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Quarantena.


Riportiamo di seguito il pezzo di Mauro Capocci, pubblicato su “il manifesto” del 29 gennaio 2020. Capocci fa il punto su una tematica di grande attualità: la diffusione della nuova influenza cinese. 
Come andrà a finire la storia del “coronavirus”? Lo sapremo solo a maggio. (NdR)

Il made in Italy in fatto di misure sanitarie è un brand riconosciuto sin dal 1370. È a Venezia che nasce l’abitudine di bloccare per 40 giorni merci e persone sospetti di infezione, e da lì la parola «quarantena» e la pratica si diffonde ovunque.
Era una misura che prescindeva dalle moderne idee sul contagio introdotte da Pasteur: quale che fosse il veicolo della malattia (miasmi nocivi di diversa origine e consistenza, o invisibili esseri viventi), l’isolamento è stato sperimentato in tutte le sue forme.
Venivano fermate le navi alle bocche del porto, o i malati erano trasportati in luoghi fuori città (non ospedali di cura, ma lazzaretti, semplici luoghi di raccolta). Con l’evoluzione delle conoscenze, la quarantena è divenuta sempre più «scientifica», ma non per questo scevra da considerazioni politiche ed economiche, spesso basate sulle nazioni di appartenenza dei medici e dei sospetti infetti.
Sui vapori in arrivo dall’Est, i porti italiani – Napoli, Brindisi, Genova, Palermo – scrutinavano merci e passeggeri, ma erano esclusi quelli di «classe», che avevano acquistato un biglietto di prima e seconda. Gli altri potevano essere tenuti segregati sulle navi e i loro effetti personali lanciati in mare (pratica alternativa all’igienizzazione con autoclave, e usata nei porti di tutto il mondo su ciò che poteva essere contagiato: materassi, cuscini, coperte, ecc.).
I documenti d’archivio raccontano di interventi «riservati» di ambasciatori sulle autorità portuali per la lungaggine delle ispezioni sanitarie, che potevano rallentare la circolazione delle merci e delle persone. Se si è parlato di globalizzazione già nell’Ottocento, va comunque specificato che spesso la sanità è stata usata per «globalizzare» le élite e i loro interessi: di fatto la quarantena è stata usata per selezionare persone e gruppi sociali, uno tra tanti dispositivi del potere.
Considerazioni che vengono sollevate da quella che è stata definita la più grande quarantena della storia. Gli oltre 56 milioni di individui isolati in Cina per il nuovo coronavirus rappresentano una enorme prova di forza del governo cinese nei confronti dei propri cittadini (consapevoli?).
Carlo Cipolla raccontò come le epidemie seicentesche nei dintorni di Firenze rappresentassero un luogo di conflitti di interessi: di fronte ai tentativi di mettere in quarantena i villaggi della Valdarno, c’era qualcuno che la notte andava a rompere le porte della città. Succederà lo stesso a Wuhan? Se le immagini ora mostrano una città fantasma, vuota, è complicato prevedere l’impatto delle misure coercitive.
Storicamente, sappiamo che di fronte alla chiusura dei confini esistono i tentativi di fuga (e il rischio di diffusione «invisibile» della malattia). Inoltre, una quarantena non supportata da adeguata assistenza sanitaria condanna gli isolati a un alto rischio di contagio. Di fronte alla minaccia, le autorità si muovono su un crinale molto sottile, per evitare una sovrastima o al contrario una sottovalutazione dei rischi.
Ciò che è fondamentale, e lo abbiamo imparato a nostre spese circa un secolo fa, è la circolazione di informazioni e la collaborazione paritaria tra tutti gli attori coinvolti. È la lezione dell’epidemia di influenza «spagnola», che tra 1918 e 1919 uccise decine di milioni di persone nel mondo (una stima precisa è impossibile, ma si va da 50 a 100 milioni circa).
Il nome stesso di quella pandemia è dovuto al fatto che la Spagna, non coinvolta nella Prima guerra mondiale, non aveva la stessa severa censura applicata altrove. Se le notizie arrivavano da Madrid, il contagio arrivava invece con i militari e la grande mobilità di persone che la guerra implicava. Truppe da e per il fronte e tenute in ambienti concentrazionari, militari in licenza verso casa, prigionieri di guerra spostati in continuazione, e da ultimo il silenzio richiesto dalle autorità militari per non far circolare informazioni che sarebbero potute risultare utili al nemico.
Come ha dimostrato la storica Eugenia Tognotti, alla virulenza della malattia si aggiunse il caos dovuto alla mancata cooperazione, sia a livello nazionale che internazionale. La sanità militare non fu tempestiva nel girare le informazioni alle autorità sanitarie civili. Mentre le reali cifre di contagio venivano nascoste da tutti gli eserciti, i governi censuravano anche manifestazioni luttuose, per non turbare il morale della popolazione, e i certificati medici non erano sempre veritieri.
Se per fortuna finora il coronavirus cinese non è paragonabile alla terribile influenza del 1918, la cooperazione è la chiave necessaria per combattere un’eventuale epidemia.
La decisione di lasciare libero accesso le pubblicazioni e condividere i risultati ottenuti dalla ricerca è il primo passo, ma va messo in atto anche un piano di cooperazione internazionale per la circolazione e il controllo dei dati, di fatto consentendo alle autorità sanitarie sovranazionali di stimare correttamente i rischi.
Come nel passato, si tratta di barattare una parte di sovranità nazionale in cambio di maggiore sicurezza globale. Tuttavia, nel passato la sovranità veniva spesso ceduta da chi era già in posizione di debolezza: in Italia a inizio Novecento c’erano medici statunitensi a ispezionare gli emigranti in partenza. La speranza è che non vengano frapposti ostacoli di orgoglio nazionale né di politica economica: qualsiasi errore sarebbe imperdonabile e potrebbe rivelarsi tragico.