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Elezioni

Vince Biden perde Trump. Occorre attendere ancora un po’ per la designazione ufficiale ma, tutto lascia credere che finirà proprio così. Potremmo dire: vince un’altra America, vincono Biden e Harris. Un po’ di respiro (in senso antipandemico ed ecologista) per gli USA e per il mondo.

Ma si è votato anche in altre parti del mondo. In Africa, in particolare. 

Sono di segno diverso le considerazioni che si possono trarre dalla lettura dell’articolo pubblicato sulla rivista “Internazionale” del 3 novembre. Tratta di elezioni in Guinea, Costa d’Avorio e Tanzania. Abbiamo ritento utile contribuire a farlo conoscere anche ai nostri lettori. (NdR)

 

Tre elezioni africane potenzialmente esplosive

 

Tre elezioni presidenziali che si sono svolte nella seconda metà di ottobre gettano un’ombra sui progressi democratici fatti in Africa negli ultimi anni. In Guinea, Costa d’Avorio e Tanzania i cittadini sono stati chiamati alle urne per eleggere il loro presidente, ma tutti questi scrutini sono avvenuti in un clima di tensioni e sono stati caratterizzati, a seconda dei contesti, da violenze, boicottaggi o gravi irregolarità.

In Guinea, dove si è votato il 18 ottobre, Alpha Condé ha ottenuto con il 59,5 per cento dei voti un terzo mandato da presidente, contestato duramente e a lungo dai suoi oppositori perché Condé ha dovuto far adottare una nuova costituzione per potersi presentare la terza volta, nonostante avesse promesso di voler rispettare il limite dei due mandati previsto dalla carta precedente. E così le strade di Conakry, scrive l’Economist, si sono infiammate: morti, feriti, auto incendiate, la casa del principale sfidante di Condé, Cellou Dalein Diallo, circondata dalla polizia per più di una settimana. La rete internet e le telefonate internazionali sono rimaste bloccate fino all’annuncio dei risultati ufficiali il 24 ottobre, risultati contro cui il 2 novembre quattro dei candidati sconfitti hanno fatto ricorso.

Secondo il governo i morti causati dalle violenze post-elettorali sono 21, ma l’opposizione parla di almeno trenta vittime, tra cui dei bambini. È una crisi che molti avevano previsto, sottolinea il settimanale britannico, e che rischia di acuire le divisioni etniche tra i peul, il gruppo di Diallo, e il resto della popolazione. Come spiega l’analista politico senegalese Gilles Yabi, queste rivalità vengono cavalcate di volta in volta dai leader come strumento di mobilitazione politica e finiscono per erodere pericolosamente la coesione nazionale.

Tra gli esperti di politica africana la preoccupazione per gli eventi in Guinea ha ceduto subito il passo a quella per le elezioni del 31 ottobre in Costa d’Avorio, paese dove dieci anni fa le violenze scaturite da un’altra presidenziale contestata avevano causato tremila morti. A quell’epoca il presidente uscente Laurent Gbagbo si era rifiutato di concedere la vittoria allo sfidante Alassane Ouattara, che quest’anno si è candidato a un terzo mandato nonostante avesse promesso (come Condé) di limitarsi a due. In realtà Ouattara aveva designato un successore, Amadou Gon Coulibaly, ma è morto a luglio.

La candidatura di Ouattara – che è stata validata dalle autorità competenti diversamente da quanto è accaduto ad altri quaranta candidati, anche di peso – è stata duramente criticata dagli altri partiti, molti dei quali hanno deciso di boicottare la consultazione. Nei quartieri di Abidjan vicini all’opposizione i seggi erano deserti, in quelli fedeli a Ouattara la partecipazione al voto ha sfiorato l’80 per cento, racconta Jeune Afrique, descrivendo un paese profondamente diviso. Secondo un bilancio dell’Afp, almeno cinque persone hanno perso la vita in violenze legate al voto. Un’altra trentina di persone erano morte in episodi simili da agosto. Dopo il boicottaggio delle urne, l’opposizione riunita intorno agli sfidanti Henri Konan Bédié, 86 anni, ex presidente, e Pascal Affi N’Guessan ha annunciato la creazione di un consiglio nazionale per accompagnare la nascita di un governo di transizione.

