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Assistere


L’ospedale è un luogo di sofferenza,  nella vita, un luogo  di grande umanità, di vizi e privilegi, di sopraffazione e gioia. Di possibile violenza addizionale, si sarebbe detto un tempo. Un grande ospedale ha i suoi trasporti interni, una sua viabilità, i dolori sono visibili anche all’esterno delle corsie. La felicità nel bar si associa a parole di conforto per chi sa di non potercela fare, perché la malattia può non perdonare ed il momento della diagnosi certa può essere più infausto della morte. Si muore incoscienti, nell’ospedale si vive di ansie e paure; negli anni 2000 quasi tutto si sa diagnosticare, ma  non sempre si riesce a curare. Un grande ospedale è fonte di passione e di lavoro, di tormenti ed energia, è circondato da un muro di cinta  che non si erge alto, ma che, come ogni muro serve a separare il dentro dal fuori, separa la realtà ospedaliera dal territorio; come ogni muro, anche quello dell’ospedale,  serve a conservare ciò che è dentro. Abbattere il muro di cinta di un grande ospedale o,  per meglio dire,  come oggi si chiamano i grandi ospedali, di un’azienda ospedaliera di rilievo nazionale, non è facile, forse impossibile. Il significato metaforico e comunicativo dell’abbattimento di un muro è però di grande rilievo. Caduto il muro di Berlino si vogliono costruire muri per non far arrivare migranti nei paesi più ricchi. Anche le  aziende ospedaliere, i grandi ospedali, hanno mura di cinta. Per entrare bisogna essere autorizzati e guardie giurate presidiano i varchi per non far entrare estranei:  possono entrare  solo coloro che vi lavorano, medici, infermieri, amministrativi, i malati e, in alcuni casi, i loro familiari. Ciò che avviene all’interno di un grande ospedale con le mura,  assomiglia a ciò che avviene in un paese. C’è la banca, alle volte l’ufficio postale, il bar, la mensa-ristorante, l’edicola, la chiesa, lo spaccio dove fare la spesa. Vi si nasce, nell’ostetricia, vi si muore, nei reparti e quindi si va all’obitorio. Nel grande ospedale ci sono nascite e morti e, come in ogni paese, c’è una routinaria quotidianità, fatta anche di tante discussioni, di tanti commenti e dicerie. Non sempre è il “Discutiamo insieme”,  quanto c’invita a fare il profeta Isaia nella Bibbia. Le discussioni celano a volte maldicenze, piccoli e grandi ricatti, lotta per il potere, commenti a storie di vita normale, relazioni amorose e relazioni perverse, promesse e disincanti. Fino a giungere a casi in cui le discussioni sono il viatico per conflitti e turbamenti che poco hanno a che fare con l’assistenza. Perché il grande ospedale deve, più di tutto,  assistere, prima ancora accogliere, poi diagnosticare, quando può, guarire e poi dimettere. Un ciclo, quello dell’assistenza,  che va dall’immissione alla dimissione, dal fuori, al dentro e poi di nuovo al fuori ciclo che, assomiglia a quello produttivo di un’azienda.  Ma non deve essere solo azienda. Deve essere prima di tutto sanità, prima di tutto assistenza. Assistere vuol dire aiutare con la propria presenza, con la propria partecipazione. Ma assistere può anche vuol dire partecipare in qualità di spettatore, essere presente ad un fatto. Forse la domanda che andrebbe proposta, ogni mattina, a chi lavora nel grande ospedale è  : come ci sei oggi? In qualità di spettatore, pronto a lamentarti, criticare, esser presente con il corpo, ma non con la mente ed i tuoi sentimenti? O sei al lavoro per dare una mano d’aiuto con la tua presenza attiva, propositiva, partecipare concretamente alla vita dei reparti con serenità, con abnegazione, quando possibile, con felicità. Uno dei problemi irrisolti della sanità pubblica, dei grandi ospedali è che, nel primo caso, come nel secondo, lo stipendio a fine mese arriva lo stesso, uguale per tutti,  senza meccanismi efficaci di valutazione che consentano di dare un po’ di più a  chi lavora bene e un po’ di meno a chi lavora peggio e sa solo lamentarsi perché manca qualcosa. In questo contesto sguazzano la politica dei privilegi immotivati, le azioni sindacali a difesa di alcuni protetti, i professionisti che spingono verso forme di assistenza a pagamento.


Roberto Landolfi