Il Rapporto
Gimbe denuncia «la lenta agonia» del Ssn. Negli ultimi 3 anni tagliati 13,1
miliardi mentre le famiglie sborsano 41,3 miliardi
di Vito Salinaro
tratto da “Avvenire” del 8 ottobre 2025
Negli ultimi tre
anni il Fondo sanitario nazionale (Fsn) ha perso 13,1 miliardi. Chiamando
spesso a ripianare le famiglie che, solo nel 2024, hanno dirottato sulle spese
mediche 41,3 miliardi. Un “privilegio” però che un italiano su dieci non può
permettersi, infatti rinuncia a curarsi. I medici? Non mancano affatto, anzi,
siamo al secondo posto in Europa per numero, semmai mancano gli infermieri.
L’ottavo Rapporto della Fondazione Gimbe descrive una «lenta agonia» del
Servizio sanitario nazionale (Ssn), che attraversa manovre e governi, che
spiana la strada al privato e che non riesce a mettere a frutto i benefici dei
fondi del Pnrr Salute, visto che «solo il 4,4% della case della comunità è
davvero attivo».
«Definanziamento
perenne», lo chiama Gimbe. E non inducano in errore i miliardi di euro in
progressivo aumento: dai 125,4 del 2022 ai 136,5 del 2025. Perché quelle
risorse, dice il presidente di Gimbe, Nino Cartabellotta, sono in buona parte
erose dall’inflazione e dall’aumento dai costi energetici. Ciò che conta,
aggiunge Cartabellotta, è la percentuale del Fsn sul Pil, «scesa dal
6,3% del 2022 al 6% del 2023, per attestarsi al 6,1% nel 2024-2025, pari a una
riduzione in termini assoluti di 4,7 miliardi nel 2023, di 3,4 miliardi nel
2024 e di 5 miliardi nel 2025». In altre parole, «se è certo che nel triennio
2023-2025 il Fsn è aumentato di 11,1 miliardi, è altrettanto vero che con il
taglio alla percentuale di Pil la sanità ha lasciato per strada 13,1 miliardi».
E se, dal punto di vista previsionale, il Documento programmatico di finanza pubblica 2025 «stima un rapporto spesa sanitaria/Pil stabile al 6,4% per gli anni 2025, 2027 e 2028, e al 6,5% nel 2026», la Legge di Bilancio «racconta un’altra storia: la quota di Pil destinata al Fsn scenderà dal 6,1% del 2025-2026 al 5,9% nel 2027 e al 5,8% nel 2028». Un divario «che rischia di scaricarsi» sui bilanci delle Regioni, in termini di riduzione di servizi o di pressione fiscale. Complessivamente, evidenzia il Rapporto, la spesa sanitaria per il 2024 ha raggiunto i 185,1 miliardi: 137,4 di parte pubblica (74,3%) e 47,6 miliardi privata, di cui 41,3 miliardi pagati direttamente dalle famiglie e 6,3 miliardi da fondi sanitari e assicurazioni. Nel 2024, 1 italiano su 10 (oltre 5,8 milioni di persone), ha rinunciato a curarsi, con marcate differenze regionali: dal 5,3% della Provincia di Bolzano al 17,7% della Sardegna. «E il quadro è destinato a peggiorare».
Nulla di nuovo sul fronte del divario tra due Italie: solo 13 Regioni, indica il Rapporto, rispettano i Livelli essenziali di assistenza (Lea), prestazioni e servizi da garantire a tutti i cittadini gratuitamente o previo pagamento di un ticket. «Al Sud si salvano Puglia, Campania e Sardegna». La cartina al tornasole degli adempimenti Lea è la mobilità sanitaria che, nel 2022, ha fatto registrare un valore di oltre 5 miliardi: Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto hanno raccolto il 94,1% del saldo attivo, mentre il 78,8% del saldo passivo è stato concentrato in 5 regioni del Centro-Sud: Abruzzo, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Lazio. Le conseguenze di questa permanente “frattura strutturale” tra Nord e Sud si riflettono anche nell’aspettativa di vita: 84,7 anni a Trento, 81,7 in Campania. «Un drammatico segnale – commenta Cartabellotta – che testimonia la bassa qualità dei servizi sanitari del Sud, oltre al fallimento di Piani di rientro e commissariamenti».
