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Non diventiamo isole


Il silenzio ci diviene familiare. Il silenzio tipico delle isole d’inverno. Chi ha esperienza di vita, in inverno, su una di quelle che gli esperti chiamano “isole minori”, vive in qualche maniera, più a suo agio questo periodo. Nelle città adesso, marzo 2020, anno bisesto, anno funesto, si vive tutti chiusi in casa, si vive come nelle piccole isole d’inverno.
Nelle piccole isole, ancor più se sufficientemente lontane dalla  costa, dal continente, in inverno, gli unici negozi aperti sono gli alimentari, i tabaccai ed i bar. Nessuno, o quasi, dei negozi di abbigliamento, è aperto; mancano cinema, teatri; alla sera sono in funzione ritrovi dove si ascolta musica e si beve qualcosa, ma nulla a che vedere con la movida delle città.
Nelle piccole isole d’inverno gli isolani sono abituati al silenzio, ad accontentarsi: “domani è cattivo tempo, la nave non parte”, ad avere contatti ripetuti con le stesse persone.
La piccola isola, diceva un nostro amico psichiatra, è chiusa, come lo erano un tempo i manicomi. Vive la sua schizofrenia stagionale o meglio la “maniaco-depressiva”; depressione in inverno, maniacalità in estate con l’invasione dei turisti, l’improvvisa velocizzazione dei tempi di vita, la frenesia del fare, fare, ancora di più, con la certezza che, ad ottobre, ritorna la lentezza e lo stallo. 
L’isola è dunque un luogo ma anche uno stato psichico. Uno stato che predispone alla chiusura. Tanti hanno voglia d’andar via, in inverno, dall’isola. Ma i veri isolani, quelli che “ci sono abituati”, mal volentieri lasciano l’isola, anche d’inverno. 
Importante è non identificarsi con l’isola. Rimanere capaci di scambi, di relazioni. Il Vescovo di Bologna, Matteo Zuppi, ci ricorda: “Se siamo delle isole, penseremo solo alla nostra isola e cercheremo di difenderla, di evitare che qualcuno entri, non desiderato. È una tentazione del Male ridursi a un’isola.”
Ecco il rischio maggiore che corriamo in questo periodo d’isolamento, di scarsità di contatti umani e relazioni: “Ridurci ad un isola”.
La ripresa, ci ricordano gli esperti, sarà graduale, ci riabitueremo ai tempi che consideravamo normali. Ma, con tutta probabilità,  aumenterà la diffidenza tra di noi, la paura di avere contatti, di abbandonare la mascherina. 
Riportiamo di seguito un tratto del libro di Fabrizia Ramondino “L’isola riflessa”. Libro di cui abbiamo scritto varie volte in passato. Riteniamo infatti che contenga spunti molto interessanti per contribuire ad allontanare da noi, in questo burrascoso periodo, i fantasmi e le paure che ci circondano. Ne consigliamo la rilettura a chiunque abbia la fortuna di averne una copia.
“Un gruppo di ragazzi lungo un viottolo sta scendendo verso il mare. Sono alti, belli, a torso nudo e scalzi. La pelle ancora glabra. Il loro passo veloce, gli sguardi, i gesti emanano innocente pienezza e gioia fisica. L’aria sembra aprirsi al loro passaggio, cogliere l’occasione per carezzarli.
D’improvviso irrompe fra loro un cagnaccio abbaiante, tenta di azzannare il più giovane alla gamba. Il ragazzo fa un salto, tutti esclamano qualcosa con meno paura e indignazione che sorpresa.
E continuano nel cammino. Mi giro. Un uomo anziano e massiccio sembra richiamare il cane, lo aizza invece di uovo contro i ragazzi, incuranti e che mi hanno di molto sorpassata. Ho paura io. Ma perché non richiama il suo cane? – grido indignata. L’uomo sembra immobile e in silenzio. Quando, più avanti, mi rigiro, lo vedo sempre fermo al suo posto, quasi paralizzato, mentre il cane corre inquieto, come in attesa di altre prede che gli indichi il padrone. 
Proust non avrebbe mai incitato un suo cane contro l’allegra brigata di Balbec. Al contrario di questo signore invidioso era troppo consapevole delle leggi del desiderio.
Fra i pochi alberi dell’isola vi sono alcuni gelsi. I frutti sono ora maturi e ben visibili perché sono rossi e non della varietà  giallo pallido, che da bambini chiamavamo i gelsi di miele.
Non ne vendono per strada e nessuno li coglie. Forse molti turisti non li conoscono nemmeno.
Macchiano molto. Noi li coglievamo seminudi, le macchi rosse erano i nostri tatuaggi, le nostre finte ferire inflitteci da rivali indiani o briganti e dovevamo a lungo strofinarci l’un l’altro con frasche al ruscello prima di tornare a casa, mentre i contadini sapevano coglierli più abilmente, si sporcavano solo le mani….”