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Saper essere, saper scrivere

di Matteo De Giuli 
tratto dal “Tascabile” del 27.10.21

Quale trascurabile serie di eventi, di scelte, occasioni, desideri fa sì che uno scrittore diventi uno scrittore? E cosa succede invece a chi, pur potendo o volendo scrivere, rinuncia alla scrittura? Sono vite e visioni inconciliabili? Oppure si toccano, si parlano? Quali influssi segreti si scambiano tra loro?

Il giovane narratore dello Stadio di Wimbledon si mette sulle tracce del fantasma di Bobi Bazlen, forza demiurgica e occulta dell’editoria italiana del secondo dopoguerra: icona dello scrittore-che-non-scrisse-mai-un-libro e che preferì intervenire nella vita degli altri, consulente editoriale e lettore totale che conosceva “tutte le opere in tutte le lingue del mondo”, che scoprì Svevo, fece tradurre Kafka e Musil, e inventò i “libri unici” di Adelphi. Bazlen non volle mai scrivere, si dice. Oppure è vero il contrario, che non ci riuscì, schiacciato dal peso delle proprie ambizioni? “Era uno che alzava sempre il tiro? Uno che si toglieva la terra sotto i piedi, finché si è accorto di essere andato troppo in là?”.

Un giovane si mette sulle tracce del fantasma di Bobi Bazlen, forza demiurgica occulta dell’editoria italiana del secondo dopoguerra, icona dello scrittore-che-non-scrisse-mai-un-libro.

Bazlen è morto da circa quindici anni quando il giovane parte per Trieste, e in seguito per Londra, per parlare con le persone che lo hanno conosciuto, per cercare di comprendere i motivi di un diniego tanto clamoroso e tanto in fretta dimenticato. “Quello che a me interessa è un punto, in cui forse si intersecano il saper essere e il saper scrivere. Chiunque scrive se l’immagina in un certo modo. Con lui invece in quel punto c’è stata un’esclusione, una rinuncia, un silenzio. Io vorrei capire perché”.

Ma il lettore non si trova a leggere un’inchiesta, non c’è nulla di giornalistico, i nomi dei protagonisti vengono a malapena citati, ed è probabile anzi che chi ignora le vicende non ne ricaverà molte informazioni. Il libro inizia poi in maniera anomala: un guasto a un treno innesca uno scambio di battute inaspettatamente intenso tra il protagonista e uno sconosciuto, un militare che era seduto accanto a lui sul vagone. I due scendendo dal treno in avaria iniziano a parlare di questioni ferroviarie, di ingegneria edile e poi di come sono costruiti i ponti, di “pianali prefabbricati”, “martinetti”, piloni e cavi di acciaio. Il loro dialogo mostra una inaspettata dedizione condivisa e una strana forma di affetto. Più avanti nel libro il lettore troverà resoconti del funzionamento delle navi e delle carte nautiche esposti con lo stesso sguardo tecnico, meticoloso eppure curiosamente amorevole, oltre a descrizioni dettagliate di oggetti anche più ordinari, quelli che il giovane troverà nei salotti e nelle cucine delle case che visiterà durante la sua ricerca nel passato di Bazlen.

Lo stadio di Wimbledon, appena ripubblicato da Einaudi, è il primo romanzo (1983) di Daniele Del Giudice, morto lo scorso settembre dopo una lunga malattia. È un libro, come tutti i suoi successivi, attraversato da una scelta geometrica delle parole, una cura minuziosa dedicata soprattutto ad arnesi, costruzioni, macchinari e mezzi di trasporto. Elementi che di solito la letteratura per lo più rifiuta e che Del Giudice invece rivendica e riscatta: nei libri che verranno dopo questo racconterà di aerei (a lungo), di internet e acceleratori di particelle, e lo farà sempre con uno slancio sentimentale, teso a raccontare l’uomo che vive accanto alla macchina. Come sottolinea Tiziano Scarpa nella prefazione della raccolta dei racconti di Del Giudice: gli oggetti e le tecnologie che usiamo tutti i giorni plasmano le nostre vite, i nostri modi di essere e pensare e quindi anche i sentimenti, le emozioni, e Del Giudice lo aveva capito prima che smartphone, social, e recensioni degli utenti invadessero tutto.

