La
povertà, soprattutto quella estrema, genera spesso, in chi la osserva,
sentimenti contrastanti che vanno dall’istintiva solidarietà, alla ripugnanza,
alla brutale avversione. Pur avendo maturato questa consapevolezza attraverso
il mio percorso di vita e di studio, non ho mai imparato a tacitare il dolore
che provo leggendo – nelle pagine di cronaca dei giornali – delle aggressioni,
soprattutto ai danni dei senza dimora. Come è possibile, mi sono sempre chiesto,
per ragioni futili o addirittura per semplice passatempo, scagliarsi contro
uomini e donne già così duramente provati dalla vita? E se invece dietro questi
gesti scellerati vi fosse una più solida ragione, anche teorica? Non so. Certo
in un solo caso ho sorriso di questi interrogativi e mi è successo leggendo uno
dei poemetti in prosa de Lo Spleen di
Parigi, di C. Baudelaire (in Opere, I Meridiani – Mondadori, Milano),
dall’emblematico titolo di Prendiamo a
botte i poveri, o – come in altre traduzioni – Accoppiamo i poveri.
Un
poemetto sul tema della ribellione, in cui il protagonista, dopo aver passato
giorni rinchiuso a leggere libri in cui “è trattata l’arte di rendere i popoli
felici, saggi e ricchi”, esce di casa per andare a bere qualcosa ed incontra un
mendicante sul quale decide di sperimentare una sorta di terapia d’urto
risocializzante.
«Mentre
stavo ficcandomi in una bettola, un mendicante mi tese il cappello, con uno di
quegli sguardi indimenticabili che manderebbero all’aria i troni, se lo spirito
sconquassasse la materia, e se l’occhio di un magnetizzatore facesse maturare i
grappoli.
[…]
Di
colpo balzai sullo straccione. Con un solo cazzotto gli tappai un occhio, che
diventò, in un secondo, grosso come una palla. Mi ruppi un’unghia per spezzargli
due denti, e poiché non mi sentivo forte abbastanza, essendo nato delicato, e
essendomi esercitato poco alla boxe, per accoppare rapidamente quel vecchio, lo
afferrai per il colletto dei suoi stracci, gli strinsi una mano alla gola, e mi
accanii a sbattergli vigorosamente la testa contro il muro. Devo confessare che
avevo prima ispezionato con un colpo d’occhio i dintorni, e mi ero assicurato
che in quel suburbio deserto sarei stato ancora a lungo fuori della portata di
qualsiasi poliziotto.
Avendo
poi, con un calcio piantatogli sul dorso, abbastanza forte da fracassargli le
scapole, atterrato quel sessantenne indebolito, abbrancai un grosso ramo che
trovai a terra, e lo picchiai con l’energia ostinata dei cucinieri che vogliono
intenerire una bistecca.
Di
colpo, - o miracolo! O gioia del filosofo che verifica l’eccellenza della sua
teoria! -, io vidi quella vecchia carcassa avvitarsi su di sé, raddrizzarsi con
una forza che avrei mai sospettato in una macchina così bizzarramente
malandata, e, con uno sguardo di odio che mi parve di buon augurio, il decrepito malandrino si scagliò su di me, mi
gonfiò i due occhi, mi ruppe quattro denti, e con lo stesso ramo mi batté come
un tappeto. – Con la mia energica medicina gli avevo restituito l’orgoglio e la
vita».
Il
poemetto – che si chiude con magnifico fair
play tra lo sperimentatore sociale in erba e il mendico riattivato – può
anche far sorridere, la violenza sui senza dimora no.
Per
questo credo ancora nell’utilità delle ricerche sulla povertà estrema e sui
vissuti di chi è finito in strada: la presa di coscienza, la comprensione e la
condivisione umana dei percorsi (molti dei quali comuni) che portano a queste condizioni di vita, sono forse tra i
rimedi più efficaci alla chiusura indifferente e al disprezzo violento.
Ivo Grillo