Contro la trappola del profetismo. Per una fantascienza che guarda negli occhi il presente.
tratto da Wired
del 19 luglio 2025
Cosa c’è di più rassicurante
del trovare conferme alle nostre paure nelle storie del passato? Un
apparente paradosso, spiegabile con il bisogno di avere ragione che
caratterizza la civiltà occidentale. Una conferenza sui robot si chiude
citando Blade Runner. Un dibattito post-Roe v. Wade si apre con un
riferimento a Il racconto
dell'ancella. Non
c’è convegno sull’AI che non usi Terminator come
monito. L’effetto è galvanizzante: lo scrittore come profeta, la narrativa come
predizione. Come se il romanzo servisse a indovinare la prossima catastrofe e
la nostra intelligenza a confermarla, senza speranza.
Ma è una trappola. Un dispositivo di
conferma. E, come tutti i dispositivi di conferma, ci fa perdere qualcosa: la
complessità del presente, la fatica dell’interpretazione. Dovremmo citare
Avatar più che Terminator. Philip K. Dick non parlava di noi. Margaret Atwood
non scriveva del nostro presente. Li leggiamo come veggenti e ci
dimentichiamo che sono stati, prima di tutto, narratori straordinari del loro
tempo.
La fantascienza non anticipa: svela. Non predice: scava. È un genere diagnostico, non divinatorio. La sua forza non sta nel prevedere cosa accadrà, ma nel mostrarci quello che già accade, sotto traccia, nel cuore opaco del nostro tempo.
Diffidare della linearità
Nel suo lavoro accademico e narrativo, Nicoletta Vallorani ci ha insegnato a diffidare delle letture teleologiche della science fiction. In una lezione densa e precisa ci ricorda che la distopia non è una macchina del tempo. È una lente obliqua. Serve a rileggere il presente, a stanarne le scorie, a decifrare i suoi non detti. Scrivere e leggere fantascienza diventa allora un atto critico, situato, politico. Non è questione di predizione, ma di precisione.
Vallorani ci invita a spostare l’attenzione dalla domanda “Cosa accadrà?” alla più scomoda “Cosa ci sta già accadendo e non vogliamo vedere?”. L’effetto è liberatorio: ci libera dalla nostalgia del futuro e ci restituisce alla responsabilità del presente.
La fantascienza non anticipa: svela. Non predice: scava. È un genere diagnostico, non divinatorio. La sua forza non sta nel prevedere cosa accadrà, ma nel mostrarci quello che già accade, sotto traccia, nel cuore opaco del nostro tempo.
Diffidare della linearità
Nel suo lavoro accademico e narrativo, Nicoletta Vallorani ci ha insegnato a diffidare delle letture teleologiche della science fiction. In una lezione densa e precisa ci ricorda che la distopia non è una macchina del tempo. È una lente obliqua. Serve a rileggere il presente, a stanarne le scorie, a decifrare i suoi non detti. Scrivere e leggere fantascienza diventa allora un atto critico, situato, politico. Non è questione di predizione, ma di precisione.
Vallorani ci invita a spostare l’attenzione dalla domanda “Cosa accadrà?” alla più scomoda “Cosa ci sta già accadendo e non vogliamo vedere?”. L’effetto è liberatorio: ci libera dalla nostalgia del futuro e ci restituisce alla responsabilità del presente.
Quando la profezia diventa una gabbia
Attribuire poteri divinatori agli scrittori del passato ha conseguenze. Riduce la fantascienza a una scienza dell’oracolo. Trasforma romanzi politici, psicologici, esistenziali, in manuali di futurologia pop. E, soprattutto, ci impedisce di leggere davvero la science fiction contemporanea, perché siamo troppo impegnati a cercare conferme nel passato per riconoscere le voci del presente.
La nostalgia visionaria funziona come una coperta che non lascia traspirare: scalda, ma ottunde. Se tutto è già stato previsto, non resta che attendere che la profezia si (auto)avveri. Ma la letteratura non serve ad attendere: serve a pensare, a lottare, a cambiare direzione.
Atwood, Reagan e il patriarcato religioso
Nel 1985, Margaret Atwood pubblica Il racconto dell'ancella. Non è una visione. È una reazione. Siamo nell’america reaganiana: il fondamentalismo cristiano si fa politica, il corpo femminile torna campo di battaglia, il femminismo è sotto attacco. Il romanzo nasce da un’allerta precisa: la costruzione di un regime teocratico e misogino che si fonda sulla riscrittura dei testi sacri. Atwood non inventa nulla: riassembla, rilancia, spinge alle estreme conseguenze ciò che già stava accadendo.
Leggere oggi Il racconto dell'ancella come se fosse una metafora del trumpismo è comodo, ma fuorviante. Ci fa perdere il lavoro archeologico che l’autrice compie sulla lingua, sulla costruzione del trauma, sull’invenzione dei miti fondativi. Gilead non è futuro: è passato condensato. La sua potenza non è predittiva, ma analitica.
Philip K. Dick e la schizofrenia americana
Philip Dick non è mai stato un profeta. È stato, semmai, un narratore alterato in sintonia con la psicosi del suo tempo. Gli anni ’70 americani sono schizofrenici: paranoia da Guerra Fredda, LSD e mania di controllo, Maccartismo e cospirazioni, sfiducia nei media e nelle istituzioni. Dick assorbe tutto e restituisce mondi sfaldati, in cui la realtà vacilla, il tempo si inceppa e l’identità si sdoppia.
Che oggi quei mondi somiglino al nostro non è una previsione, è che erano già così, solo invisibili. Dick non ha “anticipato” la realtà aumentata: ha vissuto in un paese in cui quella realtà era già troppo presente. Il suo talento non è l’oracolo, ma l’eco. I suoi romanzi risuonano perché sintonizzati con la follia sistemica. Ubik, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Ma gli androidi sognano pecore elettriche? sono radiografie lisergiche di un’America implosa sotto il peso della sua stessa ideologia.
Stephen King e la frattura del Reale
Anche Stephen King, con La Torre Nera, non ha visto il futuro. Ha visto troppo bene il presente. Gli anni ’80 che attraversa sono un’epoca di accelerazione conservatrice, di suburbia ipnotica, di violenza nascosta sotto il tappeto. La saga della Torre è un labirinto di mondi interconnessi, un racconto sull’identità fratturata dell’Occidente. Non è un’utopia né una distopia, ma un paesaggio mentale. Un’allucinazione lucida.