di Alice Figini
tratto da 4 Novembre 2025
Un romanzo in particolare, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1948, presentava una figura di madre decisamente inquietante: Pauline Pluvignec, detta Folcoche, emblema dell’antagonista per eccellenza. Un personaggio memorabile, la più cattiva delle madri cattive, capace di imprimersi a fuoco nella mente del lettore lasciando un ricordo traumatico e persistente. Il romanzo in questione era Vipera in pugno (Vipère au poing) di Hervé Bazin, fu presentato alla sua pubblicazione come autobiografico e sollevò un vespaio di polemiche, poiché per la prima volta veniva decostruito apertamente il mito dell’amore materno. A dispetto dello scandalo suscitato – o forse proprio a causa dello scandalo – il libro vendette milioni di copie, fu tradotto in tutto il mondo e venne adattato per il cinema nella pellicola omonima di Philippe de Broca.
Il paragone è volutamente irriverente, dal momento che l’arcangelo san Michele, invece, si trovò a fronteggiare un vero e proprio drago. L’intero libro di Hervé Bazin è intessuto di riferimenti biblici e mitici che rimandano alla simbologia del serpente. Sin dal principio la vipera diventa una metafora della terribile madre e fornisce, indirettamente, un’anticipazione della sua malvagità – che il lettore ancora non conosce.
L’apertura del romanzo di Hervé Bazin, letta in chiave simbolica, appare come un capolavoro di retorica: la vipera, che dà il titolo all’opera, è la «vittima sostitutiva» intesa da Girard e tornerà, non a caso, nel finale in un significato trasfigurato e metaforico tra le mani di Jean ragazzo, «vipera in pugno» come emblema della rivolta compiuta.
Dopo l’efferata uccisione dell’animale posta in apertura, il dramma vero e proprio si compie quando entra in scena la vera antagonista della storia: «La nonna morì, la mamma arrivò». La madre Paule, scopriamo presto, ha molto in comune con la vipera, si presenta ai figli battezzandoli a suon di schiaffi, provocando in loro un immediato rifiuto: «Le pupille aguzze della donna che non volevamo già più chiamare mamma». I figli, a loro volta, ribattezzeranno quella madre crudele con il nomignolo di «Folcoche» – in francese traducibile come scrofa, l’animale che mangia la propria prole – ma reso nella traduzione italiana di Fedriga come «Bastarda» o nell’ancor più dispregiativo «Bastarda pazza».
Emerge, pagina
dopo pagina, il singolare ritratto di una donna che «oltre ai figli aveva due
soli nemici: le tarme e gli spinaci» e impone nella dimora della Belle Angerie
un’educazione autoritaria, per non dire spartana, un autentico regime
dittatoriale del terrore in ossequio a norme stringenti di economia domestica.
Le azioni compiute dalla madre replicano, curiosamente, il sistema di attacco e
difesa del serpente: a tavola sevizia le mani dei bambini con delle
forchettate, conficcando i rebbi nella carne come denti, e fa inghiottire ai
pargoli delle porzioni esorbitanti di olio di ricino, come se iniettasse in
loro il suo veleno.
I figli, vittime designate, sono tre: Ferdinand soprannominato “Il Moscio”, Jean o “Teppa” e Michel detto “Scricciolo”. L’unico in grado di opporsi fermamente alle angherie materne sarà il protagonista e narratore, Jean, perché, come vedremo, è colui che più assomiglia alla madre e dunque il solo capace di tenerle veramente testa. A fare da contraltare è un padre, Jacques, vile e sottomesso che sembra avere più a cuore la propria collezione di insetti che il benessere della prole. «Avevamo freddo, avevamo fame. Guardavamo con bramosia le ante socchiuse degli armadi da cui nostra madre attingeva, con parsimonia, cibo e vestiti» racconta l’avvilito Jean al principio della storia, mentre nel suo cuore sta maturando il rancore che lo condurrà a compiere atti sconsiderati, come due tentativi di matricidio.
Secondo Donald Winnicott una “madre buona” è colei che si adatta ai bisogni del proprio bambino e ne favorisce l’indipendenza, permettendo così lo sviluppo del suo «sé autentico». In caso contrario, dunque di madre «non sufficientemente buona», Winnicott sosteneva che a essere tradita è «l’onnipotenza soggettiva del bambino» e la conseguenza è la creazione di un «falso sé», ovvero di una personalità non sviluppata, con una tendenza difensiva, anaffettiva. La teoria di Winnicott ci consente una chiave di lettura psicologica di Vipera in pugno, che si rivela necessaria dal momento che, forse, l’elemento psicologico è ciò di cui il romanzo è privo.
