scrittrice e docente Gerda Lerner spiega come la crescita demografica e la creazione di forza lavoro portarono alla progressiva sottomissione delle donne. Il loro valore si basava sulla loro capacità riproduttiva, la prima “proprietà” contesa tra le tribù.
Con la nascita di Maometto, nel 570 dC, cominciò un periodo di profondi cambiamenti religiosi: alcune consuetudini furono modificate, altre vennero assimilate dalla religione stessa. "Maometto introdusse un limite al numero delle mogli che era possibile sposare, e altri limiti alla poligamia. L'uomo doveva rispettare il criterio di equità di trattamento tra tutte le mogli e aveva la possibilità di sposare liberamente più di una donna in caso di madri con bambini orfani, che sarebbero rimasti senza padre, e quindi senza protezione", racconta Miriam Abu Salem, professoressa di Diritto e religione presso l'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli".
Le leggi che regolano il matrimonio e la condotta delle donne nelle società islamiche derivano da un'interpretazione dei versetti del Corano rivelati al profeta tra il 9 e il 24 settembre 622, quando Maometto ei suoi seguaci lascianorono la Mecca per trasferirsi a Yathrib , la futura Medina. Questa migrazione, l' Ègira , segnò l'inizio dell'era musulmana. L'interpretazione di questi versetti venne successivamente raccolta nella Sunna, il libro che riporta detti e fatti del profeta, gli hadith , che hanno valore normativo. La comunità musulmana vi fa tutt'oggi riferimento per valutare la propria condotta. Si riteneva inoltre che Maometto fosse dotato di hikma , la virtù, e in situazioni per le quali il Profeta non aveva lasciato alcuna regola morale scritta, gli hadith identificavano cosa fosse bene e cosa male, fornendo di fatto una linea guida per l'agire quotidiano. Questi racconti vennero tramandati oralmente da una catena di trasmettitori più o meno affidabili. I primi – i cosiddetti “trasmettitori forti” – erano persone vissute nello stesso periodo di Maometto o che avevano avuto contatti diretti con il profeta; i secondi, i “trasmettitori deboli” – meno affidabili – erano persone lontane da lui, o considerati inattendibili per il tipo di vita da loro condotta: erano ladri, ubriaconi, imbroglioni. Per valutare la veridicità degli hadith vennero quindi introdotti due criteri: Matn , il grado di conformità alle scritture coraniche, e Silsila , la valutazione dell'affidabilità dei trasmettitori.
Fino a che rimase in vita, Maometto fu il solo e unico giudice della comunità legittimato a interpretare la rivelazione divina. Alla sua morte, nel 632, la responsabilità dell'passò ai califfi, i sovrani musulmani che gli successoro, e che a loro volta nominarono dei giudici. Questi ultimi tendevano però ad applicare leggi regionali e locali in base alla propria interpretazione del Corano, dando origine a profonde disparità interpretative. "L'interpretazione per secoli è stata in mano agli uomini - commenta Abu Salem. Così che versetti ambigui vennero interpretati a loro favore, mentre quelli che sancivano un'uguaglianza tra i sessi non vennero considerati. Le conquiste ottenute dalle donne fino ad allora vennero smantellate dalle pratiche sociali, che le modellarono attraverso un processo di inculturazione, con cui le religioni si insediarono nei nuovi territori". I diritti delle donne furono il risultato di una negoziazione tra principi religiosi – che sancivano un'uguaglianza sostanziale –, e pratiche culturali e sociali preesistenti, ancora molto legati a un modello patriarcale. Abu Salem cita il racconto di Adamo ed Eva, che nel Corano sono ugualmente responsabili di aver trasgredito al volere divino. Con la diffusione della religione e il successivo incontro con altre culture nella Sunna ritornerà il racconto di Eva tentatrice.
