testata registrata presso Tribunale di Napoli n.70 del 05-11-2013 /
direttore resp. Pietro Rinaldi /
direttore edit. Roberto Landolfi

La sanità che cambia


Privilegiare l’assistenza territoriale rispetto all’assistenza ospedaliera sembra una questione ovvia, condivisa da tutti. Ma in pratica  non lo è. 
 In special modo nelle regioni del sud Italia che non sono state in grado, nel corso degli ultimi anni, di avviare il processo di riconversione dei piccoli ospedali, ormai improduttivi se non dannosi e, nel contempo, spiegare ai sindaci, in primis, e poi alla popolazione che i piccoli ospedali non vanno chiusi.  I piccoli ospedali vanno trasformati in presidi territoriali accessibili aperti 12 ore, se non 24 ore al giorno, capaci di dare risposte  efficaci in termini di prevenzione medica, diagnosi e cura delle malattie, ma senza avere più posti letto. Non è solo una questione di risorse, in particolare economiche, ma di modelli organizzativi e di governo dei processi di cambiamento. Cambiamento che deve essere in primo luogo, culturale.
Tre le questioni per riuscire a rendere politicamente vincente il cambiamento in sanità pubblica. Cambiamento che deve sancire  il passaggio dal paradigma “ospedale” al paradigma “territorio”. In questo passaggio, ancora una volta, la politica giuoca un ruolo da protagonista.
La prima questione è di natura culturale. 
La seconda questione attiene la semplificazione delle attività. 
La terza questione è mettere al centro del sistema, con fatti e non parole, il malato cronico.
Affrontiamo in sintesi le tre questioni.
Prima questione : le Regioni dove la sanità funziona al meglio non hanno solo ospedali e servizi sanitari funzionanti bene. Hanno una buona regia. La regia del sistema sanitario viene effettuata dalle Regioni ed è dalle Regioni, dirigenti, funzionari e personale tutto che bisogna partire. Se i dirigenti regionali sono sfiduciati, ritengono che nulla cambi, pensano che tutto sommato gli ospedali ci sono ed, in fondo, “la barca va”, nessun processo di cambiamento può essere messo in atto. Occorre che il personale delle regioni reimpari a comunicare. Non è più tollerabile che giornali, televisioni, internet, dispositivi vari, siano male utilizzati al sud. Molti operatori delle regioni del centro nord hanno imparato ad utilizzare al meglio i mass media e a rendere  accessibili a tutti i risultati del proprio lavoro. Non è più consentito che si identifichino le regioni del nord come aree di buon funzionamento e le regioni del sud come aree dove predomina la malasanità. Non è vero. Non risponde al vero. Casi di malasanità, errori medici, avvengono al nord come al sud; accade però che quelli che avvengono al sud vengono amplificati. Si deve passare da “una comunicazione d’attesa ad una comunicazione d’iniziativa”. Questo lavoro deve partire dalla regione. Deve poi vedere coinvolte ASL ed ospedali.
Seconda questione che riguarda l’assistenza territoriale è la semplificazione: quando si dice ospedale la gente capisce subito di che si tratta. Quando si dice “distretto” pochi sanno cosa è. Occorre rendere comprensibile alla popolazione, all’utenza cosa fanno, di sanitario e non di amministrativo, i servizi territoriali. Ecco esempi di sigle normalmente usate da chi si occupa di sanità territoriale : ISS; AFT, UCCP, PDTA, UVBR, RSA, SUAP, DSM, ADI e si può continuare a lungo. Sigle incomprensibili agli utenti. Anche se le declinassimo per esteso le uniche parole comprensibili all’utenza forse sarebbero : ambulatori, assistenza domiciliare, riabilitazione. 