Basta dare uno sguardo ai quotidiani ivoriani per constatare quanto sia forte la polarizzazione tra i due campi

Il 3 novembre la commissione elettorale ivoriana ha comunque proclamato Ouattara vincitore al primo turno con il 94,27 per cento dei voti, mentre l’affluenza alle urne è stata ufficialmente del 53,9 per cento. Tuttavia gli osservatori elettorali del centro Carter avevano denunciato il giorno prima che “il contesto politico e di sicurezza non aveva permesso di organizzare un’elezione presidenziale competitiva e credibile”. Basta dare uno sguardo alle prime pagine dei principali quotidiani ivoriani del 3 novembre per constatare quanto sia forte la polarizzazione tra i due campi, con alcuni giornali che mettono in evidenza i giudizi positivi della comunità internazionale sullo svolgimento del voto e altri che ne sottolineano le critiche alla sua credibilità.

“Cosa se ne farà Ouattara di questa vittoria di Pirro programmata? Se tenderà la mano ai suoi avversari è difficile che troverà qualcuno disposto a stringerla”, nota il quotidiano burkinabé L’Observateur Paalga.

Verso la dittatura
Dall’altro capo del continente, in Tanzania, il 28 ottobre il presidente uscente John Magufuli è stato rieletto con l’84 per cento dei voti. Ma anche in questo caso le elezioni non sono state un esempio di democrazia. “Magufuli e il suo partito, Chama Cha Mapinduzi, si sono sempre mostrati sicuri della vittoria. Questa fiducia deriva dal modo in cui Magufuli ha governato da quando è andato al potere nel 2015”, 
scrive l’analista keniano Karuti Kanyinga su The Conversation. “Il suo stile si è caratterizzato per l’intolleranza, il populismo e un atteggiamento da ‘bulldozer’ (il suo soprannome). Ha seguito quest’approccio anche in vista delle elezioni ed è riuscito a mettere fuori gioco l’opposizione, guidata dallo sfidante Tundu Lissu.
Non si può dire che il voto abbia superato il test della credibilità né che sia stato equo e libero”. Kanyinga cita, tra le altre cose, le intimidazioni e gli arresti di politici dell’opposizione con false accuse; lo spazio limitato per i comizi dell’opposizione e le restrizioni imposte ai mezzi d’informazione non filogovernativi; le limitazioni all’uso dei social network e di internet.

Il giuramento del presidente tanzaniano John Magufuli visto dal vignettista Gado.

Per Lissu, che in passato è scampato a un tentato omicidio a sfondo politico, le ultime elezioni sono state un oltraggio, “uno sputo in faccia alla democrazia”. Come lui, molti africani hanno visto la Tanzania, un tempo modello di libertà e tolleranza, allontanarsi dalla strada della democrazia sotto il populista Magufuli, che nel corso degli anni ha fatto parlare di sé per le sue politiche autoritarie, discriminatorie (contro le persone lgbt o le studenti incinte) e il negazionismo (per esempio, di fronte alla minaccia del nuovo coronavirus).

Gli esempi di Guinea, Costa d’Avorio e Tanzania non fanno ben sperare per il futuro del continente. Di certo, come scrive l’esperto di democrazia in Africa Nic Cheeseman, i dittatori – o anche semplicemente i leader mal disposti a lasciare il potere – hanno acquisito negli ultimi anni nuovi strumenti attraverso i quali manipolare i processi elettorali o le carte costituzionali per i loro fini (per esempio, il “colpo di stato costituzionale” denunciato dagli oppositori guineani).

Allo stesso tempo vale la pena di sottolineare ancora una volta che i 54 paesi africani hanno ognuno una storia a sé e che spesso ci sono istituzioni o gruppi della società civile che si propongono come baluardo della democrazia. Quest’anno il premio del centro studi londinese Chatham house per “il coraggio e l’indipendenza nella difesa della democrazia” è andato ai cinque giudici dell’alta corte del Malawi che lo scorso febbraio hanno annullato il risultato delle elezioni presidenziali del maggio 2019, vinte con i brogli dal capo di stato uscente Peter Mutharika. Il voto è stato ripetuto a giugno e ha vinto il suo avversario, Lazarus Chakwera.

 

Francesca Sibani  - pubblicato su “Internazionale” del 3 novembre 2020.