Al momento non
esiste un’alternativa migliore al "Piano Trump" per Gaza, con punti
per il disarmo di Hamas, il ritiro israeliano, la ricostruzione e un futuro
stato palestinese.
Tratto da ISPI (Istituto per gli studi di
politica internazionale) del 2 ottobre 2025
Una
sola entità può fermare il quotidiano massacro di Gaza. Non i paesi arabi
moderatamente interessati al destino dei palestinesi; inutile dire che nemmeno
l’Europa ha mezzi né incrollabile volontà. La Russia ha la sua guerra; e i
cinesi badano a restare lontani dalla palude mediorientale se non per
comprare idrocarburi. Presto Pechino ne avrà meno bisogno: già garantisce l’80
e il 60% della produzione mondiale di pannelli solari e turbine eoliche.
Il solo che potesse imporre la fine del conflitto e un futuro per i palestinesi, era il presidente degli Stati Uniti. L’ha fatto e il pessimismo cosmico su un conflitto centenario, si è trasformato in un ottimismo forse prematuro. L’operazione è ardua e Donald Trump è lo stesso presidente che fino a ieri aveva proposto di cacciare gli abitanti della Striscia per l’impresa immobiliare di Gaza Riviera; che in parole e opere ha sempre accolto le richieste israeliane; che aveva nominato ambasciatore a Gerusalemme il pastore battista Mike Huckabee, per il quale un popolo chiamato palestinese non esiste.
A Washington c’è chi sostiene che per le sue inesauribili e mutevoli dichiarazioni, Trump assomigli al libico Muammar Gheddafi. La differenza è che quest’ultimo era irrilevante riguardo ai destini del mondo, l’americano è il leader della più potente delle nazioni. Come è già accaduto nel conflitto ucraino o sui dazi all’Europa, prima o poi Trump potrebbe cambiare idea.
Per il momento restano la ventina di punti che possono fermare la guerra di Gaza, garantirne la sicurezza, prevedere la ricostruzione e offrire in un futuro ancora lontano uno stato per i palestinesi. Nella conferenza stampa di lunedì non è stata citata la Cisgiordania: non perché i territori occupati siano un regalo a Netanyahu in cambio della rinuncia alla Striscia: il piano presentato riguarda Gaza e la sua ricostruzione. Qualche giorno fa il presidente americano aveva già detto che né la Striscia né la Cisgiordania potranno essere annesse da Israele. È per questo che alla Casa Bianca Netanyahu non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti.
Le
difficoltà del piano sono altre. Resta da vedere che Hamas ammetta una
sconfitta, disarmando e rinunciando al folle intento di distruggere Israele; e
che Benjamin Netanyahu con il suo governo di estremisti abbandoni il
proposito biblico di annettere Gaza e la Cisgiordania. Per il premier
questo significa restare senza governo: i partiti dei coloni dalle visioni
messianiche se ne andrebbero. Tuttavia le opposizioni sarebbero disposte a
garantire una maggioranza. Poi ci saranno le elezioni alla fine del 2026 e
tutto o nulla potrà cambiare. Nella conferenza stampa alla Casa Bianca, l’altra
sera, non c’era quasi nulla che Netanyahu condividesse delle proposte di Trump.
Ma Bibi è un principe della dissimulazione e della sopravvivenza
politica.
Quello che resterà come il “Piano Trump” assomiglia molto alla proposta egiziana di qualche mese fa, in collaborazione con Giordania e Qatar e approvato dalla Lega Araba. C’è anche qualche elemento di Gaza Riviera. Ogni guerra è un grande affare: dopo la distruzione c’è una ricostruzione. Il business americano non guadagnerà solo da questo. Trump avrà la riconoscenza sunnita, soprattutto dei ricchi arabi del Golfo: non solo idrocarburi ma anche terre rare e altri minerali necessari all’industria del futuro.
Oltre
a Tony Blair – l’ex premier britannico inviso agli arabi per aver partecipato
con George Bush all’invasione dell’Iraq – pacificazione e ricostruzione saranno
affidati a un esecutivo, composto da tecnocrati palestinesi. Non per ora
all’Autorità di Ramallah, il cui compito ora sarà di riformare il suo potere
corrotto e gerontocratico.