Nel finale il figlio impenitente diventa lo specchio della madre, in una dicotomia speculare al detto «tale madre, tale figlio». È come se Jean avesse assimilato l’autorità materna alla stregua di un’infezione velenosa, divenendo vipera lui stesso. Ed è qui che il libro di Bazin ci pone la domanda capitale: qual è l’esito di un’educazione autoritaria sui figli? Nell’apprendistato all’odio compiuto dal suo protagonista vediamo gli effetti, nefasti, di uno stile educativo rigido e inflessibile. L’adolescente Jean diventa un ragazzo ribelle, incapace d’amare e resistente nei confronti di ogni forma di autorità, il suo unico istinto dominante è la fuga. Il paradosso è che, nell’impeto della propria feroce rivolta, si rende conto di aver interiorizzato le regole materne, quando afferma: «La personalità che ho issato sull’albero maestro come una bandiera nera è stata confezionata da te in ogni piega, che hai tinto e ritinto con il miglior nero di seppia». La morale finale professata da Jean è feroce, un trionfo dell’odio, perché da una madre cattiva non si può che apprendere la sfiducia nei confronti del prossimo e la conseguente impossibilità di amare.
Ciò che manca, in Vipera in pugno, è la voce della madre. Paule Pulvignec, detta Folcoche, ci viene restituita con i tratti caricaturali e malefici che la rendono l’antagonista perfetta – ma non ci viene raccontato il suo punto di vista. Sulla base psicologica della teoria dell’attaccamento potremmo dedurre che anche lei sia stata vittima di uno stile educativo punitivo e autoritario, che avrebbe poi replicato a propria volta, infliggendolo ai figli.
Sulla vera storia di Paule Pluvignec Rezeau ha fatto luce di recente, con un libro-inchiesta pubblicato dall’editore francese Grasset, la giornalista Émilie Lanez. In Folcoche: Le secret de “Vipère au poing”. Enquête sur un meurtre littéraire, Lanez muove la potente accusa che il romanzo di Bazin non sia in realtà autobiografico, ma una sorta di vendetta costruita ad arte contro la propria famiglia. La giornalista prende le difese di Paule, liberandola dal «mostro di carta» in cui il figlio scrittore l’avrebbe imprigionata compiendo un «matricidio letterario». Tra le pagine di Folcoche (Grasset, 2025) scopriamo che anche Paule ebbe un’infanzia infelice, fu rinchiusa per oltre dieci anni in collegio e, in seguito, data in sposa contro la sua volontà a un perfetto sconosciuto. Émilie Lanez nella conclusione della sua inchiesta sostiene che non è stata una madre amorevole, ma autoritaria, in ogni caso «non una torturatrice».
Dunque, Vipera in pugno sarebbe una falsa autobiografia? Un romanzo di vendetta? Io credo che non ci sia un'unica verità, proprio come non c’è un’unica storia. La forza del romanzo d’esordio di Bazin – che tra l’altro apriva una trilogia dai titoli simbolicamente animaleschi – era data dalla voce furiosa e ribelle del suo protagonista: è la storia di Jean Rezeau o di Jean-Hervé Bazin, poco importa. Nella letteratura non cerchiamo la verità pura e oggettiva, ma la verità individuale, che è poi quella che nella vita rimane sempre inabissata, sommersa, taciuta. Vipera in pugno racconta una rivolta adolescenziale e ha il tono assoluto dell’adolescenza e delle sue teorie incontrovertibili, estreme, radicali: non c’è spazio per il pentimento, per il rimorso, in quel libro – e non deve esserci, perché altrimenti verrebbe meno il tono irriverente che lo ha reso un capolavoro. Il narratore di Vipera in pugno è bambino, poi ragazzo, non è ancora adulto; ed è solo da adulti che si impara davvero a perdonare le colpe dei padri, o delle madri.
I figli, vittime designate, sono tre: Ferdinand soprannominato “Il Moscio”, Jean o “Teppa” e Michel detto “Scricciolo”. L’unico in grado di opporsi fermamente alle angherie materne sarà il protagonista e narratore, Jean, perché, come vedremo, è colui che più assomiglia alla madre e dunque il solo capace di tenerle veramente testa. A fare da contraltare è un padre, Jacques, vile e sottomesso che sembra avere più a cuore la propria collezione di insetti che il benessere della prole. «Avevamo freddo, avevamo fame. Guardavamo con bramosia le ante socchiuse degli armadi da cui nostra madre attingeva, con parsimonia, cibo e vestiti» racconta l’avvilito Jean al principio della storia, mentre nel suo cuore sta maturando il rancore che lo condurrà a compiere atti sconsiderati, come due tentativi di matricidio.
