di Cinzia Bigliosi
tratto da Doppio Zero del 3 Novembre 2025
Leggendo il
libro di Naomi Watts, attraversando il suo dolore ma anche la gioia di aver
scoperto quali prospettive nuove scorgesse all’orizzonte, non potevo non
ripensare al silenzio imbarazzato che scendeva a casa mia quando ero piccola,
ogni volta che si parlava della mia nonna paterna, la quale, da un giorno
all’altro, aveva perso il ciclo a trentotto anni. “Morirà giovane”, aveva
sentenziato il vecchio medico di paese scuotendo il capo. La previsione del
medico non fu mai dimenticata, soprattutto dalla nuora, ossia mia madre, che la
ripeteva come un mantra a ogni loro litigio, mentre mia nonna sopravviveva nel
tempo, per morire nel sonno alla soglia dei novant’anni.
Ecco, io ero stata testimone oculare del fatto che la menopausa non fosse sinonimo di vecchiaia. Nonostante il sistema di omissioni e sostanziale disinteresse stia scricchiolando, e qua e là si parli più liberamente del tema, ancora oggi alla donna, col passare del tempo, non è concesso il cambiamento, anche quando è fisiologico. Si pretende da lei che non muti nel corpo, così come nella psiche o nella vita, e qualcosa ci dice il numero di donne uccise oggigiorno nel momento in cui decidono di abbracciare il cambiamento, in quel fenomeno orrendamente definito ‘femminicidio’, riducendo così la vittima all’insieme biologico dei suoi gameti e privandola di tutto quello che compone una persona (il mito di Pigmalione e le sue conseguenze aveva già dato indicazioni in questo senso). Non in tutte le società funziona allo stesso modo: nella lingua giapponese, per esempio, per definire la menopausa si usa la parola “konenki” (更年期) che letteralmente significa “periodo di cambiamento, rinnovamento dell’età”. La parola è composta da tre kanji: 更 (kō) → “cambiare, rinnovare”, 年 (nen) → “anno, età” e 期 (ki) → “periodo, stagione, fase,” letteralmente: “periodo di cambiamento dell’età” o “fase di rinnovamento”.
Nella società
dei Baruya, della Nuova Guinea, la menopausa conferisce alle donne la libertà e
soprattutto l’autorità che non sono concesse alle donne fertili. Nella tribù
dei Lobi del Burkina Faso, la donna in menopausa diventa come un uomo, e può
assumere ruoli normalmente maschili. A questo proposito, ricordiamo uno dei più
improbabili incontri del secolo scorso, dopo quello tra Groucho Marx e T.S.
Eliot. Nel giugno 1927 quella che ormai era per tutti la grande Colette accolse
nei suoi appartamenti al Palais-Royal un timido Walter Benjamin. Il filosofo
stava scrivendo un articolo che sarebbe stato pubblicato sulle pagine di “Die
literarische Welt” il novembre successivo. Pieno di ammirazione, interrogò la
famosa scrittrice a proposito del suo noto antifemminismo. “Posso contare, fra
le mie conoscenze, un numero sufficiente di donne equilibrate, in buona salute,
molto colte, intelligenti, che sarebbero capaci quanto un uomo di far parte di
una commissione o di una giuria. Solo che tutte quante hanno, ogni mese – e vi
posso assicurare che si tratta di donne normali, di ottima costituzione – dei
giorni in cui sono irascibili, incontrollabili, imprevedibili. Gli affari
pubblici seguono nonostante tutto il loro corso anche durante quei giorni, non
è vero? E bisognerà votare e prendere decisioni”. Vale la pena ricordare che il
voto alle donne in Francia fu concesso nell’aprile 1944, mentre, lento pede, la
scienza proseguiva con le ricerche nel misterioso universo degli ormoni.
Per lunghi secoli l’evento della menopausa non ha mai trovato una effettiva
sponda medica, né rimedi se non vaghi (si consigliava di prestare massima
attenzione alle correnti d’aria, al punto che per “la malata” era preferibile
rimanere chiusa in casa. Un po’ come quando, nella campagna padana dove sono
cresciuta, le nonne impedivano alle giovani nei giorni del ciclo di toccare le
foglie delle piante che sarebbero altrimenti inevitabilmente morte. Adesso si
dice semplicemente che non si ha il pollice verde, senza scomodare acrobatici
scongiuri). La donna non più fertile periva sotto il peso atavico del
pregiudizio sociale che concedeva alla fertilità la principale funzione
femminile; tanto per togliere ogni dubbio sempre Simone de Beauvoir si sarebbe
riferita alla menopausa come a una “definitiva mutilazione”.