Leggendo Lo stadio di Wimbledon ci si accorge subito che sotto questa lingua euclidea, tecnica e certosina, scorre una sostanza viva, dominata e sconvolta da impercettibili movimenti dell’animo e dell’umore. Invece di trovare una risposta all’enorme enigma esistenziale che è la biografia di Bazlen, il giovane narratore finisce per perdersi nelle sue stesse paturnie (e inoltre è vinto dalla narcolessia, ed è quasi sempre in viaggio, e così si addormenta ovunque, soprattutto sui treni). È un giovane educato, estremamente composto, garbato fino alla paralisi, inguaribilmente a disagio. Gli estranei lo destabilizzano (“non dico nulla, ho un senso di resa totale”). Si costringe a trovare il coraggio di intervistare amici, colleghi e muse di Bazlen, li disturba nei bar, riesce a farsi invitare a casa loro, ma lo fa quasi sempre controvoglia (“vorrei mantenere una certa inerzia, con piccole spinte indispensabili e sufficienti”), ogni volta che incontra qualcuno sembra pentirsene, non vuole guardare le foto in bianco e nero che gli vengono mostrate, non vuole leggere vecchi libri con loro (“vorrei andarmene ma sono preoccupato dalle formalità”), ogni tanto getta la spugna, fa finta di avere altri impegni, poi di colpo, invece, quando riesce a non scappare e si convince a rimanere piantato sulla poltrona, gli sembra di trovare un’epifania nelle parole degli altri, e scopre di essere sulla buona strada nella sua angosciata ricerca (“avrei bisogno di un tempo laterale, parallelo, che mi permettesse di continuare a parlare e contemporaneamente di appartarmi con ciascuna delle cose che ascolto”). Poco dopo cambia di nuovo idea, capisce invece di star raccogliendo solo dettagli senza peso, tutt’al più qualche storiella che riguarda un flirt o un’antipatia di Bazlen.

Ovviamente c’è un gioco di specchi, anche se non è mai esplicito: il giovane narratore ha paura di non scrivere, si confronta con la figura del non-scrittore per eccellenza, ne è attratto e respinto, cerca di ricostruirne il pensiero ma poi se ne allontana come fosse materia radioattiva, una sorgente a cui è meglio esporsi con cautela, solo qualche minuto al giorno.

Il libro prende il titolo da una scena apparentemente minore. In una delle poche pause dalle sue interviste, il giovane entra nello stadio di Wimbledon fuori stagione, dove visita velocemente il museo e il campo vuoto, senza partite in corso.

Sotto la lingua euclidea, tecnica e certosina di Del Giudice scorre una sostanza viva, dominata e sconvolta da impercettibili movimenti dell’animo e dell’umore.

Bisogna ripercorrere alla moviola quelle poche pagine per comprenderle appieno: nello stadio ci sono altri turisti, in particolare tre ragazzi che si affacciano dalla tribuna d’onore, il palco reale. Dopo un po’ camminano ai bordi del campo “fino a una scaletta in discesa. Spariscono dal margine dell’occhio”. Così il giovane si ritrova di nuovo solo, precipita nei suoi pensieri. Torna a Bazlen naturalmente: “Tra poco avrò l’ultima occasione, e dovrei trovare qualcosa che mi portasse di colpo al perché lui non ha scritto”. È stufo. Si dice: “Vorrei solo vedere, e sentire”. Fantastica di poter superare tutti gli scontri irrisolvibili tra la vita e il racconto che ogni scrittore deve affrontare. Si ripete: se solo si potesse immortalare la realtà in qualche altro modo, se si potesse rinunciare alla parola. Pensa: se potessi piuttosto “fotografare una visione di insieme, o un particolare che conta solo per me”. In quel momento si accorge che su una panca, al di là dei gradini, i tre ragazzi hanno dimenticato una macchina fotografica. Il giovane narratore fantastica per un po’ di rubarla, di iniziare a scattare foto dello stadio vuoto dove sta vivendo questa sua epifania inafferrabile. Non trova il coraggio di alzarsi, però. “Non faccio nulla; aspetto che le cose accadano, come sempre”. E così di nuovo tutto cambia in pochi secondi: un altro visitatore, un suo doppio più veloce e determinato, raccoglie la macchina abbandonata e senza fretta si allontana dalle gradinate, lasciando il protagonista alla sua stasi.

Eppure forse è proprio questo il momento in cui il giovane narratore diventa giovane scrittore. Capisce che per lui non c’è via di fuga dai “pensieri confusi”, dal “vortice di acume, o di rigore, o di ironia per compensare, o di angoscia paralizzante, o non so”. In questo impasto indolente l’indagine su Bazlen finisce per non avere più domande né risposte, e il tormento del giovane, girando infinitamente a vuoto su se stesso, trova la sua via per farsi letteratura.