testata registrata presso Tribunale di Napoli n.70 del 05-11-2013 /
direttore resp. Pietro Rinaldi /
direttore edit. Roberto Landolfi

Antigone le forme del potere e gli abbandonati da Dio e dagli uomini intorno al “Contro Antigone” di Eva Cantarella (Prima parte)

 
di Margherita Losacco
tratto da Le Parole e Le Cose
 
«Circa duemilacinquecento anni fa in Grecia si scrivevano bellissimi poemi. Ormai sono letti soltanto dalle persone che si specializzano in questo studio, ed è proprio un peccato. Perché questi antichi poemi sono così umani che ancora oggi ci toccano da vicino e possono interessare tutti. Sarebbero anzi molto più toccanti per la gente comune, per coloro che sanno cos’è lottare e soffrire, piuttosto che per chi ha passato la vita tra le quattro mura di una biblioteca». Così scriveva Simone Weil nel 1936, nell’articolo su Antigone pubblicato in italiano nella raccolta La rivelazione greca[2]. L’articolo – destinato originariamente alla rivista «Entre nous», fondata da Victor Bernard, direttore tecnico della fonderia di Rosières, per costruire una forma di comunicazione con i suoi operai – si inscriveva in un progetto che Weil «coltivava da tempo: rendere accessibili alle masse i capolavori della poesia greca, che a suo giudizio illuminano e difendono più di qualsiasi opera letteraria moderna la condizione umana – gravata dalla sventura e dall’oppressione della forza –, e per questo assurgono a paradigmi di difesa della dignità di tutti coloro che si sentono “abbandonati da Dio e dagli uomini”»[3]. Esso consiste in un appassionato e chiaro riassunto della trama dell’Antigone, che brevemente Weil illustra con queste parole: «Il soggetto è la storia di un essere umano che da solo, senza alcun appoggio, si contrappone al proprio paese, alle leggi del proprio paese, al capo dello Stato, e che naturalmente è subito messo a morte»[4]. È il racconto asciutto della vicenda narrata nell’Antigone.
 
Non solo all’interno del corpus tragico greco, ma più ampiamente all’interno della letteratura universale, l’Antigone, come ha scritto George Steiner, «non è “un testo qualunque”: è una delle azioni durature e canoniche nella storia della nostra coscienza filosofica, letteraria e politica»[5]. Più ancora che una tragedia, più ancora che un testo, l’Antigone è una azione, che continua a produrre effetti – anche contrastanti, anche opposti – nei lettori e negli interpreti.
 
Come Eva Cantarella racconta, il suo Contro Antigone[6] prende le mosse da tre ragioni. Prima fra tutte è la rilevanza ancora durevole e attualissima della storia di Antigone, ricordata anche da Weil[7]. La tragedia costituisce peraltro – e qui risiede una ragione ulteriore della genesi del libro – un documento fondamentale per la ricostruzione del problema giuridico della sepoltura dei defunti, centrale nella cultura greca della morte e della vita, e forse ancora oggi centrale più di quanto immaginiamo. Del tutto soggettivo e personale, infine, fra i motivi che hanno portato a questo libro, l’antico scetticismo, risalente agli anni del liceo, per la figura di Antigone. Di Antigone, il professore di greco di Eva Cantarella al Liceo Beccaria di Milano aveva illustrato «la vita e l’eroica scelta di morte, celebrandone l’etica e il carattere ed entusiasmando gran parte della classe, ma suscitando al tempo stesso un dibattito. Una parte di noi, che non condivideva quell’immagine del personaggio, discuteva alcuni tratti del suo comportamento; e all’interno di questa fazione non mancavano quelli che, come me, in modo e misura differenti difendevano Creonte, condannato dalla tradizione e dal professore come un perfido, crudelissimo despota: per me invece Creonte aveva assolutamente ragione.»[8] Come molti, sono stata anche io una studentessa affascinata dalle lezioni su Antigone di una straordinaria professoressa: e forse a quelle lezioni, di greco in generale e su Antigone in particolare, devo almeno in parte la scelta di studi, quelli antichistici, che hanno segnato e segnano la mia vita adulta. E dunque nel racconto di Eva Cantarella, nella memoria vivida delle lezioni su Antigone che ancora oggi suscitano effetti, che hanno in qualche modo costruito un percorso intellettuale, si ritroveranno, forse, i molti che custodiscono e portano con sé una memoria viva, feconda, degli anni del liceo e del magistero dei propri insegnanti, che continua a gemmare in modi impensati anche a molti anni di distanza.
 
Il libro di Eva Cantarella nasce dunque da un motus animi, da un impulso vivace e immediato e del tutto personale come forse solo le letture del liceo sanno produrre. Un tale impulso, combinato con una lettura rigorosa delle fonti, si traduce qui in una prospettiva nuova, in uno sguardo inatteso.
 
I.
Il motus animi è in fondo una «antipatia» – espressione volutamente soggettiva e umorale – che Cantarella ha descritto con molta efficacia in una discussione con Laura Pepe, Matteo Nucci e Gabriele Vacis sulla «Lettura» del Corriere della Sera del 4 febbraio 2024: «donna di un egocentrismo spaventoso e di una assoluta indifferenza a tutto quello che non è lei, con una fissazione: dare sepoltura al fratello Polinice, bandito dalla città mentre il fratello Eteocle ha ricevuto tutti gli onori. Però ha una sorella, Ismene, di cui non tiene conto e che tratta malissimo. Non ha altri ideali se non quello di raggiungere il fratello nell’altro mondo, l’unico che esiste per lei»[9]. A partire da questo moto dell’animo si snoda la riflessione del libro, che si fonda su un dato ricavabile con certezza dalle fonti superstiti e messo in luce da Ettore Cingano: nella tradizione letteraria giunta fino a noi, il «mito» di Antigone sembra nascere insieme con il personaggio tragico[10]. Non esistono attestazioni relative ad Antigone nelle fonti precedenti la tragedia sofoclea (un riferimento interno ai Sette contro Tebe di Eschilo, 467 a.C., è probabilmente frutto di interpolazione[11], per i non rari fenomeni di interferenza fra tragedie nella tradizione manoscritta antica e medievale). Il mito, dunque, nasce con il personaggio tragico, nella cui vicenda è centrale la questione della sepoltura di Polinice.
 