Ecco, io ero stata testimone oculare del fatto che la menopausa non fosse sinonimo di vecchiaia. Nonostante il sistema di omissioni e sostanziale disinteresse stia scricchiolando, e qua e là si parli più liberamente del tema, ancora oggi alla donna, col passare del tempo, non è concesso il cambiamento, anche quando è fisiologico. Si pretende da lei che non muti nel corpo, così come nella psiche o nella vita, e qualcosa ci dice il numero di donne uccise oggigiorno nel momento in cui decidono di abbracciare il cambiamento, in quel fenomeno orrendamente definito ‘femminicidio’, riducendo così la vittima all’insieme biologico dei suoi gameti e privandola di tutto quello che compone una persona (il mito di Pigmalione e le sue conseguenze aveva già dato indicazioni in questo senso). Non in tutte le società funziona allo stesso modo: nella lingua giapponese, per esempio, per definire la menopausa si usa la parola “konenki” (更年期) che letteralmente significa “periodo di cambiamento, rinnovamento dell’età”. La parola è composta da tre kanji: 更 (kō) → “cambiare, rinnovare”, 年 (nen) → “anno, età” e 期 (ki) → “periodo, stagione, fase,” letteralmente: “periodo di cambiamento dell’età” o “fase di rinnovamento”.
Sulla scia
di Il doppio standard dell’invecchiamento (1972) di Susan
Sontag, tuttora la menopausa non ha un parametro estetico: se il maschio di
mezz’età, non più ragazzo si trasforma in uomo maturo, brizzolato e con le sue
belle rughe a segnargli la faccia, restando un soggetto che si rinnova nel suo
poter essere ancora seducente, per la donna della stessa età non è così.
Condannata a dover restare, per la società, la moda, la famiglia, l’eterna
ragazza di un tempo, con abbigliamento e apparato cosmetico immobili a dieci
anni e settanta sintomi prima, la donna resta intrappolata nel disperato
tentativo di immobilizzarsi con “diete, chirurgia estetica, trucco, tintura dei
capelli, vestiti costosi per cercare di assomigliare alle giovani che non sono
più”, dove la prima a essere sorda al cambiamento, oltre a medici impreparati e
a una società ottusa, è lei stessa. La medicina è la scienza che più di tutte
ha trascurato l’argomento, mentre i temi biologici ed esistenziali venivano qua
e là affrontati dalla letteratura filosofica. La filosofa femminista
australiana, Germaine Greer nel 1991 parlò della menopausa come di una vera e
propria “era dell’invisibilità”, nella quale la donna sparisce, senza che
nessuno sappia bene chi la sostituisca. Per secoli la medicina ha pressoché
ignorato quelle che sono le esperienze trasformative femminili per eccellenza,
come la pubertà, la gravidanza e maternità, soprattutto, il climaterio. Nel
1990, nel suo Questione di genere, nel sostenere la tesi
principale che il genere è performativo, sulla scia di de Beauvoir, la filosofa
Judith Butler metteva in discussione che l’identità di genere derivi dal sesso
biologico, mentre si costituirebbe soprattutto come prodotto culturale,
attraverso azioni e comportamenti sociali, linguistici, e molto altro ancora.
Il punto resta comunque che in certe fasi della vita gli ormoni, studiati
tardissimo nella storia delle scienze, “non guardano in faccia a nessuna
performance”. Nell’antichità la medicina si interessava al corpo femminile con
scarso interesse, lasciandolo avvolto in un nebuloso mistero tra ineluttabilità
e pregiudizio, malattia e destino, con l’utero che veniva considerato
pregiudizialmente un organo pauroso e folle – basti pensare alle variazioni che
subisce, a seconda dei periodi e delle necessità, nelle sue dimensioni. Nel
suo Historia animalium, Aristotele concedeva al ciclo
mestruale un ruolo a dir poco vago, i motivi del menarca restavano oscuri, e
Ippocrate credeva che il flusso mensile altro non fosse che una necessaria
purificazione degli umori negativi della donna.