Anche la questione del velo femminile affonda le radici nell'interpretazione delle scritture. Il versetto 33, 53 del Corano recita "O credenti, non entrate nelle case del Profeta, a meno che non siate invitati per un pasto, o dopo aver atteso che il pasto sia pronto. Quando poi siete invitati, entrate: e dopo aver mangiato andatevene, senza cercare di rimanere a chiacchierare familiaremente. Ciò è offensivo per il Profeta, ma ha vergogna [di dirlo] voi, mentre Allah non ha vergogna della verità. Quando chiedete ad esse [le sue spose] un qualche oggetto, chiedetelo da dietro una tenda ( hijab ): ciò è più puro per i vostri cuori e per i loro. Non dovete mai offendere il profeta e neppure sposare una delle sue mogli dopo di lui: sarebbe un'ignominia nei confronti di Allah”.
"Nel Corano il primo riferimento al velo è una cortina - commenta Abu Salem. La prima rivelazione riguarda esclusivamente le mogli del profeta, tant'è che giravano integralmente velate. Questo perché nel Corano le donne del profeta non erano uguali a nessun'altra donna: 'se voi fate del bene avrete una ricompensa doppia, se voi fate del male avrete un castigo raddoppiato'. Nell'interpretazione delle scritture questi precetti vennero generalizzati, e applicati a tutte le donne". Lo stare dietro una tenda, che si tradusse nell'indossare il velo, divenne uno strumento di separazione di ceto sociale. Le schiave e le prostitute, per esempio, non avevano il diritto di indossarlo, e quando lo facevano erano punite.
"Alcune disposizioni erano valide solo per le mogli del profeta - continua Abu Salem. Questa norma in realtà fu dettata come norma di comportamento perché a un certo punto Maometto divenne anche capo politico, e gli uomini entravano e uscivano da casa sua. Questo versetto detta delle regole relative alla casa del profeta, come 'entrate solo siete stati invitati, e dopo aver mangiato andate via'. E aggiunge: 'Se dovete chiedere qualcosa alle sue spose, fatelo da dietro una tenda', chiamata nel Corano hijab , quello che adesso intendiamo come velo e che per estensione ha finito per indicare il velo in generale delle donne”.
Abu Salem precisa che all'interno del Corano non c'è un versetto che obbliga le donne a indossare il velo ma solo solo una norma di comportamento sulla modestia che riguarda prima gli uomini e poi le donne, e che prescrive di “coprire le parti belle”. Più avanti venne introdotto il velo perché in Arabia le donne già utilizzavano un copricapo, il khimar , che annodavano intorno alla testa, con le due estremità annodate dietro al collo. Secondo alcuni commentatori, il Corano richiederebbe di coprirsi perché questo indumento lasciava scoperto il seno, e prescriveva quindi di sciogliere il nodo di tessuto che indossavano.
"Il problema è l'interpretazione dei testi e la mancanza di un'autorità centrale - continua Abu Salem. L'Islam nasce plurale: è sempre stato caratterizzato da diverse anime. Non avere un'autorità centrale può portare a sviluppare visioni radicalizzate, per cui si sono diffuse interpretazioni diverse da quella che consente alla donna di agire nello spazio pubblico liberamente, imponendo talvolta l'uso di indumenti drastici, come il burqa . Il Corano, invece, dice che nel momento della preghiera il volto, le mani ei piedi devono essere scoperti".
"Noi
partiamo sempre dallo stereotipo della donna musulmana sottomessa - aggiunge. E
se per una volta partissimo dal fatto che la donna è libera di
scegliere?". Dopo l'11 settembre molte donne americane musulmane –
praticanti o solo credenti – iniziarono a indossare il velo come forma di
appropriazione dello spazio pubblico, e come strumento di lotta culturale.
"Lo facevano per dire 'Io sono musulmana, io esco, io non sono
terrorista'. Tu mi vedi? Quando giro nel supermercato con il velo e dici
'Questa donna è musulmana, ma non è una terrorista'", chiude Abu Salem.