In Attesa della risposta di Hamas, rimasto senza una leadership significativa sia nella striscia che in esilio; aspettando di vedere se e come Israele si ritirerà da Gaza e quali cambiamenti ci saranno nel quadro politico israeliano, il “Piano Trump” resta pieno di ostacoli e di pericoli. Una resa di Hamas, per esempio, non sarebbe la sola garanzia per la stabilizzazione della Striscia, necessaria alla sua ricostruzione. Oltre al movimento islamico e al socio minore della Jihad, quel che resta di Gaza è controllato anche dalle famiglie tribali e dalle mafie del florido mercato nero. Anche loro hanno armi e interessi da tutelare.
Ma non esiste un’alternativa migliore al piano americano. Piaccia o no, è la proposta più vicina – o meno lontana – per porre fine all’orrore al quale assistiamo da due anni.
Il solo che potesse imporre la fine del conflitto e un futuro per i palestinesi, era il presidente degli Stati Uniti. L’ha fatto e il pessimismo cosmico su un conflitto centenario, si è trasformato in un ottimismo forse prematuro. L’operazione è ardua e Donald Trump è lo stesso presidente che fino a ieri aveva proposto di cacciare gli abitanti della Striscia per l’impresa immobiliare di Gaza Riviera; che in parole e opere ha sempre accolto le richieste israeliane; che aveva nominato ambasciatore a Gerusalemme il pastore battista Mike Huckabee, per il quale un popolo chiamato palestinese non esiste.
A Washington c’è chi sostiene che per le sue inesauribili e mutevoli dichiarazioni, Trump assomigli al libico Muammar Gheddafi. La differenza è che quest’ultimo era irrilevante riguardo ai destini del mondo, l’americano è il leader della più potente delle nazioni. Come è già accaduto nel conflitto ucraino o sui dazi all’Europa, prima o poi Trump potrebbe cambiare idea.
Per il momento restano la ventina di punti che possono fermare la guerra di Gaza, garantirne la sicurezza, prevedere la ricostruzione e offrire in un futuro ancora lontano uno stato per i palestinesi. Nella conferenza stampa di lunedì non è stata citata la Cisgiordania: non perché i territori occupati siano un regalo a Netanyahu in cambio della rinuncia alla Striscia: il piano presentato riguarda Gaza e la sua ricostruzione. Qualche giorno fa il presidente americano aveva già detto che né la Striscia né la Cisgiordania potranno essere annesse da Israele. È per questo che alla Casa Bianca Netanyahu non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti.
Quello che resterà come il “Piano Trump” assomiglia molto alla proposta egiziana di qualche mese fa, in collaborazione con Giordania e Qatar e approvato dalla Lega Araba. C’è anche qualche elemento di Gaza Riviera. Ogni guerra è un grande affare: dopo la distruzione c’è una ricostruzione. Il business americano non guadagnerà solo da questo. Trump avrà la riconoscenza sunnita, soprattutto dei ricchi arabi del Golfo: non solo idrocarburi ma anche terre rare e altri minerali necessari all’industria del futuro.
In Attesa della risposta di Hamas, rimasto senza una leadership significativa sia nella striscia che in esilio; aspettando di vedere se e come Israele si ritirerà da Gaza e quali cambiamenti ci saranno nel quadro politico israeliano, il “Piano Trump” resta pieno di ostacoli e di pericoli. Una resa di Hamas, per esempio, non sarebbe la sola garanzia per la stabilizzazione della Striscia, necessaria alla sua ricostruzione. Oltre al movimento islamico e al socio minore della Jihad, quel che resta di Gaza è controllato anche dalle famiglie tribali e dalle mafie del florido mercato nero. Anche loro hanno armi e interessi da tutelare.
Ma non esiste un’alternativa migliore al piano americano. Piaccia o no, è la proposta più vicina – o meno lontana – per porre fine all’orrore al quale assistiamo da due anni.