L’unica certezza sulla quale si trovavano tutti d’accordo era che la menopausa, che ancora non si chiamava così, altro non fosse che una transizione dalla fertilità alla infertilità, un peggioramento e una perdita irreversibili. Il termine “ménèspausie” fu introdotto per la prima volta nel 1816 dal medico Charles-Paul-Louis de Gardanne che lo trasformò nel definitivo “menopausa” nel 1921, nel titolo del suo best-seller De la Ménaupause ou de l’âge critique des femmes. La svolta che avrebbe finalmente segnato lo studio dell’età di mezzo femminile si sarebbe consumata solo nel 1946 con l’avvento dell’endocrinologia, e l’inaugurazione di una vera e propria teoria degli ormoni e del loro ruolo. La scoperta dell’apparato endocrino, il terzo sistema di comunicazione tra le varie parti del corpo, oltre a quello sanguigno e quello nervoso, fu rivoluzionario ed ebbe un seguito medico di forte impatto sociale e culturale, all’origine dell’invenzione della pillola anticoncezionale negli anni Cinquanta, della fecondazione in vitro e dello studio fisiologico della menopausa, strettamente legata a una vera e propria tempesta ormonale. In The Menopause Brain (2024), la neuroscienziata Lisa Mosconi dimostra come, prima di tutto, la menopausa sia un episodio del cervello, organo dotato di una sua struttura ormonale complessa e strettamente connessa alle ovaie, che evolve durante l’intera esistenza e che, durante la perimenopausa, gioca per anni a ping-pong con la mente e il corpo delle donne (modificandone ormoni, ossa e muscoli). In quel lungo lasso di tempo la struttura, la chimica e la connettività cerebrale sono radicalmente trasformate dalla menopausa. In breve: il climaterio non è una patologia, né un aspetto dell’invecchiamento, ma la transizione da un tipo di funzionamento all’altro del cervello durante la quale si riorganizza con nuove funzioni e cambia, tra le altre cose, la regolazione della temperatura corporea, la libido, le emozioni. Ad esempio, con la menopausa l’attenzione femminile si focalizza, potendo abbandonare il famoso multitasking (altro termine di cui avremmo fatto volentieri a meno, almeno io) al quale la condannavano gli estrogeni, diventa più stabile e può assumere anche una nuova visione del mondo.
Quando la donna entra nella turbolenta fase della menopausa può vivere momenti di ansia immotivata, sbalzi d’umore, attacchi isterici, irresistibili desideri erotici, vampate di calore o sensazione di freddo improvviso, depressione: non sta impazzendo, né sta cadendo in una paranoia ipocondriaca, ma è il suo cervello che si sta modificando, a spese di tutto il resto. Negli Stati Uniti attualmente il 75% dei medici non è preparato e licenzia la paziente senza averle prescritto nessun trattamento. Da noi non va molto diversamente. Per comprendere i 70 tra sintomi e comorbidità individuati al momento, tipici dell’esperienza più trasformativa (come definita dalla filosofa Laurie Ann Paul), basterebbe connettere i saperi di campi diversi, come quello neurologico, ginecologico, endocrinologico. Qualsiasi donna ne abbia fatto esperienza ha provato sulla propria pelle come la medicina continui ad annaspare, avendo sempre ignorato il più importante cambiamento della vita femminile insieme al suo corpo, considerato per secoli una versione difettata di quello maschile. La donna balla da sola fino alla fine, viaggia attraversando in solitaria un’esperienza che resta sostanzialmente afona, senza un suo spazio preciso nella medicina né nella società. Oggi, passo dopo passo, inciampo dopo inciampo, si inizia finalmente a dare la parola a un’esperienza altrimenti quasi silente e della quale la scienza inizia da pochi anni a balbettare, si rimettono a posto, uno dopo l’altro, i pezzi del mosaico nel quale la donna si rompe, sgretolandosi momentaneamente mentre gli estrogeni abbandonano a frotte il suo corpo. Giocando col paradosso, rovesciando un tavolo carico di carte ormai vecchie e superate, alla fine del suo saggio Gloria Origgi trova forse l’ultima risposta, quella definitiva alla domanda con la quale si apriva il libro (una donna in menopausa è ancora una donna?): “forse bisognerebbe assegnare il sesso non alla nascita, ma alla fine della vita: quando si vede chiaramente se il percorso di un individuo sia stato un percorso maschile o femminile”.