"Quando le
donne dicono che portano il velo per loro scelta nessuno crede loro. Quando ho
iniziato a indossarlo mi sono sentita più libera, perché potevo vivere a pieno
la mia religione", racconta Chiara Sebastiani, ex docente di Governo
locale e politiche delle città presso la facoltà di Scienze Politiche
dell'Università di Bologna. Convertita all'età di 60 anni, si avvicina alla
religione islamica dopo un lungo percorso, iniziato da un'educazione cattolica,
e passato poi per l'agnosticismo. "Quando ho aderito all'Islam non ho
subito indossato l' hijab . All'epoca non pensavo che il velo
fosse un obbligo delle donne musulmane. Mi ricordo di essere entrato in
contatto con un Imam perché stavo studiando l'arabo. Ero piuttosto convinta che
non fosse una questione obbligatoria". Leggendo il Corano, Chiara si
convince che le scritture prescrivessero alle donne di portare il velo.
"Un giorno mentre riflettevo e pregavo ho avuto un'ispirazione: stavo
pensando alla necessità e al desiderio di testimoniare l'Islam, e di non
tenerlo solo per noi stessi. Ho pensato che se volevo testimoniare la religione
dovevo mettermi il velo. Sentivo che era una cosa importante e giusta".
Chiara
Sebastiani racconta di come questa scelta ha cambiato la sua vita quotidiana,
soprattutto nelle relazioni con gli altri. "Quando ho messo il velo la
maggior parte delle persone che lavoravano con me ha fatto come se niente
fosse. I più ostili sono stati i miei colleghi cattolici, con cui avevo anche
dei rapporti di amicizia. Alcuni mi hanno detto che non mi avevano
riconosciuto, altri hanno smesso di parlarmi". Menziona anche il rapporto
con la figlia, che nel corso degli anni è cambiato. "Lei è giornalista di
moda. L'unico consiglio che mi ha dato è stato 'Mamma ora che indossi il velo,
portalo in un modo elegante'. Aveva ragione: il velo della donna è un modo di
testimoniare l'Islam, ed è importante prendersi cura del modo in cui lo si fa.
Aveva preso bene questa mia decisione, ma ora alcuni nodi stanno venendo al
pettine".
Per molte
correnti del femminismo bianco il velo è considerato un simbolo e un indicatore
di sottomissione della donna. Sebastiani dice che è un punto di vista che si
basa su una serie di incomprensioni, la cui origine è fondamentalmente
socio-politica, cioè coloniale. "Come mai i francesi si sono tanto
ossessionati sulla questione del velo femminile? Perché hanno fatto di tutto
per convincere le donne a togliersi il velo? Perché il velo? Parlare di una
questione identitaria è riduttiva, è anche una questione simbolica: una cosa
che unisce ciò che si vede e ciò che non si vede. Un simbolo religioso, un
legame tra essere umano e Dio".
Per alcuni, il velo
musulmano è sintomo di una totale sottomissione della donna all'uomo, e una
rinuncia della propria vita in nome di un credo religioso, un simbolo di una
società arretrata. Per altri, è un simbolo identificativo. In Francia nel 1989
due studentesse musulmane francesi di Creil vennero sospese per rifiutate di
togliere l'hijab in classe. Eugène Chenière, il presidente della scuola
coinvolto nell'affaire du voile sostenne di aver agito “in
nome della laicità della costituzione francese”. Tra il 1994 e il 2003 in
Francia furono circa 100 le studentesse sospese o espulse dalle loro scuole per
aver indossato il velo. Nel marzo 2004, a seguito di un ampio e sentito
dibattito a livello politico e mediatico, il senato francese approvò un
progetto di legge governativo sull'applicazione del principio costituzionale di
laicità nelle scuole pubbliche. La legge n. 228 del 15 marzo 2004 vietava negli
istituti scolastici (università esclusa) abbigliamenti o simboli “attraverso i
quali gli alunni manifestano apparentemente un'appartenenza religiosa”.
Cinque anni più
tardi, il 9 giugno 2009, venne presentata all' Assemblée Nationale una
proposta avanzata dal deputato sindaco di Venissieux (Lione) André Gerin per
istituire una commissione d'inchiesta sulla pratica di indossare il burqa o
il niqab sul territorio francese, che venne approvata l'anno
successivo, con l'articolo 3 della legge dell'11 ottobre 2010: “La legge vieta
e sanziona il fatto di indossare un abito, qualunque sia la forma, che abbia
l'effetto di nascondere il volto e di rendere quindi impossibile
l'identificazione della persona”.