II.
Alla questione della sepoltura Eva Cantarella dedica il secondo capitolo, nel quale si condensano saperi plurimi: giuridico, letterario, antropologico. È un capitolo che sollecita a riflettere in realtà sulla morte, sulla concezione greca della morte e dunque della vita. Nel mondo greco, la morte è discesa all’Ade, è «un’interminabile, sotterranea oscurità»[12], contro la quale l’unica possibile eternità è «la bella morte», la morte eroica, in battaglia, per la patria. Non è un caso che qui Eva Cantarella menzioni Jean-Pierre Vernant, che molto studio e molta riflessione ha dedicato ai temi della morte, e della bella morte, nel mondo greco. I Greci, ha scritto Vernant, hanno trasformato la morte in un ideale di vita, trasferendo in tal modo l’immortalità sulla terra. E in fin dei conti la stessa morte di Antigone è una «bella morte», non per la patria, ma per le leggi non scritte: una morte tragica che le ha garantito, come vediamo, una immortalità straordinaria. Nel marzo 2025 Mario Ricciardi ha ricordato, sul «Manifesto», la lezione che Vernant tenne a Nantes nel 2001, raccolta nel volume La traversée des frontières (Seuil, 2004): La mort héroïque chez les Grecs[13]. È l’ideale della bella morte, καλὸς θάνατος, rappresentato anzitutto da Achille. Nella visione tutta terrena, terrestre, della vita umana che è propria della grecità, «Qualcuno che era in vita e non lo è più: ecco, l’impensabile, l’assurdità, la morte. Ed è questo impensabile che bisogna evitare. Ecco dunque una soluzione alla condizione umana: trovare nella morte il mezzo per superarla, vincere la morte per mezzo della morte stessa, dandole un senso che essa non ha, di cui è assolutamente priva»[14].
 
Non c’è bella morte senza vita breve, scrive Vernant: «Chi vive la sua esistenza, la sua persona stessa, con questa modalità, che consiste nello scegliere di mettere tutto in gioco, se stesso, per mostrarsi, per dimostrarsi, per provare a se stesso di essere veramente un uomo senza compromessi, privo di viltà, ebbene, costui morirà sicuramente giovane. E questa morte non sarà una morte come le altre; come esiste un onore eroico che non è l’onore comune, così esiste una morte eroica che non è una morte comune»[15].
 
Queste parole dovevano riecheggiare con particolare intensità per Vernant, che era stato in gioventù un partigiano combattente: col nome di battaglia di Berthier, e il grado di colonnello, aveva guidato la resistenza dell’alta Garonna, nel sud ovest della Francia; alla testa dei suoi compagni d’arme aveva partecipato alla liberazione di Tolosa, la città in cui prima dell’inizio della guerra era stato un giovane e brillante insegnante di filosofia al liceo[16]. Ed esse riecheggiano per noi, che oggi riflettiamo su Antigone, se pensiamo che Antigone, che in battaglia non poteva andare, muore in una battaglia tutta ideale contro Creonte. Non per caso, ai vv. 71-72, Antigone, nello scontro con Ismene che apre la tragedia, dice alla sorella: κεῖνον ἐγὼ θάψω. καλὸν μοι τοῦτο ποιούσῃ θανεῖν («io seppellirò Polinice: per me è bello morire τοῦτο ποιούσῃ, mentre faccio questo, perché faccio questo»). Sono parole che richiamano a una questione eterna e ancora viva più che mai, in un tempo di guerre inattese e rinascenti. Come ha scritto Mario Ricciardi, «la guerra, però, non è una costruzione letteraria. Fianco a fianco con gli eroi, ci sono tutti gli altri […] Fuori dalla letteratura, la guerra è un fatto sociale complesso, non un fenomeno naturale.». E, come osservava Vernant nella sua conferenza, quando Ulisse incontra l’ombra di Achille nell’Ade (Odissea XI 483-486 e 488-491), gli dice:
 
« […] Ma di te, Achille,
nessun eroe, né prima, né poi, più felice:
prima da vivo t’onoravamo come gli dèi
noi Argivi, e adesso tu signoreggi tra i morti,
quaggiù: perciò d’essere morto non ti affliggere, Achille».
 
E Achille gli risponde:
 
«Non lodarmi la morte, splendido Odisseo.
Vorrei esser bifolco, servire un padrone,
un diseredato, che non avesse ricchezza,
piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte»[17].
 
I Greci celebrano la morte eroica, ma si rendono conto, secondo Vernant, che l’eroe che muore sul campo di battaglia supera «una soglia invalicabile, dietro la quale si trova un mondo di orrore, di anonimato, un magma in cui ognuno si perde»[18].
Come ricostruisce Cantarella, la prassi greca era di dare sepoltura ai membri della polis, e di abbandonare i cadaveri dei nemici – ciascuno dei quali combatteva per la parte giusta – alla loro sorte. Creonte, dunque, non fa che applicare una regola non scritta – non scritta come le leggi cui si appella Antigone – con il suo editto.
 
(continua…)