Fatena Al-Ghurra
è una poetessa e giornalista palestinese. I suoi genitori si sono trasferiti a
Gaza dopo l’occupazione israeliana del loro villaggio nel 1948. Fatena è nata e
ha vissuto a Gaza per la maggior parte della sua vita ed è emigrata in Egitto,
Francia e infine in Belgio. Nel 2016 le è stato conferito lo status di
cittadina belga e quindi è stata inviata all’IWP’17 come scrittrice belga della
diaspora araba.
Le vie
della città sono deserte
tutti gli ingressi bloccati da barricate
le pareti, le finestre e le porte delle piazze
avvolte in filo spinato
deserto e devastato questo mondo.
Gli uccelli si svegliano sospendendo le loro voci
sulle corde del patibolo,
nati dalle strade
gridano i loro canti
mentre le loro voci,
una dopo l’altra,
sono raccolte
da una mano lontana dagli artigli neri
e scolpiti come pugnali,
così che torni solo il suono del vento.
Ho provato ad
allungare la testa da dietro una finestra appartata
ma quell’oscurità nera mi ha inghiottito
come mano gelatinosa che si estendeva dentro il mio ventre
per tirare fuori le vibrazioni del suo respiro
e del suo suono.
Provo a urlare
forse si schiarisce così questo colore denso e scuro che avvolge la mia mente.
La mia mano mi tira dentro la testa
come fosse quella di una statua che sporge dal muro.
Il colore
denso e appiccicoso mi tira la testa dall’altra parte
e una mano con qualità ignote
mi stringe il volto
prova a strapparlo,
nell’angolo che non vedo
sento un ululato breve e intermittente
come la voce di un cane calpestato da un carro
indifferente alle sue ossa schiacciate sotto le ruote
il suo sangue, versato nella strada, si mescola alla polvere
creando mappe e città vuote.
Le mie orecchie risuonano di voci vaghe
sollevando urli e scontri
un lamento ricorrente ne divora i passaggi d’aria
una cascata mi esplode tra i piedi.
E io sto
in piedi stringendo la testa con una mano
con dita che lottano
per bloccare l’aria che passa e l’udito nelle mie orecchie
con la lingua che combatte
per muoversi dalla posizione in cui giace,
un’anima girata come pecora sullo spiedo
né caldo né freddo
ma fuoco lento,
l’aria pesante guida le sue fiamme
il movimento gira
in modo lento e uniforme.
Volti
strani si affacciano
sopra ogni lingua, un volto si affaccia
restituisce lingue
bare sopra i bordi incrinati
la mia mano tira la testa ramificata
la mia testa che piange,
dal mondo deserto e devastato
mi hanno strappato le tue braccia, amore mio
in un attimo fuggente.
Quanto
tempo è passato da quando dormo e mi sveglio
tra due braccia d’ottone familiari
ma quando i miei occhi hanno osato
due fiumi di puro miele li stavano accerchiando
e un cuore di cristallo tracciava tutti i passaggi
Ed eri tu.
Poesie inedite in italiano, per gentile concessione
dell’autrice. Traduzione dall’arabo di Sana Darghmouni.
(segnalata da Virginia Varriale)
tutti gli ingressi bloccati da barricate
le pareti, le finestre e le porte delle piazze
avvolte in filo spinato
deserto e devastato questo mondo.
Gli uccelli si svegliano sospendendo le loro voci
sulle corde del patibolo,
nati dalle strade
gridano i loro canti
mentre le loro voci,
una dopo l’altra,
sono raccolte
da una mano lontana dagli artigli neri
e scolpiti come pugnali,
così che torni solo il suono del vento.
ma quell’oscurità nera mi ha inghiottito
come mano gelatinosa che si estendeva dentro il mio ventre
per tirare fuori le vibrazioni del suo respiro
e del suo suono.
Provo a urlare
forse si schiarisce così questo colore denso e scuro che avvolge la mia mente.
La mia mano mi tira dentro la testa
come fosse quella di una statua che sporge dal muro.
e una mano con qualità ignote
mi stringe il volto
prova a strapparlo,
nell’angolo che non vedo
sento un ululato breve e intermittente
come la voce di un cane calpestato da un carro
indifferente alle sue ossa schiacciate sotto le ruote
il suo sangue, versato nella strada, si mescola alla polvere
creando mappe e città vuote.
Le mie orecchie risuonano di voci vaghe
sollevando urli e scontri
un lamento ricorrente ne divora i passaggi d’aria
una cascata mi esplode tra i piedi.
con dita che lottano
per bloccare l’aria che passa e l’udito nelle mie orecchie
con la lingua che combatte
per muoversi dalla posizione in cui giace,
un’anima girata come pecora sullo spiedo
né caldo né freddo
ma fuoco lento,
l’aria pesante guida le sue fiamme
il movimento gira
in modo lento e uniforme.
sopra ogni lingua, un volto si affaccia
restituisce lingue
bare sopra i bordi incrinati
la mia mano tira la testa ramificata
la mia testa che piange,
dal mondo deserto e devastato
mi hanno strappato le tue braccia, amore mio
in un attimo fuggente.
tra due braccia d’ottone familiari
ma quando i miei occhi hanno osato
due fiumi di puro miele li stavano accerchiando
e un cuore di cristallo tracciava tutti i passaggi
Ed eri tu.