Per quanto attiene la Regione Campania si potrebbe  applicare il modello della Lombardia, opportunamente modificato. Il modello cioè di separazione della committenza dalla produzione. Per esser più chiari: metter fuori dalle ASL i Presidi Ospedalieri e passarli sotto la gestione delle Aziende Ospedaliere. Qualcosa di simile a ciò che è avvenuto con il passaggio del CTO dall’ASL Napoli 1 all’Azienda dei Colli. Andrebbe fatto per tutti i presidi ospedalieri. Per farlo i tempi sono lunghi: ma se non si comincia…. Serve una legge regionale da hoc, un cambiamento di passo ed una decisione politica molto forte. Le ASL potrebbero occuparsi finalmente di sola assistenza territoriale, di programmazione e controllo del privato accreditato che, è bene ricordarlo, assorbe circa il 30% delle risorse economiche del Servizio sanitario nazionale; di programmazione e controllo dei Medici di Medicina Generale  e dei Pediatri di libera Scerlta, veri protagonisti dell’assistenza territoriale. Va messo al centro del sistema il malato cronico e la figura professionale maggiormente a tali malati dedicata: il Medico di medicina generale ed il pediatra di libera scelta.   Per cominciare vanno recepite  le indicazioni del Piano Nazionale Cronicità (PNC) licenziato dal Ministero della Salute ed approvato dalla Conferenza Stato Regioni e farlo divenire il fulcro, intorno al quale gira tutto il sistema, dalla sanità pubblica territoriale alla sanità privata accreditata. 
Terza questione : il malato cronico. Le malattie croniche rappresentano la vera epidemia del ventunesimo secolo. Debellate o messe sotto controllo  la gran parte delle malattie infettive, tranne alcune,  come la fastidiosa e pericolosa influenza, grazie ai progressi della ricerca scientifica e della medicina preventiva, sono le malattie croniche ad essere il principale problema di sanità pubblica. Dal diabete, alle malattie cerebrovascolari, dalle artropatie ai tumori, dalle malattie respiratorie alle malattie renali. Assistiamo ad  una vera espansione e diffusione di tali patologie che rappresentano una vera e propria emergenza socio sanitaria. Ciò anche a causa dell’invecchiamento progressivo della popolazione e dell’allungamento della vita media. Più si vive più si va incontro a malattie degenerative, a malattie croniche che debbono essere opportunamente trattate e prevenute. La diagnosi è il momento principale della storia naturale di una malattia cronica. E, nella grande maggioranza dei casi, la diagnosi di precisione avviene negli ospedali, altamente qualificati e specializzati. E poi? quando è stato diagnosticato un diabete complesso, una cardiopatia, una patologia respiratoria, renale oncologica cosa succede? È ipotizzabile trattenere il malato in ospedale? No sarebbe pura follia. Il malato, una volta dimesso dall’ospedale viene trattato sul territorio e, sempre più a domicilio. Impatta cioè con tutto quel coacervo di sigle che abbiamo sopra riportato che, ribadiamo, occorre semplificare, mettendo al centro del sistema il malato e la sua cronicità.
Occorre quindi orientare i servizi  verso un’offerta proattiva e personalizzata,  valorizzare la relazione con le risorse della comunità (a cominciare dal volontariato), identificare il MMG quale responsabile del Piano di Cura Personalizzato garantire la continuità assistenziale basata sullo stato evolutivo e sul grado di complessità della patologia. Per giungere al potenziamento delle cure domiciliari e riduzione dei ricoveri ospedalieri anche attraverso l’uso di tecnologie innovative e di tecno assistenza;  modelli assistenziali centrati sui bisogni globali del paziente e non solo clinici.
Si tratta di realizzare  un evidente cambio di passo: al centro del sistema il malato cronico, grande valorizzazione della medicina generale, grandi innovazioni in tema di informatizzazione delle attività e rinnovata capacità di comunicare i programmi, le scelte, i risultati, gli esiti.
È questa la sfida che attende le regioni meridionali, ora che i bilanci cominciano ad essere in regola, per riequilibrare le differenze di salute e far si che chi nasce a Napoli, Palermo o Reggio Calabria non abbia una speranza di vita inferiore a chi nasce a Milano, Trento o Bologna.

 Roberto Landolfi