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Ancora un breve pezzo tratto dal libro di Lucia “Derfilè”. Ne abbiamo pubblicati alcuni ritenendo che sia necessario fermarsi sul  tema dell’accoglienza e sui “confini che sono tutti bugie”, con attenzione, con approfondimenti, guardando al fenomeno con studio e lavoro. Ecco perché abbiamo ripreso gli scritti di Lucia, sul lavoro da lei svolto con le immigrate,  del 1999. Sono passati venti anni, molto è cambiato. La migrazione dall’Africa ha assunto caratteristiche epocali, il mediterraneo è diventato un mare di morte, si ripresenta il razzismo, non più come fatto episodico. Negli ultimi mesi anzi la situazione è ulteriormente peggiorata, anche in Italia, con un governo che mai avremmo voluto vedere all’opera in questa maniera.

Lo scritto che segue è l’ennesima dimostrazione di un atto d’amore di Lucia verso le sue amiche immigrate (NdR)  

 

 

Care amiche


Sono trascorsi solo alcuni mesi dalla conclusione della nostra esperienza di studio e di lavoro, e già mi manca la vostra presenza. Non mi era mai accaduto prima. Ritornando ad Aversa avevo la speranza d’incontrarvi. I luoghi dove è facile incontrare le vostre compagne, la stazione centrale di Napoli, in via Torino dove vendono su bancarelle improvvisate le loro mercanzie (treccine per capelli, parrucche, tessuti, tinture, cibo, musica) mi sembrano i posti più vivi della città.
Sono vive oltre la tradizione che qui si frantuma. Indossano abiti morbidi che coprono completamente il corpo, sembrano fatti di una stoffa brillante che riflette la luce con la stessa intensità delle loro teste nere e gli occhi sembrano enormi e luminosi contro la pelle scura.
I gioielli e gli anelli sul corpo sono il segno di una scadente contaminazione occidentale. Gli accessori che acquistano, nei settori dei mercati per loro attrezzati, sono piccole borse coloratissime, come le scarpe quasi sempre aperte di dietro, per poterle sfilare in ogni occasione possibile, lasciando liberi i piedi.
Le loro foto fissano la forza vitale di un contatto. I piedi mettono radici nella terra, il corpo rotondo nella danza si piega in avanti, ricurve le spalle e la schiena, un accovacciarsi verso la terra per partorire, partorire se stessa, insieme donna e terra.
Lentissime e scattanti per tornare piano alla terra o saltare per il tocco inferto dal vento, un respiro che attraversa la pelle con il sudore. Un viaggio dal moto circolare. Terre a cui danno il loro nome.
Chi si prenderà cura di voi? Forse un giorno sarete veramente accolte, senza barriere dovute al razzismo. Troverete il conforto di una città amica.
Risollevate dalle loro esigenze di sopravvivenza, in una terra di pericoli, pregano per la loro Africa e per questo mondo: la devozione alimenta la fede.
L’unica possibilità per rompere l’isolamento sembra risiedere in un atto d’amore. Per mostrare ancora una volta che i confini sono tutte bugie.

Lucia Mastrodomenco – “Defilè” – ed. L’Ancora del Mediterraneo – 1999