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Care
lettrici e cari lettori,
questa settimana ancora e sempre Gaza è al centro dell'attenzione di tutti.
Sì, di tutti, perché le folle oceaniche viste tra venerdì sera e ieri nelle
città italiane - e che si vedrano oggi nella manifestazione nazionale di
Roma - dimostrano un interesse sincero, un desiderio di
"esserci", di fare qualcosa in prima persona per dire
"basta" a questa guerra devastante. Intanto procedono le
trattative tra Israele ed Hamas, a partire dal piano elaborato a Washington
con il presidente americano Trump: sono ore decisive per capire se gli
ostaggi ancora in mano agli estremisti saranno rilasciati e se l'offensiva
di Tel Aviv si fermerà. Ecco, parliamo di Israele e facciamoci una
domanda: cosa non ha
funzionato perché Israele passasse dalla solidarietà dopo l'eccidio del 7
ottobre, di cui tra pochi giorni ricorre il secondo anniversario,
alla riprovazione così
massiccia in tutto il mondo, con poche eccezioni, tanto da chiamare
"genocidio" quello che sta portando avanti a Gaza?
Lo
spiega in un bell'intervento sul nostro inserto culturale Gutenberg la
storica Anna Foa. Il fatto è che la iniziale "guerra di difesa"
di Israele dopo pochi mesi ha cominciato ad «apparire come una
gigantesca operazione che mirava non a sconfiggere Hamas e a liberare gli
ostaggi, ma all’annessione dei territori occupati e all’espulsione dei
palestinesi e che aveva il suo centro nella Cisgiordania: la sede del
Governo provvisorio palestinese che avrebbe dovuto, negli accordi di Oslo,
essere il nucleo del futuro Stato palestinese». Più ancora che i
bombardamenti e le decine di migliaia di morti sotto le bombe, «a
determinare il cambiamento dell’opinione pubblica sono la carestia indotta,
e negata pervicacemente da Netanyahu, e il blocco dei rifornimenti a pochi
chilometri dai luoghi dove i palestinesi muoiono di fame (...). Misure
contro Israele, boicottaggi economici e culturali, blocco dell’invio di
armi vengono chieste anche da Paesi, istituzioni, gruppi fino a quel
momento esitanti o contrari. Solo gli Stati Uniti di Trump restano come inamovibile
supporto di Israele». Nelle ultime settimane la situazione è
precipitata, con gli sfollati, l'esilio forzato e, d'altro canto, i nuovi
spiragli a livello internazionale. Il recente riconoscimento dello Stato di
Palestina da parte di tanti Paesi (non l'Italia) è un forte sostegno ai
palestinesi e alla loro identità, «un riconoscimento morale, nel
momento in cui a Gaza si realizza uno sterminio e in Cisgiordania il
governo Netanyahu si accinge all’annessione». Il riconoscimento e il
fragile accordo di tregua sottoposto ora al vaglio di Hamas. conclude Anna
Foa, «sono sottili tracce di luce nella notte che stiamo vivendo, non
solo in Palestina e in Israele ma anche qui, nella vecchia Europa sempre
più in difficoltà fra le aggressioni dello zar Putin e quelle solo verbali
di Trump. Sta a noi farle diventare un faro che dissolva l’oscurità».
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Una ex infermiera è
la prima donna a capo della Chiesa anglicana d'Inghilterra
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La Chiesa anglicana d'Inghilterra avrà per la
prima volta come capo una donna, Sarah Elizabeth Mullally (nata
Bowser), 63 anni, eletta ieri arcivescova di Canterbury, massima
autorità nella gerarchia anglicana, succedendo a Justin Welby,
dimessosi lo scorso 6 gennaio. A eleggerla è stata l'assemblea sinodale
sotto la supervisione di un comitato di garanti nominato dal re
d'Inghilterra. Mullally, nata a Woking, cittadina a una trentina di
chilometri da Londra, è un'ex infermiera arrivata nel 1999 a ricoprire
ii ruolo di capo del Servizio infermieristico d'Inghilterra. Divenuta
sacerdotessa nel 2002, nel 2004 ha deciso di lasciare gli impegni
civili e di dedicarsi a tempo pieno al lavoro pastorale. Ricevuta nel
2015 l'ordinazione episcopale - quarta donna vescovo della Chiesa
d'Inghilterra - ha guidato prima la diocesi di Crediton e dal 2018
l'arcidiocesi Londra. È sposata dal 1987 e ha due figli adulti, Liam e
Grace. «Lavare i piedi ha plasmato la mia vocazione cristiana: come
infermiera, poi come sacerdotessa, poi come vescova» ha detto Mullally,
«nel caos apparente che ci circonda, nel mezzo di una così profonda
incertezza globale, la possibilità di guarigione risiede in atti di
gentilezza e amore».
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