L’unica certezza sulla quale si trovavano tutti d’accordo era che la menopausa, che ancora non si chiamava così, altro non fosse che una transizione dalla fertilità alla infertilità, un peggioramento e una perdita irreversibili. Il termine “ménèspausie” fu introdotto per la prima volta nel 1816 dal medico Charles-Paul-Louis de Gardanne che lo trasformò nel definitivo “menopausa” nel 1921, nel titolo del suo best-seller De la Ménaupause ou de l’âge critique des femmes. La svolta che avrebbe finalmente segnato lo studio dell’età di mezzo femminile si sarebbe consumata solo nel 1946 con l’avvento dell’endocrinologia, e l’inaugurazione di una vera e propria teoria degli ormoni e del loro ruolo. La scoperta dell’apparato endocrino, il terzo sistema di comunicazione tra le varie parti del corpo, oltre a quello sanguigno e quello nervoso, fu rivoluzionario ed ebbe un seguito medico di forte impatto sociale e culturale, all’origine dell’invenzione della pillola anticoncezionale negli anni Cinquanta, della fecondazione in vitro e dello studio fisiologico della menopausa, strettamente legata a una vera e propria tempesta ormonale. In The Menopause Brain (2024), la neuroscienziata Lisa Mosconi dimostra come, prima di tutto, la menopausa sia un episodio del cervello, organo dotato di una sua struttura ormonale complessa e strettamente connessa alle ovaie, che evolve durante l’intera esistenza e che, durante la perimenopausa, gioca per anni a ping-pong con la mente e il corpo delle donne (modificandone ormoni, ossa e muscoli). In quel lungo lasso di tempo la struttura, la chimica e la connettività cerebrale sono radicalmente trasformate dalla menopausa. In breve: il climaterio non è una patologia, né un aspetto dell’invecchiamento, ma la transizione da un tipo di funzionamento all’altro del cervello durante la quale si riorganizza con nuove funzioni e cambia, tra le altre cose, la regolazione della temperatura corporea, la libido, le emozioni. Ad esempio, con la menopausa l’attenzione femminile si focalizza, potendo abbandonare il famoso multitasking (altro termine di cui avremmo fatto volentieri a meno, almeno io) al quale la condannavano gli estrogeni, diventa più stabile e può assumere anche una nuova visione del mondo.
Quando la donna entra nella turbolenta fase della menopausa può vivere momenti di ansia immotivata, sbalzi d’umore, attacchi isterici, irresistibili desideri erotici, vampate di calore o sensazione di freddo improvviso, depressione: non sta impazzendo, né sta cadendo in una paranoia ipocondriaca, ma è il suo cervello che si sta modificando, a spese di tutto il resto. Negli Stati Uniti attualmente il 75% dei medici non è preparato e licenzia la paziente senza averle prescritto nessun trattamento. Da noi non va molto diversamente. Per comprendere i 70 tra sintomi e comorbidità individuati al momento, tipici dell’esperienza più trasformativa (come definita dalla filosofa Laurie Ann Paul), basterebbe connettere i saperi di campi diversi, come quello neurologico, ginecologico, endocrinologico. Qualsiasi donna ne abbia fatto esperienza ha provato sulla propria pelle come la medicina continui ad annaspare, avendo sempre ignorato il più importante cambiamento della vita femminile insieme al suo corpo, considerato per secoli una versione difettata di quello maschile. La donna balla da sola fino alla fine, viaggia attraversando in solitaria un’esperienza che resta sostanzialmente afona, senza un suo spazio preciso nella medicina né nella società. Oggi, passo dopo passo, inciampo dopo inciampo, si inizia finalmente a dare la parola a un’esperienza altrimenti quasi silente e della quale la scienza inizia da pochi anni a balbettare, si rimettono a posto, uno dopo l’altro, i pezzi del mosaico nel quale la donna si rompe, sgretolandosi momentaneamente mentre gli estrogeni abbandonano a frotte il suo corpo. Giocando col paradosso, rovesciando un tavolo carico di carte ormai vecchie e superate, alla fine del suo saggio Gloria Origgi trova forse l’ultima risposta, quella definitiva alla domanda con la quale si apriva il libro (una donna in menopausa è ancora una donna?): “forse bisognerebbe assegnare il sesso non alla nascita, ma alla fine della vita: quando si vede chiaramente se il percorso di un individuo sia stato un percorso maschile o femminile”.

