Cos’è stato fatto fino ad oggi, e
cosa rimane ancora da fare?
Dopo la conferenza di Pechino i
problemi di applicazione della sua Piattaforma sono stati discussi ogni anno
dalla Commissione ONU sulla condizione
delle donne (CSW), organismo funzionale del Consiglio Economico e
Sociale (ECOSOC) delle Nazioni Unite istituito nel 1946. La Commissione,
composta dai rappresentanti di 45 Stati eletti dall’ECOSOC in base a un
criterio di equilibrio geografico, ogni anno esamina un tema prioritario e
invia raccomandazioni per i governi, gli organismi intergovernativi, le
istituzioni e la società civile. L’agenda
dei lavori della 59esima sessione ha previsto come tema prioritario la
Piattaforma d’azione di Pechino, mostrando un notevole divario tra le politiche
elaborate e la loro applicazione. Le Nazioni Unite hanno concretizzato il loro
impegno sul fronte femminile dando vita nel 2010 a UN Women, agenzia parte del Gruppo per lo sviluppo. Con uno staff
di quasi 2000 unità, UN Women è operativa in 90 Paesi e ha il compito di
promuovere l’eguaglianza di genere e i diritti delle donne. Nonostante le
critiche da parte di attivisti e associazioni, che accusano l’agenzia - e in
generale gli enti per i diritti delle donne - di essere una “blanda
riaffermazione degli impegni presi a Pechino”, UN Women è stata fondamentale
per la creazione di standard minimi condivisi da cui partire per la
sensibilizzazione dell’opinione pubblica e per l’azione sui governi affinché
introducano legislazioni volte all’eguaglianza di genere. Questo è vero soprattutto per quanto riguarda
la violenza contro le donne. Proprio
per rispondere a un problema che oggi è impossibile ignorare, nel 2011 è stata
adottata la Convenzione di Istanbul sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la
violenza domestica, un documento del Consiglio d’Europa che mira a punire e
prevenire violenza psicologica, atti persecutori (stalking), violenza fisica,
violenza sessuale, matrimonio forzato, mutilazioni genitali femminili, aborto
forzato o sterilizzazione forzata. Resta tuttavia ancora molto lavoro da fare,
se si pensa che, secondo le stime di UN Women, oggi 1 donna su 3 nel mondo è
ancora vittima di violenza fisica e psicologica. Quella della violenza sulle donne non è
l’unica area in cui è necessaria un’azione urgente.
Resta prioritario il problema delle spose bambine, che ha ancora numeri
spaventosi: si parla infatti di 14.2 milioni di minori costretti a sposarsi
ogni anno, per una cifra totale di 140 milioni. Occorre poi riportare
l’attenzione dei governi sulla questione delle mutilazioni genitali femminili, pratica perpetuata in nome di
tradizioni sociali e religiose che mette a rischio la vita di milioni di donne
e ragazze in 29 Paesi. Secondo stime
dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità, sono oltre 100 milioni nel mondo le
vittime di mutilazioni genitali femminili (MGF), largamente diffuse in molte
regioni africane, del Medio Oriente, dell’Asia e dell’America Latina, ma
presenti anche in Europa. Secondo il Parlamento europeo sono circa 500mila le
donne e le ragazze che convivono con le mutilazioni genitali femminili sul
nostro territorio, e 180mila coloro che rischiano annualmente di essere
sottoposte alla pratica. La Convenzione di Istanbul è il primo trattato che
riconosce l'esistenza delle MGF in Europa e la necessità di affrontare il
fenomeno in modo sistematico, nonostante la forte resistenza che si incontra
anche da parte delle stesse madri e delle società nel loro complesso, ancorate
a pratiche tradizionali che considerano necessaria l’infibulazione per
garantire la purezza delle ragazze. Impossibile inoltre non citare la
difficoltà di accesso all’educazione
femminile, soprattutto in alcuni Paesi africani, in Medio Oriente, in
Pakistan - da dove si è levato l’appello di Malala, la giovane che ha sfidato i
talebani con la sua lotta per il diritto all’istruzione - e in Afghanistan,
dove circa l’85% delle donne resta priva di educazione.
A vent’anni da Pechino, tuttavia,
arrivano anche notizie positive sul fronte dei diritti delle donne. La rappresentazione femminile è in
aumento; oggi ci sono 11 parlamenti con più del 40% di donne, e nove donne a
capo del governo. È diminuita inoltre la mortalità femminile durante il parto, scesa del 45% a livello
globale - seppure il 99% di questi decessi avvenga ancora nei Paesi in via di
sviluppo, in particolare nell’Africa sub-sahariana. Siamo tuttavia lontani dalla parità di genere,
annunciata dalle Nazioni Unite per il 2030, e per raggiungere l’obiettivo
occorre costruire un percorso collettivo che si focalizzi anche sull’inclusione delle donne nel processo
economico. E questo non vale solo per i Paesi in via di sviluppo, ma
anche per gli Stati occidentali: basti pensare che, secondo il Gender Gap
Report 2014 - lo studio del World Economic Forum sulle disparità di genere
nel mondo che analizza la situazione di 142 Paesi - l’Italia arriva solo al
114esimo posto nella classifica sull’accesso femminile alle opportunità
economiche, alle spalle di Angola, Costa d’Avorio, Belize, Guinea, Burundi,
Zambia, Ucraina e Romania. Se, come si
legge nel rapporto 2015 di UN Woman, l’economia
lavorasse per le donne, “le loro scelte di vita non sarebbero vincolate
agli stereotipi, allo stigma e alla violenza di genere; il lavoro retribuito e
non retribuito che le donne fanno verrebbe rispettato e valorizzato; e le donne
sarebbero in grado di vivere la loro vita senza violenza e molestie sessuali.
Avrebbero pari voce nei processi decisionali in campo economico: avrebbero voce
su quanto tempo e quanto denaro vadano spesi nelle loro famiglie; avrebbero,
inoltre voce sui modi in cui le risorse
vengono aumentate e allocate nelle loro economie nazionali e avrebbero voce
sulle più ampie politiche economiche stabilite dalle istituzioni globali.
Luisa Festa