In Belgio nel
2011 venne introdotta una legge che vietava di circolare in uno spazio pubblico
col volto coperto o mascherato – completamente o in parte – con un capo di
abbigliamento che non rendeva le persone identificabili. "Si tratta di una
decisione il cui valore è quasi puramente simbolico - scriveva il giornalista
Andrea Bonanni in un articolo pubblicato da la Repubblica nel
2011. L'uso del velo integrale è poco diffuso in Belgio, dove la comunità
musulmana è principalmente di origine turca o magrebina. Inoltre in quasi tutti
i comuni sono già in vigore regolamenti di polizia che vietano, per motivi di
ordine pubblico, di circolare per strada con il volto coperto".
La situazione in
Italia, invece, è ambigua: non esiste una legge statale che vieti
esplicitamente di indossare in pubblico il niqab, cioè quel
tipo di velo che lascia scoperti solo gli occhi. Si fa riferimento talvolta
alla legge 152 del '75, la legge anti terrorismo che vieta di usare “caschi
protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficile il
riconoscimento della persona, salvo giustificato motivo”. “Erano gli Anni di
piombo, e non era il momento storico per pensare alla questione del velo,
perché non si era ancora verificato quel fenomeno”, commenta Stella Coglievina,
professoressa associata di Diritto e religione presso l'Università degli Studi
dell'Insubria. La circolare n. 300 del 2000 del Ministero dell'Interno parla
della possibilità di indossare il velo. “Il turbante, il chador o
anche il velo, come nel caso delle religiose, è parte integrante degli
indumenti abituali e concorrono, nel loro insieme, ad identificare chi li
indossa, purché mantenga il volto scoperto”. Aggiunge che tutti gli spazi
europei che hanno legiferato in merito al divieto del velo integrale in luoghi
pubblici giocano sul discorso che un individuo non deve essere soltanto
identificabile, ma anche riconoscibile. "Riconoscibile significa girare
con il volto scoperto, e chiunque mi veda mi può riconoscere. Può essere
un'esigenza di alcuni luoghi pubblici come la scuola, e anche di questo si è
ampiamente discusso in Europa. Essere identificabile, invece, è consentire
l'identificazione della persona mostrando il volto ei documenti: un discorso che
gioca sulla sicurezza, ma non necessariamente sulla riconoscibilità in ogni
momento e in ogni luogo".
In un articolo
del 2015 pubblicato dal The New York Times intitolato
"Muslim Women on the sail" la giornalista Hanna Ingber
ricordava come alcuni esperti hanno criticato il dibattito di portare il velo:
"Questi sforzi, piuttosto che promuovere un senso di inclusione secolare
hanno incoraggiato l'aumento delle discriminazioni nei confronti dei musulmani
in generale, e delle donne in particolare. Questo ha alimentato tra le persone
musulmane in Europa un senso di razzismo statale. Il rilevamento, dicono alcuni
critici, gioca anche un ruolo chiave per gli islamisti, che sono desiderosi di
creare una frattura ancora più profonda tra musulmani e non-musulmani, in
Occidente”.
In un'intervista in
occasione della mostra Body of Evidence , recentemente esposta
al PAC di Milano, che racconta la storia e il presente dell'Iran attraverso una
prospettiva femminile, l'artista Shirin Neshat dice che nel suo lavoro c'è sempre
una dualità: "Cosa succede all'interno di te e cosa succede all'esterno.
Nel mondo esterno c'è guerra, violenza, dittatura, oppressione, violenza,
paura. Nel mondo interiore c'è speranza, ci sono le emozioni, e molte altre
cose che sono universali Penso che ciò che vedete sia l'esterno della vita
della persona che decide e definisce le sue vite e ciò che succede
all'interno”. Le immagini della mostra – alcune delle quali riportate in questo
articolo – hanno come protagonista il corpo, e in particolare il corpo delle
donne: un centro attorno a cui si sono giocati – e tutt'oggi si gioca – i
destini dell'umanità.