E poi c’è il capitolo “privato”: «L’indebolimento della sanità pubblica favorisce la continua espansione dei soggetti privati, ben oltre la sanità privata convenzionata», dichiara Cartabellotta. Secondo il ministero della Salute (2023) su 29.386 strutture sanitarie, 17.042 (58%) sono private accreditate e prevalgono sul pubblico in varie aree: assistenza residenziale (85,1%), riabilitativa (78,4%), semi-residenziale (72,8%) e specialistica ambulatoriale (59,7%). Nel 2024 la spesa pubblica destinata al privato convenzionato ha raggiunto 28,7 miliardi, ma in termini percentuali è scesa al minimo storico del 20,8%. A correre davvero, viene specificato da Gimbe, è invece il “privato puro”: tra il 2016 e il 2023 la spesa delle famiglie verso queste strutture è aumentata del 137%, passando da 3 a 7,2 miliardi.
Quello che
stupisce, nel Rapporto Gimbe, è che «in Italia non c’è affatto carenza di medici»,
c’è invece un’autentica «fuga continua dal Ssn e carenze selettive in
specialità ritenute poco attrattive e nella medicina generale». Numeri alla
mano, la fotografia è questa: nel nostro Paese, nel 2023, i medici dipendenti
erano 109.024 (1,85 per 1.000 abitanti), e quelli convenzionati 57.880. Ma
secondo l’Ocse, che include tutti i medici in attività compresi gli
specializzandi, il nostro Paese conta ben 315.720 camici bianchi (5,4 ogni
1.000 abitanti). «Siamo secondi dopo l’Austria, con un valore nettamente
superiore alla media Ocse (3,9) e a quella dei Paesi europei (4,1)».
A mancare in realtà sono gli infermieri: ne abbiamo 6,5 ogni 1.000 abitanti rispetto alla media Ocse di 9,5. Stando ai dati nazionali, nel 2023 erano 277.164 gli infermieri dipendenti, pari a 4,7 per 1.000 abitanti, con un range che varia da 3,53 della Sicilia a 6,86 della Liguria. Sul fronte della medicina territoriale, a gennaio 2024 si stimava una carenza di 5.575 medici di medicina generale e di 502 pediatri di libera scelta. Capitolo retribuzioni: quelle di casa nostra restano ben al di sotto della media Ocse. A parità di potere di acquisto per i consumi privati, da noi i medici specialisti ricevono un compenso medio di 117.954 dollari (media Ocse 131.455 dollari), gli infermieri ospedalieri 45.434 dollari (media Ocse 60.260). «Rimane incomprensibile – incalza Cartabellotta – la scelta di formare più medici, senza prima attuare misure concrete per arginarne la fuga dalla sanità pubblica e restituire attrattività e prestigio alla carriera nel Ssn. Così rischiamo di investire denaro pubblico per regalare professionisti al privato o all’estero».
Stenta, seppure
non manchino avanzamenti, l’assistenza territoriale. L’Agenas (Agenzia
nazionale per i servizi sanitari regionali) stima ritardi e disomogeneità
regionali. Fatta eccezione per le Centrali operative territoriali, il cui
target è stato già raggiunto, al 30 giugno 2025 delle 1.723 Case della comunità
programmate, 218 (12,7%) avevano attivato tutti i servizi previsti e, di queste,
solo 46 (2,7%) disponevano di personale medico e infermieristico. Per gli
Ospedali di comunità, a fronte di 592 strutture programmate, solo 153 (26%)
sono state dichiarate attive, per complessivi 2.716 posti letto. Quanto
all’Assistenza domiciliare integrata, la copertura formale è garantita in tutte
le regioni tranne che in Sicilia (78%). Questo nuovo disegno della sanità di
prossimità è supportato dai fondi del Pnrr ma per portare a termine la
“Missione salute” mancano 14 obiettivi da raggiungere entro il 30 giugno 2026.
Dal monitoraggio indipendente Gimbe emerge che 4 target sono in anticipo o già
completati: ristrutturazioni degli ospedali, assistenza domiciliare per gli
over 65, grandi apparecchiature, contratti di formazione specialistica.
«Siamo testimoni
di un lento ma inesorabile smantellamento del Servizio sanitario nazionale, che
spiana la strada a interessi privati di ogni forma – lamenta Cartabellotta -.
Da anni, i Governi di ogni colore politico promettono di difendere il Ssn ma
nessuno ha mai avuto la visione e la determinazione necessarie per rilanciarlo
con adeguate risorse e riforme strutturali. Le drammatiche conseguenze sono
sotto gli occhi di tutti: aumento delle disuguaglianze, famiglie schiacciate da
spese insostenibili, cittadini costretti a rinunciare a prestazioni sanitarie,
personale demotivato che abbandona la sanità pubblica. È la lenta agonia di un
bene comune che rischia di trasformarsi in un privilegio per pochi». Per
questo, la Fondazione Gimbe invoca «un nuovo patto politico che superi
ideologie partitiche e avvicendamenti di Governo, riconoscendo nel Ssn un
pilastro della democrazia, uno strumento di coesione sociale e un motore di
sviluppo; un patto sociale che renda i cittadini consapevoli del valore della
sanità pubblica e li educhi a un uso responsabile dei servizi; un patto
professionale in cui tutti gli attori della sanità devono rinunciare ai
privilegi di categoria per salvaguardare il bene comune».