Secondo Donald Winnicott una “madre buona” è colei che si adatta ai bisogni del proprio bambino e ne favorisce l’indipendenza, permettendo così lo sviluppo del suo «sé autentico». In caso contrario, dunque di madre «non sufficientemente buona», Winnicott sosteneva che a essere tradita è «l’onnipotenza soggettiva del bambino» e la conseguenza è la creazione di un «falso sé», ovvero di una personalità non sviluppata, con una tendenza difensiva, anaffettiva. La teoria di Winnicott ci consente una chiave di lettura psicologica di Vipera in pugno, che si rivela necessaria dal momento che, forse, l’elemento psicologico è ciò di cui il romanzo è privo.
Nel finale il figlio impenitente diventa lo specchio della madre, in una dicotomia speculare al detto «tale madre, tale figlio». È come se Jean avesse assimilato l’autorità materna alla stregua di un’infezione velenosa, divenendo vipera lui stesso. Ed è qui che il libro di Bazin ci pone la domanda capitale: qual è l’esito di un’educazione autoritaria sui figli? Nell’apprendistato all’odio compiuto dal suo protagonista vediamo gli effetti, nefasti, di uno stile educativo rigido e inflessibile. L’adolescente Jean diventa un ragazzo ribelle, incapace d’amare e resistente nei confronti di ogni forma di autorità, il suo unico istinto dominante è la fuga. Il paradosso è che, nell’impeto della propria feroce rivolta, si rende conto di aver interiorizzato le regole materne, quando afferma: «La personalità che ho issato sull’albero maestro come una bandiera nera è stata confezionata da te in ogni piega, che hai tinto e ritinto con il miglior nero di seppia». La morale finale professata da Jean è feroce, un trionfo dell’odio, perché da una madre cattiva non si può che apprendere la sfiducia nei confronti del prossimo e la conseguente impossibilità di amare.
Ciò che manca, in Vipera in pugno, è la voce della madre. Paule Pulvignec, detta Folcoche, ci viene restituita con i tratti caricaturali e malefici che la rendono l’antagonista perfetta – ma non ci viene raccontato il suo punto di vista. Sulla base psicologica della teoria dell’attaccamento potremmo dedurre che anche lei sia stata vittima di uno stile educativo punitivo e autoritario, che avrebbe poi replicato a propria volta, infliggendolo ai figli.
Sulla vera storia di Paule Pluvignec Rezeau ha fatto luce di recente, con un libro-inchiesta pubblicato dall’editore francese Grasset, la giornalista Émilie Lanez. In Folcoche: Le secret de “Vipère au poing”. Enquête sur un meurtre littéraire, Lanez muove la potente accusa che il romanzo di Bazin non sia in realtà autobiografico, ma una sorta di vendetta costruita ad arte contro la propria famiglia. La giornalista prende le difese di Paule, liberandola dal «mostro di carta» in cui il figlio scrittore l’avrebbe imprigionata compiendo un «matricidio letterario». Tra le pagine di Folcoche (Grasset, 2025) scopriamo che anche Paule ebbe un’infanzia infelice, fu rinchiusa per oltre dieci anni in collegio e, in seguito, data in sposa contro la sua volontà a un perfetto sconosciuto. Émilie Lanez nella conclusione della sua inchiesta sostiene che non è stata una madre amorevole, ma autoritaria, in ogni caso «non una torturatrice».
Dunque, Vipera in pugno sarebbe una falsa autobiografia? Un romanzo di vendetta? Io credo che non ci sia un'unica verità, proprio come non c’è un’unica storia. La forza del romanzo d’esordio di Bazin – che tra l’altro apriva una trilogia dai titoli simbolicamente animaleschi – era data dalla voce furiosa e ribelle del suo protagonista: è la storia di Jean Rezeau o di Jean-Hervé Bazin, poco importa. Nella letteratura non cerchiamo la verità pura e oggettiva, ma la verità individuale, che è poi quella che nella vita rimane sempre inabissata, sommersa, taciuta. Vipera in pugno racconta una rivolta adolescenziale e ha il tono assoluto dell’adolescenza e delle sue teorie incontrovertibili, estreme, radicali: non c’è spazio per il pentimento, per il rimorso, in quel libro – e non deve esserci, perché altrimenti verrebbe meno il tono irriverente che lo ha reso un capolavoro. Il narratore di Vipera in pugno è bambino, poi ragazzo, non è ancora adulto; ed è solo da adulti che si impara davvero a perdonare le colpe dei padri, o delle madri.
