L’agire
umano ha la caratteristica di essere sempre plurimo. Si manifesta pienamente
solo se condiviso con altri e altre: pensare, agire, giudicare, creare, volere,
amare, sono facoltà che teoricamente si possono concepire anche da sole, ma che
in pratica acquisiscono realtà solo in relazione con altri soggetti che
rispondono, agiscono e reagiscono. L’alternarsi delle epoche storiche, con i
conseguenti mutamenti teorici, sociali ed economici, ha dimostrato la prevalenza
di talune facoltà rispetto ad altre. La cultura greca e, in particolare, la
scuola socratica, pur tenendo in alta considerazione l’agire come facoltà
costitutiva dell’essere umano, ha preferito subordinarla all’attività
intellettuale. Anche il cristianesimo, adeguando la dottrina platonica e
aristotelica alla sacra scrittura, ha considerato l’azione come dominata dal
pensiero contemplativo. Successivamente, con l’avvento dell’epoca moderna e
contemporanea, si è innalzato a valore universale il lavoro, soppiantando in
questo modo le attività intellettive per subordinarle alla catena lavorativa. La
filosofia ha sempre legittimato la preminenza del pensiero su tutte le altre
facoltà umane ritenendole responsabili di ingannare l’animo umano per il gusto
di vederlo vacillare e tenerlo fermo alla condizione di ferinità. Aderendo ad
una tradizione più che consolidata, Pico della Mirandola esortava ad
abbandonare tutto ciò che è terreno per ricercare il celeste e il
soprannaturale. Solo allora, secondo lui, l’essere umano non sarebbe stato inferiore
agli angeli. Eliminando, infatti, tutto ciò che è materiale, è possibile
raggiungere la perfetta spiritualità e trovare così, forse già qui sulla terra,
la calma e la pace divina.
Come
è evidente, è dal disprezzo della vita biologica e materiale, dallo svilimento
di tutto ciò che è legato alla dimensione corporea che la nostra tradizione
filosofico-politica ha puntualmente contrapposto l’ambito della necessità a
quello della libertà e del pensiero.
L’essere
umano sembra farsi carico di un senso di ribellione, di non accettazione del
dono offertogli nel momento in cui è venuto al mondo, preferisce scambiare tale
dono con qualcosa che crea egli stesso. Scambiare la verità con una realtà costruita,
creare un mondo fittizio così da poterlo sostituire con quello reale, aumenta
il senso di onnipotenza. L’uomo si comporta al pari di un dio, al quale, di
fatto, ha sottratto l’esclusiva potenza creatrice e, illudendosi di essere il
consapevole artefice di ogni cosa, finisce per essere succube di ciò che ha
creato, riducendo la sua “animità” a “bestialità”. Si aliena, come direbbe
Marx, si perde nei molteplici sistemi che ha creato, senza riuscire più a
controllarli. Questa visione, a dir poco apocalittica e onirica, ha già avuto
la possibilità di realizzarsi ergendosi sulle fondamenta di una menzogna
incontrollata.
Siamo
gli spettatori di quest’affanno di produzione: opere, azioni, parole, mirano
all’eternità pur sapendo che gli esseri mortali hanno una vita biologica che scorre
in maniera lineare dalla nascita alla morte e, per quanto si desideri imprimere
le proprie tracce nel terreno, purtroppo o per fortuna, non si potrà mai
trovare posto in una vita immortale.
Ma
la vera azione che non si riduce mai a un semplice “fare qualcosa”, sfugge ai
meccanismi di oggettivazione e si colloca tra passato e futuro. “L’incomprensione del presente, scrive Ernst
Bloch, nasce fatalmente dall’ignoranza del passato”, e non possiamo che essere
d’accordo visto che la somma totale di pensieri, ricordi, parole, carne, il
miscuglio del quale è composto l’essere umano gli è dato in gran parte proprio
da questo passato, ricordi di esperienze vissute, di sensazioni e parole
influiscono a determinare quel che è e quel che diventerà domani. Ci comportiamo
come se fossimo stati gettati su questa terra senza radici, senza alcunché a
cui fare riferimento, come orfani sprovvisti di qualsiasi forma d’amore,
dimenticandoci di essere figli di un’importante patrimonio che rechiamo nel
presente e nel futuro in maniera inscindibile. L’azione sintetizza ciò che
confluisce in noi del pensiero e della vita, dell’originalità individuale e
dell’ordine totale, della scienza, della fede, dell’arte, è ciò che costituisce
il tessuto concreto di ciascun essere assicurando la sua comunione con tutti e
tutto, rendendo possibile tramite un atto di volontà con il quale gli uomini e
le donne decidono di entrare e partecipare alla comunità del mondo. La
relazione con l’altro apre la strada al sentimento di vera amicizia che nasce e
si arricchisce proprio aprendosi al diverso. L’amicizia crea le condizioni di
autonomia nell’uomo, poiché gli permette di sostituire l’obbedienza ideologica,
religiosa o politica che sia, con il dialogo e il piacere della relazione. Risolleva
l’essere umano dallo stato di ferinità e lo pone dinanzi al suo essere più
intimo, donandogli fiducia nel ricreare quei sentimenti di umanità e di libertà
che oggi sembrano riecheggiare solo nei libri di storia. Questo è il fondamento
“infondato” della democrazia. Solo tenendo insieme l’immediatezza della
relazione intersoggettiva, dell’esperienza vissuta e facendo i conti con il
carattere di realtà effettivo del mondo, si fa breccia nel cuore dell’oscurità
dei tempi bui e si può tentare, come dichiara Hannah Arendt di “produrre una
scintilla di umanità in un mondo divenuto inumano”.