tratto da “Avvenire” del 8 ottobre 2025
E se, dal punto di vista previsionale, il Documento programmatico di finanza pubblica 2025 «stima un rapporto spesa sanitaria/Pil stabile al 6,4% per gli anni 2025, 2027 e 2028, e al 6,5% nel 2026», la Legge di Bilancio «racconta un’altra storia: la quota di Pil destinata al Fsn scenderà dal 6,1% del 2025-2026 al 5,9% nel 2027 e al 5,8% nel 2028». Un divario «che rischia di scaricarsi» sui bilanci delle Regioni, in termini di riduzione di servizi o di pressione fiscale. Complessivamente, evidenzia il Rapporto, la spesa sanitaria per il 2024 ha raggiunto i 185,1 miliardi: 137,4 di parte pubblica (74,3%) e 47,6 miliardi privata, di cui 41,3 miliardi pagati direttamente dalle famiglie e 6,3 miliardi da fondi sanitari e assicurazioni. Nel 2024, 1 italiano su 10 (oltre 5,8 milioni di persone), ha rinunciato a curarsi, con marcate differenze regionali: dal 5,3% della Provincia di Bolzano al 17,7% della Sardegna. «E il quadro è destinato a peggiorare».
Nulla di nuovo sul fronte del divario tra due Italie: solo 13 Regioni, indica il Rapporto, rispettano i Livelli essenziali di assistenza (Lea), prestazioni e servizi da garantire a tutti i cittadini gratuitamente o previo pagamento di un ticket. «Al Sud si salvano Puglia, Campania e Sardegna». La cartina al tornasole degli adempimenti Lea è la mobilità sanitaria che, nel 2022, ha fatto registrare un valore di oltre 5 miliardi: Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto hanno raccolto il 94,1% del saldo attivo, mentre il 78,8% del saldo passivo è stato concentrato in 5 regioni del Centro-Sud: Abruzzo, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Lazio. Le conseguenze di questa permanente “frattura strutturale” tra Nord e Sud si riflettono anche nell’aspettativa di vita: 84,7 anni a Trento, 81,7 in Campania. «Un drammatico segnale – commenta Cartabellotta – che testimonia la bassa qualità dei servizi sanitari del Sud, oltre al fallimento di Piani di rientro e commissariamenti».
E poi c’è il capitolo “privato”: «L’indebolimento della sanità pubblica favorisce la continua espansione dei soggetti privati, ben oltre la sanità privata convenzionata», dichiara Cartabellotta. Secondo il ministero della Salute (2023) su 29.386 strutture sanitarie, 17.042 (58%) sono private accreditate e prevalgono sul pubblico in varie aree: assistenza residenziale (85,1%), riabilitativa (78,4%), semi-residenziale (72,8%) e specialistica ambulatoriale (59,7%). Nel 2024 la spesa pubblica destinata al privato convenzionato ha raggiunto 28,7 miliardi, ma in termini percentuali è scesa al minimo storico del 20,8%. A correre davvero, viene specificato da Gimbe, è invece il “privato puro”: tra il 2016 e il 2023 la spesa delle famiglie verso queste strutture è aumentata del 137%, passando da 3 a 7,2 miliardi.
A mancare in realtà sono gli infermieri: ne abbiamo 6,5 ogni 1.000 abitanti rispetto alla media Ocse di 9,5. Stando ai dati nazionali, nel 2023 erano 277.164 gli infermieri dipendenti, pari a 4,7 per 1.000 abitanti, con un range che varia da 3,53 della Sicilia a 6,86 della Liguria. Sul fronte della medicina territoriale, a gennaio 2024 si stimava una carenza di 5.575 medici di medicina generale e di 502 pediatri di libera scelta. Capitolo retribuzioni: quelle di casa nostra restano ben al di sotto della media Ocse. A parità di potere di acquisto per i consumi privati, da noi i medici specialisti ricevono un compenso medio di 117.954 dollari (media Ocse 131.455 dollari), gli infermieri ospedalieri 45.434 dollari (media Ocse 60.260). «Rimane incomprensibile – incalza Cartabellotta – la scelta di formare più medici, senza prima attuare misure concrete per arginarne la fuga dalla sanità pubblica e restituire attrattività e prestigio alla carriera nel Ssn. Così rischiamo di investire denaro pubblico per regalare professionisti al privato o all’estero».