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L' apprendista dello scriba

 Alexios era stato mandato dai genitori nel laboratorio del maestro perché divenisse uno scriba. Era ovvio che il maestro, Abidos, gli avrebbe impartito una serie di lezioni preliminari, per farne uno scriba consapevole, un grammateus. Alexios era ancora molto giovane, quasi un bambino, ma non tanto piccolo da non capire che era in gioco il suo futuro, e che i genitori speravano che la sua vita sarebbe stata meno difficile della propria, dedicata alle fatiche dei campi e alla cura delle poche bestie che possedevano, qualche capra ed un paio di maiali. Alexios si recava ogni mattina nello studio del maestro, che trovava già indaffarato tra il lavoro e le consegne, la contabilità e gli acquisti del materiale scrittorio. Il laboratorio era frequentato da persone di vario e diverso genere: entravano clienti danarosi, che richiedevano la trascrizione di opere e documenti, militari che chiedevano la compilazione di elenchi di uomini ed armi, perfino sacerdoti con documenti sacri e riservati. Poi c'erano le lettere private, decreti e testamenti, tutti da ricopiare sui rotoli di papiro che occupavano ogni spazio, dai tavoli alle pareti. Al principio ad Alexios quella confusione era molto piaciuta; il maestro gli aveva dato una bella tavolozza con inchiostri colorati, le vaschette per l'acqua, il corredo degli arnesi, pennelli e raschietti, stiletti appuntiti. Poi, quando cominciarono le lezioni di grafia e grammatica e le dettature, Alexios non fu più tanto contento: il maestro era esigente e si adirava per gli errori e le macchie d'inchiostro, diceva che il biblos  era costoso e il suo allievo un somaro. Altre volte lo costringeva ad imparare formule di saluto, legali o commerciali, a memoria, oppure a contare le righe scritte di un testo, senza sbagliare, e a riportarne il numero su di un apposito registro. Alexios perdeva facilmente il conto e, dovendo ricominciare a contare da capo, impiegava nell'operazione moltissimo tempo.  A volte i suoi amici passavano a chiamarlo, per invitarlo a giocare con loro, ma il maestro gli negava il permesso dicendo che erano dei fannulloni e che sarebbero rimasti ragazzi di strada, senza istruzione e senza occupazione. Quando poi Abidos si recava in casa di qualche cliente, portava il ragazzo con sé, e ad Alexios toccava camminare con l'attrezzatura al completo, più le tavolette di argilla per gli appunti. Le visite si protraevano anche per ore, ed Alexios si annoiava da morire, magari invidiando i fanciulli delle ricche case dove andava. Il maestro aveva raramente slanci di tenerezza per il proprio allievo. Era un uomo di bassa statura, bruno, dalla chioma ondulata e con folti sopraccigli. Il suo sorriso era sempre stentato e la sua espressione generalmente grave. Non ammetteva errori e sapeva punirli. Sapeva però custodire i segreti ed era stimato e ricercato; era un uomo intelligente e, se si faceva pagare bene da quelli che sapeva agiati, applicava generosi sconti a qualche vedova o a qualche povero artigiano. Il suo compenso non era fisso, come il lavoro, ma il maestro diventava irremovibile di fronte a testi molto estesi, opere di letteratura o filosofia o anche trattati di matematica e geometria, in cui un solo errore avrebbe compromesso una intera sezione di rotolo, in cui una omissione o un'aggiunta avrebbero cambiato il senso della frase. Gli errori comunque capitavano, e Abidos insegnava ad Alexios il modo di correggerli, magari riportando a margine la riscrittura della lettera sbagliata per maggiore chiarezza.

Quando Alexios fu in grado di trascrivere testi semplici, il maestro oberato di lavoro iniziò ad affidargliene l'esecuzione, pur sempre vigilando la sua scrittura. Non lesinò qualche complimento, allorché l'allievo congestionato dallo sforzo gli mostrava il risultato. Una volta persino gli fece un regalo, un piccolo rotolo per una scrittura privata, una pagina di diario, la sua firma. Su quel rotolo Alexios si divertiva a tracciare maiuscole e ghirigori, al punto che il maestro lo rimproverò dicendogli che tutto quel vano disegnare era uno spreco di papiro. 

Entrava proprio allora nella bottega dello scriba un uomo alto e magro, dalla barba candida ed imponente, semplicemente abbigliato con una tunica bianca. Quando lo vide, Abidos si levò in piedi e gli corse incontro con atteggiamento deferente, chiedendogli in che cosa potesse servirlo. Lo chiamava maestro. Il maestro gli consegnò un papiro della lunghezza di almeno cinque metri, ed iniziò con tono pacato e sommesso a spiegargli cosa avrebbe dovuto fare, e quanta importanza quella scrittura rivestisse. Era un'opera recentissima, un trattato di retorica, che intendeva spedire ad altri suoi pari e che era costato oltre un anno di lavoro. Per questo, desiderava che la copia fosse impeccabile, il tratto perfetto, il papiro levigato e chiaro di prima scelta. Mentre Abidos rassicurava il venerabile sulla qualità del lavoro, gli occhi del cliente si posarono sui ghirigori di Alexios. "Chi ha fatto questo?" chiese, "Quel fannullone del mio apprendista, Maestro, vogliate perdonarlo!" rispose Abidos. "Che bella coronide! Un'ibis. Ecco, concluderete così il lavoro, scriba, con un bel disegno d'ibis sotto la subscriptio". Da quel momento il disegno finì sopra l'insegna della bottega, ed Alexios ricevette il suo primo stipendio.

 

Tratto da: Maria Colaizzo - “La Scuola Marginale” - Edizioni Millerighe, Napoli 2015