tratto da Avvenire sabato 2 agosto 2025
Da cosa dipende
questa crescente “aziendalizzazione” della vita religiosa? Tra le molte ragioni
una è decisiva. Le comunità carismatiche sono nate con una ben precisa idea di
governo e di relazioni, che recentemente è entrata in crisi
nell’incontro-scontro con la cultura moderna. Quelle antiche istituzioni erano
infatti espressione di una società ineguale, gerarchica e patriarcale. I tre
voti religiosi erano strumenti adeguati per assicurare il loro funzionamento:
persone celibi senza famiglia, senza diritti sulle proprie ricchezze ed
eredità, e legati ai superiori da un vincolo sacro di obbedienza. Nello spazio
di una generazione questo modello si è frantumato, e le comunità sono rimaste
relazionalmente mute, soprattutto con i giovani figli di questo nuovo mondo.
Ecco allora che in questa profonda silente crisi identitaria i potenti
strumenti aziendali vengono percepiti come salvezza. La consulenza riempie un
vuoto, ma poi velocemente crea infantilizzazione e mancanza di
autonomia delle comunità, che si somma alla dipendenza (addiction) e
alla crescente insicurezza dei responsabili che quindi chiedono sempre più
consulenze per tutto; e così i tecnici finiscono per diventare non solo ghostwriter di
discorsi e documenti, ma anche direttori e superiori invisibili. Si capisce
allora che è la domanda (da parte delle comunità) che genera
l’offerta. È superfluo affermare che i consulenti onesti della vita religiosa
(ne conosco alcuni) ci sono e ci vogliono, soprattutto quando cercano di
adattare strumenti e tecniche, tentando ibridazioni tra carismi e mondo
aziendale e psicologico. Ma il centro del problema sta in capo alle comunità
che devono riprendere in mano il proprio destino.
Occorre qualcosa
di diverso, di molto diverso, e subito. Le comunità carismatiche non sono
imprese. Sono certamente organizzazioni, ma con note identitarie troppo diverse
da quelle delle imprese per poterle trattare con gli stessi strumenti. Sono
simili al 98%, come il nostro DNA e quello degli scimpanzé, ma se non si vede e
conosce quel 2% diverso non capiamo nulla di un convento o di un monastero. Una
suora non è una dipendente del suo istituto, non è una collaboratrice, non è
una risorsa umana, né una follower di una leader. Non ha un purpose, non
ha una vision: ha un carisma (senza
possederlo), che è qualcosa di profondamente diverso da tutto ciò che si
insegna nelle scuole di business o di psicologia del lavoro. La quasi totalità
dei tecnici e degli esperti non hanno né possono avere una sufficiente cultura
biblica o teologica, né tantomeno una vera frequentazione del mondo misterioso
dei carismi e dello Spirito, il più misterioso e stupendo della terra. Non
dimentichiamo poi che l’ingresso di tecnici esterni dentro le aziende è nato
dall’esigenza di mediare le relazioni di lavoro dirette,
affinché quindi i manager non “toccassero” le emozioni delle loro persone sempre
più complicate e fragili. L’esperto esterno, infatti, “tocca” le persone al
posto dei “leader”. Le tecniche sono quindi strumenti di immunità relazionale.
Ma, chiediamoci: che cosa resta delle comunità carismatiche se si afferma la
cultura immunitaria, se è vero che l’immunitas è la negazione
della communitas?
Pensiamo, per un solo esempio, ad un capitolo di una congregazione. I metodi degli esperti di tecniche partecipative creano la nota sindrome della mediana: nel passaggio dalle idee del singolo al documento del gruppo di lavoro e poi dai gruppi alla sintesi finale, le tecniche tendono a selezionare le tesi e i valori mediani, e quindi a scartare gli estremi. Questa metodologia funziona per le (le scelte facili delle) imprese, per le decisioni politiche e per le istituzioni, incluse quelle vaticane o diocesane (dove oggi spopola), dove occorre ridurre i conflitti tra posizioni e arrivare presto a soluzioni che accontentino molti o la maggioranza. Nei carismi però la regola della mediana non funziona. I carismi sono eredi dei profeti biblici, e le soluzioni e le idee profetiche provengono (quasi) sempre dagli estremi, dagli scarti, non dalle mediane. Se si applica il metodo della mediana nei capitoli si finisce infatti per scrivere documenti dove non si troveranno le idee più innovative - è il fenomeno che il mio amico Tommaso Bertolasi chiama della “galletta di riso”: la possono mangiare tutti perché sa di poco. Nessuna idea di Isaia, del Battista o di Gesù sarebbe oggi selezionata da un facilitatore, perché troppo devianti dalla mediana. Stesso risultato mediano quando i documenti finali si scrivono sommando le sintesi dei lavori di gruppi. La sindrome della mediana tende ad evita o ridurre i conflitti; ma nei carismi non si trova nessuna soluzione vera senza affrontare, far emergere e accudire i conflitti (basti pensare alla Bibbia, a Paolo e ai vangeli). I n sintesi, se le comunità carismatiche scavassero di più nel cuore del carisma troverebbero intuizioni e sapienza che, attualizzati, sarebbero il solo modo giusto per condurre la comunità, capitoli e assemblee. Occorre quindi cambiare. Una comunità spirituale che non vuole morire o trasformarsi in una Ong, dovrebbe usare poco e sussidiariamente la consulenza, sceglierli oculatamente, e lavorare essa stessa di più sulla cultura organizzativa del proprio carisma. Esternalizzare le relazioni comunitarie non è come appaltare la mensa o le pulizie del convento - nelle relazioni ci si gioca tutto del carisma. Il primo e decisivo passo spetta alla comunità, con le persone e i talenti che ha, qui ed ora, come sa e come può. “Date voi stessi loro da mangiare” (Lc 9,13). Questo lavoro va custodito gelosamente dentro una intimità collettiva, altrimenti a breve, e senza accorgercene, del carisma resteranno qualche quadro del fondatore e un pensiero per gli auguri di Natale.